Buoni del tesoro, verso il calo dei rendimenti?
L'inflazione arretra più rapidamente del previsto. Il fenomeno potrebbe convincere le banche centrali ad abbassare il costo del denaro in anticipo rispetto alle previsioni, ridimensionando le performance dei Bot. E rendendo più redditizie, nell'obbligazionario, le soluzioni con duration lunga. Materie prime in calo, mentre la Cop28 si spacca sui combustibili fossili
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Si profila una chiusura d'anno positiva per le Borse europee, che stanno sovraperformando quelle americane. Mentre a Milano, dopo il calo della scorsa settimana, tornano a sorridere i titoli bancari, guidati da Mps e da Banco Bpm. Più in particolare, l'istituto di credito lombardo-veneto ha incassato il sì degli investitori al nuovo piano industriale appena presentato, che si attende, dal 2023 al 2026, un utile netto cumulato di 6 miliardi di euro, con una remunerazione degli azionisti a 4 miliardi.
Il 2024? Un enigma
Come più volte ricordato, abbiamo assistito a un novembre impetuoso, che ha lasciato fuori dal mercato molti investitori, prima scettici e poi sorpresi dalla velocità dei rimbalzi. E ora si prevede una chiusura dell'anno su valori stabili o comunque in leggero rialzo, anche per il tradizionale calo di scambi in periodo natalizio. Mentre sono molto difficili le previsioni per i primi mesi del 2024, che potrebbe aprirsi sia con un nuovo periodo positivo, sia con una flessione fisiologica, dopo un 2023 davvero soddisfacente.
Bond, il cambiamento di prospettiva
Un fatto sembra abbastanza certo: all'orizzonte si staglia un calo dell'inflazione più veloce del previsto, che potrebbe accelerare la discesa anticipata dei tassi di interesse. E' probabile che ad aprire le danze sia la Fed, dato che generalmente la Banca Centrale Europea non brilla per iniziativa. In ogni caso, i mutamenti che si stanno profilando più rapidi del previsto porteranno presto a un taglio dei rendimenti dei titoli di Stato: il miraggio con Bot e Btp al 4% sta rapidamente svanendo e non sarebbe sorprendente vederli in tempi brevi al 2,5%. Chi si orienta sull'obbligazionario dovrebbe ora spostarsi nel più breve tempo possibile su soluzioni a scadenza lunga, che presto torneranno più redditizie.
Germania, malato d'Europa
Una delle maggiori preoccupazioni per il 2024 è la crisi di bilancio tedesca, con il buco di 60 miliardi di euro scovato dalla corte Costituzionale, che andranno a impattare sui conti del prossimo anno. Mettendo a rischio il welfare del Paese - uno dei migliori al mondo - e i contributi pubblici. E prospettando per Berlino un'inattesa austerity. Per spiegare le difficoltà tedesche è sufficiente fare uno più uno. La Germania riceveva il gas a basso costo dalla Russia e ora non l'ha quasi più. E ancora: la Germania è, tra le economie europee, la più esposta nei confronti della Cina, soprattutto nel settore automobilistico. In queste condizioni, la crisi di Pechino, con la deflazione e il calo delle importazioni (-15%), ha un impatto forte sull'economia tedesca. Il passo indietro delle vetture made in Germany sul mercato cinese va poi di pari passo con la transizione dall'endotermico all'elettrico: nonostante le marce forzate delle maggiori aziende automotive tedesche, Pechino ha un vantaggio troppo grande nel settore. Risultato: la Germania – come si domandava l'Economist lo scorso agosto – è il malato d'Europa. Una situazione che rischia di riverberarsi su tutta l'Unione: se la locomotiva tedesca dovesse andare in affanno, sarebbe davvero un male per tutti. Specialmente per l'Italia, di cui Berlino è il maggiore partner commerciale. A questo punto, anche la Germania potrebbe avere interesse a rivedere il patto di stabilità e a evitare che la misura torni in vigore esattamente come prima del Covid. Con clausole che, oggi come oggi, nessun Paese membro sarebbe in grado di rispettare.
Cop28, disaccordo sui combustibili fossili
Scendono ancora le quotazioni delle materie prime: si sono infatti verificati cali per rame, alluminio e oro, mentre il petrolio si è ormai stabilizzato nella forbice 70-80 dollari al barile. Tutto questo mentre lo stesso greggio e i combustibili fossili in generale, sono stati al centro del dibattito alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop28) di Dubai. Si è creata infatti una contrapposizione molto forte fra due schieramenti ben definiti. Da una parte i paesi, guidati dall'Ue, che spingevano per un abbandono programmato dei combustibili fossili entro il 2050. Dall'altra gli Stati produttori di petrolio, le cui istanze sono state portate dal presidente della Conferenza Sultan Al Jaber, ministro dell'Industria e della Tecnologia avanzata degli Emirati Arabi Uniti, nonché capo dell'industria nazionale del petrolio. Alla fine, dal documento finale è stata rimosso il termine phaseout, cioè “uscita graduale” dai combustibili fossili.Questo compromesso, imposto obtorto collo ai sostenitori delle “emissioni zero”, è apparso inizialmente come una soluzione di comodo capace di scontentare tutti (specialmente l'Ue), vanificare la Conferenza e bloccare un programma di disimpegno da petrolio e carbone. Ma, se esaminiamo le cose in profondità, i Paesi produttori hanno le loro argomentazioni – anche se, naturalmente, molto influenzate dai loro interessi particolari. Nel suo discorso sul palco della Cop28, Sultan Al Jaber ha affermato che oggi come oggi senza combustibili fossili il mondo tornerebbe all'età della pietra. Questo può piacerci o no, ma – almeno nella situazione attuale – è la verità. Un sostituto di carbone e petrolio ancora non è stato trovato e le energie alternative possono coprire solo in minima parte le esigenze di imprese, famiglie e mobilità.
Realpolitik
Il compromesso proposto alla Conferenza, definito inaccettabile dall'Unione Europea, fa comunque comprendere che il petrolio non cederà il passo troppo facilmente. I Paesi arabi dispongono di somme enormi di denaro, con cui si riveleranno certamente in grado di influenzare molte decisioni in merito. E anche gli Stati Uniti, che recentemente hanno stabilito il record per produzione domestica di petrolio e gas, sono autosufficienti e difficilmente rinunceranno ai combustibili fossili. Specialmente se il Paese passerà a guida repubblicana. E l'Europa? Teoricamente è molto impegnata nella campagna “zero emissioni”. Ma la classe politica Ue ha fatto i conti senza l'oste. E cioè i cittadini. Perché tutti parlano di passaggio alle energie alternative, ma nessuno comunica al consumatore quanto costeranno. In una Germania già in difficoltà, per esempio, il governo è stato costretto a rinunciare al progetto che prevedeva l'accantonamento degli scaldabagni a gas per la rivolta delle famiglie. Insomma: finché non si troveranno combustibili davvero alternativi (ed economici), ogni progetto tendente a raggiungere le “emissioni zero” sarà destinato a naufragare. Più che un'irrealizzabile uscita dal mondo fossile, dunque, sembra più realistico un piano serio e circostanziato in grado di tagliare dove possibile il loro utilizzo.
Foto di engin akyurt su Unsplash
Tassi di interesse, mercati con il fiato sospeso
Dopo i dati sul lavoro americano, sembra più difficile che la Federal Reserve insista con la stretta monetaria. Più incertezza invece in casa Bce, dove Christine Lagarde, oggetto di aspre critiche da parte dell'Economist, non fa trapelare alcuna previsione
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Dati contrastanti dal dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti sull'occupazione nel mese di agosto. Da una parte, infatti, le imprese dello Zio Sam hanno creato più posti rispetto alle attese (187.000 contro i 170.000 attesi). Dall'altra, però, il tasso di disoccupazione è salito dal 3,5% al 3,8%, facendo segnare il record dal mese di febbraio 2022.
Aspettando il 14 settembre
Con questi dati, diventa meno probabile il rialzo dei tassi Usa, che pur era stato presentato come ipotesi plausibile dalla Fed al summit di Jackson Hole. Il rallentamento dell'economia è ormai sotto gli occhi di tutti, e trova un'ulteriore dimostrazione dai dati macro e micro di Usa, Cina ed Eurozona. Già, l'Eurozona, i cui mercati attendono con trepidazione la riunione del prossimo 14 settembre, che dovrà stabilire se alzare ulteriormente i tassi o fermare la stretta monetaria e sancirne il picco (o, molto più probabilmente, il plateau). Se dovessimo dar retta ai numeri, occorrerebbe fermare l'innalzamento dei tassi. L'inflazione, è vero, ad agosto è tornata a crescere (5,3%, oltre le previsioni); tuttavia, occorre esaminare i trend, in discesa da qualche mese – a parte la recente fiammata del petrolio, che ha poi innescato la nuova campagna speculativa sulla benzina. Nel mentre, è avvenuta una contrazione del prodotto interno lordo tedesco, e anche di quello italiano (-0,4%), e le previsioni sono di un pil negativo in tutta Europa. Proprio mentre si parla della reintroduzione, dal prossimo 1 gennaio, del tasso di stabilità – decisione che aggraverebbe ulteriormente la situazione.
I siluri dell'Economist
Questi trend sconsigliano un rafforzamento della stretta monetaria. Non per niente – nel mezzo di una battaglia che in casa Bce sta contrapponendo falchi e colombe – persino Christine Lagarde non si sbottona, invocando invece apertamente più umiltà e (bontà sua) una migliore comunicazione. E' lecito chiedersi se queste esternazioni siano state influenzate dalle dure critiche dell'Economist alla presidente Bce. Il periodico inglese ha evidenziato il rischio stagflazione, che turberebbe i sonni dei politici europei, ma non della banca centrale, per cui sarebbe preferibile una “sofferenza economica, piuttosto che non riuscire a ridurre la crescita dei prezzi”. L'Economist ha sottolineato l'indebolimento dell'economia europea, mentre il raggiungimento del target del 2% non è cosa del tutto certa. I politici, ha aggiunto il periodico, dovrebbero tenere i tassi fermi, per organizzare una reazione in caso di scenari catastrofici.
La crisi cinese
L'attesa frenetica del 14 settembre ha reso un po' inquiete le Borse, anche se tutto sommato il livello di nervosismo è ancora accettabile. Tradizionalmente, infatti, settembre e ottobre sono mesi non troppo favorevoli, e per di più una flessione può rivelarsi fisiologica in una situazione che ha visto i listini in ottima salute per dieci mesi. Tuttavia pesa come una spada di Damocle la crisi della Cina, che risente di un problema strutturale: la sua crescita è stata molto impetuosa e, proprio per questo motivo, difficile da gestire. Pechino ha anche sofferto il disimpegno degli investimenti americani, iniziato sotto il mandato presidenziale di Donald Trump e proseguito da Joe Biden. La Repubblica Popolare deve inoltre relazionarsi con una mancanza strutturale di materie prime, che la costringe a legarsi mani e piedi alla Russia e a cercare di espandere la sua sfera di influenza in Africa, oltre a proseguire con convinzione nel progetto dei Brics. C'è poi il problema del debito. Oltre a registrare quello “ufficiale” (4.700 miliardi di euro, che addizionando famiglie e aziende raggiunge il 282% del pil), la Cina dovrà fare i conti con prestiti e bond allocati dagli enti locali. Con cui rischia di raggiungere un importo-monstre stimato di circa 8.350 miliardi di euro.
Materie prime
A proposito di materie prime, non è solo il caro-petrolio a preoccupare mercati, aziende e famiglie. I consueti rumours, infatti, prevedono un nuovo, imminente rialzo dei prezzi dell'energia. Qualcuno si preoccupa anche di avvenimenti lontani, come la minaccia di sciopero da parte dei lavoratori australiani della Chevron Lng: i lavoratori degli impianti naturali di gas potrebbero incrociare le braccia dal 14 settembre per 15 giorni. “L’Offshore Alliance sta intensificando le azioni sindacali protette per dimostrare che i nostri negoziati sul contratto sono tutt’altro che intrattabili'”, hanno dichiarato i rappresentanti dei lavoratori. Un'azione così circoscritta e legata a un'area del mondo così sganciata dall'Europa non dovrebbe, di per sé, rappresentare un problema sul prezzo del gas nel nostro continente: a preoccupare maggiormente sono gli scioperi in atto in Gran Bretagna, soprattutto nei servizi e nei trasporti. Ma, come abbiamo imparato da alcuni anni a questa parte, qualsiasi intoppo in ogni parte del mondo può dare inizio a una speculazione su scala globale.
Africa inquieta
Nel mentre, un nuovo colpo di stato cambia i vertici in un altro paese africano. Questa volta, al centro dell'attenzione è il Gabon, dove il generale Brice Clotaire Oligui Nguema ha posto fine al lungo governo del presidente Ali Bongo Ondimba, che nel 2009 si era insediato succedendo al padre Omar, a sua volta in sella dal 1967. Un nuovo colpo alla Francia, che rischia di vedersi sottratta, come in una versione 2.0 di Risiko (o di Pacman, fate voi) un’altra colonna della sua sfera d'influenza politica ed economica nel continente, non per nulla soprannominata “Françafrique”. Una colonna portante, se è vero che Libreville è paese esportatore di petrolio (membro dell'Opec dal 1975) e, ancora di più, di manganese e di legno pregiato. Oltre a questo, Parigi rischia un'erosione della propria dotazione neocoloniale, senza che il fenomeno sia adeguatamente considerato dai paesi del nord Europa, poco interessati alle vicende africane. La stagione dei colpi di stato nella parte dell'ampia zona di influenza francese, così ravvicinati tra di loro, rischia anche di indebolire il franco cfa, che insieme all'euro è l'unica moneta transnazionale su grande scala esistente al mondo.
Vigilante attesa
In questa situazione, la scelta più saggia per gli investitori è mantenersi in vigilante attesa, con antenne puntate sui mercati asiatici, le materie prime e le manovre elettorali negli Stati Uniti. Ma soprattutto - come ampiamente ricordato - sulla riunione Bce del 14 settembre, che potrebbe sancire (come molti si augurano) la fine della stretta monetaria o prolungarla ulteriormente. Con forti rischi di recessione e ancora di più di storni dei mercati.

