Calo dei tassi: la Fed inizia a organizzarsi

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, ha prefigurato una possibile diminuzione, nel corso del 2024, di 75 punti base. E i mercati si aspettano un decremento quasi doppio. Nessun segnale dalla Banca Centrale Europea. Anche se...

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Quest'anno, come è stato detto più volte in questi giorni, il Babbo Natale dei mercati ha assunto le sembianze di Jerome Powell. Annunciando che nel 2024, negli Stati Uniti, sarà possibile una riduzione dei tassi di interesse pari a 75 punti, il presidente della Federal Reserve ha contribuito a innescare un'atmosfera di ottimismo, che ha ingenerato grandi aspettative. Non per niente, dopo l'esternazione del numero uno della Fed, i mercati si sono spinti ben più in là, arrivando a prevedere un calo dei tassi fino a 145-150 punti.

Strategie divergenti

L'annuncio di Powell ha portato benefici soprattutto ai listini americani, che la scorsa settimana hanno ottenuto una performance superiore rispetto a quelli europei. Anche per l'atteggiamento dell'Eurotower. Christine Lagarde, presidente della Bce, ha infatti affermato che a Francoforte non si è parlato di tagli. Dov'è la sorpresa? - verrebbe da dire. Le strategie della Banca Centrale Europea – almeno dalla fine dell'era Draghi – si sono rivelate discutibili. In prima battuta non è stata prevista l'inflazione, con un ritardo nel rialzo dei tassi; poi si è scelta la strada di un riaggiustamento troppo incalzante e decisamente esagerato. Ora si insiste sui livelli di inflazione, che sarebbero ancora troppo alti, mentre la situazione è in via di miglioramento e l'obiettivo del 2% è a portata di mano. All'Eurotower ci sono fior di analisti, che conoscono la situazione: non si comprende quindi questa resistenza a oltranza, che impedisce di “ascoltare” i cambiamenti. I mercati, che solitamente anticipano i tempi, hanno invece un atteggiamento diverso: non credono all'attendismo espresso da Christine Lagarde e puntano sul calo dei tassi anche in Eurolandia. Lo dimostra l'asta dei Btp annuali, che ha decretato un valore del 3,75%, con uno spread sotto 170 punti base. Ciò, appunto, evidenzia l'ottimismo diffuso su un taglio del costo del denaro. Magari non a marzo (mese in cui i mercati si aspettano i primi movimenti verso il basso da parte della Fed), ma comunque a stretto giro.

2024, prime indicazioni

Queste aspettative influenzano, e non di poco, le previsioni sul 2024 dei mercati. A iniziare dalle obbligazioni. Per sei mesi abbiamo consigliato di rimanere lunghi di duration: ora la discesa del Btp sotto il 4% conferma la nostra visione. Una volta che il costo del denaro inizierà a scendere, il lungo termine si confermerà sempre più la strategia obbligazionaria migliore. Chi si posizionerà con duration lunga potrà assicurarsi per cinque anni rendimenti intorno al 5%, dotandosi di un hedging contro eventuali storni dei mercati azionari. Chi invece insisterà a rimanere corto (o non potrà fare altrimenti) rischierà di scendere sotto il 2%. L'azionario, invece, dovrebbe veleggiare abbastanza tranquillo, o con lievi perdite o con guadagni moderati. Le economie, come ricordato, sono in rallentamento e i rendimenti in doppia cifra di quest'anno si riveleranno irrealizzabili. Il 2023 ha restituito performance eccezionali: chi è rimasto fuori, ha perso un'opportunità molto forte. Se ci sarà una crescita, presumibilmente sarà moderata. Stesso discorso si può fare per eventuali flessioni: a meno di un “cigno nero”, o comunque di un evento esterno molto problematico, non è ipotizzabile una discesa dei mercati oltre il 5%.

India batte Cina

Sull'inflazione, come detto, c'è ottimismo. E questo nonostante la ripresa dell'alluminio e di altre materie prime dopo 20 mesi di calo. Una risalita di questi asset non è sufficiente a mettere a rischio i prezzi (più pericolosa potrebbe invece rivelarsi una lettura integrale dell'Agenda 2030, soprattutto sul versante dell'elettrico). Più che l'inflazione, a preoccupare è il rallentamento dell'economia europea (con la crisi industriale tedesca che fa tremare l'intero continente) e americana. E soprattutto cinese. Pechino mostra una situazione davvero preoccupante: le aziende lavorano ormai un solo turno, mentre molta gente inizia a tornare nelle campagne, provocando uno svuotamento delle case in città e uno squilibrio sul fronte immobiliare. Mentre a crescere è l'economia indiana. Nuova Delhi ha avviato investimenti molto forti, soprattutto su infrastrutture, e aprirà 30 centrali a carbone per supportare l'industrializzazione – scelta che ha fatto storcere il naso a molti Paesi partecipanti alla recente Cop28. Il mercato azionario indiano, da parte sua, viaggia già a multipli molto elevati. Mentre la popolazione del Paese ha superato quella cinese.

Giappone, ancora immobilismo sui tassi. Per ora

Se la Bce, almeno ufficialmente, non parla ancora di taglio dei tassi, si allineano a questo approccio anche Banca d'Inghilterra e Banca Nazionale Svizzera (quest'ultima, però, con percentuali decisamente più basse). La Banca del Giappone, da parte sua, ha confermato che per ora i tassi restano in territorio negativo. Nel 2024, tuttavia, Tokyo potrebbe decidere una piccola sortita in controtendenza, con un rialzo contenuto che avrebbe l'obiettivo di rafforzare lo yen. Se questa evenienza si realizzasse, si potrebbe concretizzare una situazione paradossale, con le banche centrali europee e americana intente ad allentare la stretta e quella giapponese, tradizionalmente refrattaria ad aumenti del costo del denaro, impegnata ad abbandonare il territorio negativo e ad alzare i tassi. Una simile mossa – che, se decisa, sarebbe comunque sporadica e probabilmente limitata nel tempo – costringerebbe gli investitori che hanno scelto posizioni lunghe yen contro euro (o dollaro) a smontarle frettolosamente. Restituendo una certa forza alla valuta nipponica.

Il turismo salva l'economia italiana

Banca d'Italia ha ridotto a +0,6% le stime del Pil nazionale 2024. Il fenomeno, che dipende soprattutto dalla politica monetaria, i cui effetti si fanno sentire sempre a scoppio ritardato, non deve comunque preoccupare più di tanto, dato che discutiamo di pochi decimali. Se l'economia italiana sta comunque a galla, si legge invece sui dati Confindustria, grande merito deve essere attribuito al turismo internazionale. Effettivamente, i numeri da record registrati nel 2023 (a settembre +11,8% sullo stesso periodo dell'anno precedente, a prezzi correnti) hanno portato più benefici che problemi (l'inflazione sui prezzi degli alberghi). Si potrebbe fare ancora di più? Sì e no. Perché il turismo è un settore che può crescere, ma non in maniera esponenziale, dato che i posti disponibili non si possono aumentare di molto. Detto questo, a penalizzarci sono l'insufficienza delle infrastrutture e la burocrazia farraginosa, che rende difficili gli investimenti. Al pari, naturalmente, dei limiti di spesa imposti dall'Unione Europea.

Foto di Naveed Ahmed su Unsplash

 

 

 

 


Golpe in Niger: nuove incertezze sulle materie prime

La presa del potere dei militari nel paese saheliano lancia l'allarme energia in Francia, e a cascata nell'intera Unione Europea. Per Parigi, Niamey è infatti un fornitore importante di uranio, fondamentale per il funzionamento delle centrali nucleari. E, sul fronte gas...

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La settimana delle Borse ha evidenziato un calo tutto sommato contenuto di Piazza Affari, che ha però chiuso come fanalino di coda dei listini europei. Niente di cui preoccuparsi, comunque. Un po' perché la diminuzione è comunque di decimali, in un contesto di leggeri rialzi e ribassi, un po' perché da inizio anno la Borsa di Milano ha registrato un avanzamento di quasi il 25%.

Banche, stress test ok

Un grande merito è, naturalmente, del settore bancario, che ha premiato gli investitori in modo sostanzioso, con dividendi in alcuni casi impensabili. E che ha letteralmente tirato – come un ciclista nella classica “trenata” a dieci chilometri dall'arrivo – il “gruppone” dell'indice milanese. La natura “bancocentrica” del Mib sembrerebbe essere una garanzia anche per il futuro, e assicurare una protezione della Borsa anche se dovesse verificarsi una più che probabile correzione. A meno che la recessione si riveli più profonda di quanto i mercati stiano prevedendo. Le nostre banche hanno anche aggiunto una freccia al loro arco: i risultati degli stress test condotti dall'Eba, che le hanno premiate, elevandole in una posizione migliore di quelle francesi e tedesche. Una notizia per nulla inattesa, almeno per chi segue l'andamento dei mercati e controlla periodicamente la situazione di “salute” del settore creditizio nei vari paesi d'Europa. In pole position si è piazzata Unicredit, che ha diffuso la migliore semestrale della sua storia. Per il gruppo milanese, ha precisato una nota, il “punto di arrivo del livello di capitale al 2025 è il più alto rispetto alle banche comparabili, grazie alla sua robusta capitalizzazione”. Ottima (e, per certi aspetti, sorprendente) anche la valutazione di Montepaschi: la banca senese ha archiviato i migliori stress test di sempre. Il risultato eccellente, che ha premiato anche gli istituti italiani valutati solo dalla Bce (e quindi non dall'Eba), contrasta con i pessimi voti delle aziende di credito tedesche, che annaspano nelle retrovie: in particolare, ben tre banche del paese motore dell'economia europea languono nelle ultime posizioni della classifica.

Tassi: sempre più malumori

Quello bancario è uno dei pochissimi settori dell'economia europea ad aver tratto giovamento dall'aumento dei tassi, che è proseguito anche a luglio con il previsto rialzo della Bce. La buona notizia è che, a quanto pare, l'ennesima stretta sarà l'ultima; poi - prevedibilmente - le percentuali resteranno ferme in un lungo plateau prima di tornare a scendere. Con calma, se prestiamo orecchio alle strategie di Christine Lagarde. L'ulteriore rialzo ha comunque scatenato i malumori di una parte crescente dell'economia e del mondo politico, trasformando i brusii di disapprovazione in aperte proteste. Tra le critiche  pronunciate nei confronti della Bce, anche quella del vicepremier italiano Antonio Tajani, secondo cui la soluzione per combattere l'inflazione non è aumentare il costo del denaro" e rischiare così il blocco dell'economia, mettendo a rischio il pagamento delle rate dei mutui e la richiesta di prestiti da parte di famiglie e aziende. Una situazione che, aggiungiamo, acuisce la divaricazione fra i cittadini più abbienti e quelli in difficoltà economiche, rendendo i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Giappone batte Occidente

L'esternazione del vicepremier sembra essere confermata dal confronto fra i dati di inflazione europei (e, at large, occidentali) e quelli giapponesi, che si stanno comportando esattamente allo stesso modo. Pur in presenza di una politica opposta da parte degli istituti centrali, con la Banca del Giappone che, in controtendenza, non ha toccato i tassi, proseguendo sulla strada tracciata dal compianto ex premier Shinzō Abe. Nella sua critica aperta alla Bce e ai suoi falchi, Tajani ha anche insistito sulla differenza tra l'inflazione americana - causata dai dati sui posti di lavoro e, in generale dalla crescita economica - e quella italiana - che dipende dall'ormai atavico problema delle materie prime.

Il Niger minaccia le bollette francesi. E non solo

Come se non bastasse, si è abbattuto un fulmine a cielo già nuvoloso sui consumatori europei: il colpo di stato in Niger, con cui una giunta militare ha destituito il presidente Mohamed Bazoum. Una notizia che preoccupa, e per varie ragioni. In primo luogo, perché – a quanto si vocifera – al cambio di regime non sarebbero estranee la Russia e, forse, la Cina, che potrebbero mettere pressione all'Europa con l'invio di un milione di migranti, facendo definitivamente collassare l'economia Ue. E poi perché il Niger è il settimo produttore mondiale di uranio. Se il nuovo regime di Niamey si consolidasse, a rischiare molto sarebbe l'economia francese e, di riflesso, quella Ue. Un po' perché Parigi è la potenza neocoloniale in quell'area dell'Africa, pur insidiata sempre di più dalla presenza della Russia. Un po' (anzi: soprattutto) perché l'uranio è l'elemento chimico fondamentale per il funzionamento delle centrali nucleari, su cui si basa ben oltre la metà del rifornimento energetico transalpino. Detto ancora più chiaramente, la Francia importa un terzo del suo uranio dal Niger ed è presente sul territorio del paese saheliano, oltre che con un contingente militare, anche con un'azienda di estrazione: se i nuovi vertici del paese (spinti magari dai nuovi alleati russi) dovessero cambiare strategia economica e boicottare l'ex potenza coloniale, sarebbero guai seri per i consumatori francesi e, a cascata, per l'Unione Europea. In prospettiva, sorgerebbero parecchi problemi anche sul fronte del grande gasdotto sahariano, attualmente in costruzione, che dovrebbe collegare la Nigeria e il Maghreb, transitando anche nel sottosuolo nigerino: se il progetto si bloccasse, sarebbe vanificato il tentativo di azzerare le importazioni del gas russo in Europa. Come reagirà la Francia? Sono diffusi i timori di un intervento militare, che però rischierebbe - soprattutto agli occhi dei paesi esterni al mondo occidentale - di sbalzare Parigi alla stregua di Mosca come potenza occupante di uno stato indipendente. La soluzione al problema dovrebbe essere cercata più a monte. E cioè rimediando all'assenza di una politica energetica per l'Africa. Un'operazione che andrebbe a riverberarsi anche in un rapporto diverso tra le ex potenze coloniali e un continente pieno di materie prime, rovesciando l'annosa strategia di sfruttamento paternalista e sostituendola con una collaborazione paritaria, capace anche di portare un pacifico sviluppo democratico dei paesi africani. Certamente, l'Unione Europea (con l'Occidente in generale) è chiamata a cambiare prospettiva, dato che finora ha fatto orecchie da mercante, considerando l'Africa un enorme deposito da cui attingere liberamente, senza curarsi di chi il territorio lo abita. Se sviluppato bene, il nuovo piano Mattei lanciato dall'Italia potrebbe rivelarsi un primo passo per favorire questo cambio di prospettiva.

Petrolio su, gas giù

Il colpo di stato in Niger si verifica in un periodo tutto sommato tranquillo sul fronte delle materie prime. Il gas continua a scendere, in un periodo in cui il caldo ha spaccato l'Italia: temperature elevate al centro-sud, estate più fresca degli ultimi 15 anni al nord. Il clima tutto sommato moderato a settentrione (al netto dei temporali e delle trombe d'aria) ha comunque la meglio sul consumo di energia, anche per la maggior concentrazione di uffici (e il conseguente minor ricorso all'aria condizionata) nelle metropoli del nord. Un po' peggiori, ma non drammatiche, le notizie sul fronte petrolio, che ha sì abbandonato la fascia di sicurezza che aveva presidiato per mesi, ma non ha “sfondato”. La politica saudita dei tagli alla produzione ha causato l'abbandono della fascia 70-80, su cui il greggio si era impantanato per vari mesi, e la marcia verso quota 85. Ancora presto per abbozzare un nuovo trend: occorrerà aspettare un po' di tempo per scoprire se i prezzi del greggio si attesteranno su un limite superiore. Intanto Alessandro Ortis, presidente dell'authority per l'Energia, ha denunciato l'eccessiva volatilità dei prezzi della benzina, identificando una “speculazione” e proponendo l'istituzione di una Borsa europea del petrolio, in grado di bloccare il passaggio tra “barili veri e barili di carta”. La possibile indagine su un eventuale cartello del petrolio avrebbe il compito di scoprire se sono stati compiuti abusi, soprattutto nel periodo di riduzione delle accise (oggi la situazione sembra più sotto controllo) ed evitare rincari ingiustificati, dovuti a logiche speculatorie.

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Aspettando la recessione

Nel consiglio direttivo Bce è aperta la discussione sulla possibilità di mettere in pausa l'incremento progressivo dei tassi, anche se finora il “partito rialzista” sembra ancora prevalere. Ma, mentre l'inflazione è ancora al centro delle attenzioni dei banchieri centrali, un altro pericolo incombe sull'economia mondiale...

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In Europa, il picco dei tassi sarà raggiunto con le prossime tre riunioni del board Bce. Ma non necessariamente l'istituto centrale provvederà a incrementarne il valore in tutti e tre gli appuntamenti. Lo ha affermato François Villeroy de Galhau, governatore della Banca di Francia e membro del direttivo dell'Eurotower. “Abbiamo tre possibili consigli direttivi per alzare o fare una pausa”, ha dichiarato, ritenendo nel contempo “saggio e prudente” il rallentamento degli aggiustamenti ricorrenti dai 50 ai 25 punti base. In seguito, ha aggiunto Villeroy, occorrerebbe tenersi sui livelli stabiliti per un certo periodo, prima di iniziare il ciclo delle discese. Falchi ancora in vantaggio

Questa dichiarazione presenta il governatore della Banca di Francia come “pontiere” fra i falchi – che finora hanno inequivocabilmente prevalso – e le colombe. Fra i primi c'è la stessa presidente Christine Lagarde, che ancora una volta ha espresso un chiaro scetticismo sulla possibilità di introdurre una pausa, e governatori come Robert Holzmann (Banca d'Austria), convinto che incrementare i tassi di 75 punti base sia imprescindibile per combattere l’inflazione. Inflazione che però è già ampiamente sotto controllo. La sua corsa si sta infatti fermando, grazie al “rientro nei ranghi” delle materie prime, e a fine anno non dovrebbe superare il 3%. Mentre l'alto costo del denaro mette sempre più a rischio i sistemi economici: le filiere produttive si stanno fermando in tutta Europa (e anche negli Usa, che hanno una politica simile sui tassi), mentre si temono il blocco degli investimenti e una crisi del sistema immobiliare, che sta già manifestando forti problemi. Insomma: ora l'allarme non è più legato all'inflazione, ma al rischio recessione, che potrebbe colpire l'Europa e altri paesi occidentali già nei prossimi mesi.

Diverse ricette, stesso risultato

Detto questo, sorge spontanea un'osservazione: la Banca del Giappone – diversamente dagli istituti centrali europeo, britannico e americano – ha deciso di mantenere la propria politica monetaria e lasciare i tassi di riferimento a -0,10%. Una scelta che non ha prodotto risultati differenti da quelli attualmente osservabili altrove: anche nel Sol Levante l'inflazione sta rientrando. Ci si chiede, quindi, se in questa crisi si sia davvero instaurato un rapporto di causa-effetto fra le rigide strette monetarie di Bce, Fed e Boe e lo stop subito dal vortice inflattivo. O se, piuttosto, il rientro dell'inflazione non sia un fenomeno endogeno, indipendente (in tutto o in parte) dalle strategie delle banche centrali. Che, in Europa e negli Usa, hanno proceduto quasi all'unisono, anche se le cause del fenomeno erano differenti in ciascuna delle aree: materie prime per l'Ue (e parzialmente per la Gran Bretagna, in cui però ha giocato un ruolo anche il post-Brexit) e forte rialzo della spesa pubblica negli Stati Uniti, punto distintivo del programma economico dell'amministrazione Biden.

Tetto al debito Usa, the final countdown

Punto distintivo che, però, presto potrebbe non esserlo più. Perché proprio l'entità della spesa pubblica è uno dei punti su cui il presidente americano Joe Biden e il repubblicano Kevin McCarthy, speaker della Camera dei rappresentanti, si stanno confrontando per alzare il tetto al debito oltre i 31.400 miliardi di dollari e scongiurare, così, la bancarotta dello Zio Sam. “Biden deve accettare una condizione base”, ha dichiarato a questo proposito McCarthy: “non possiamo spendere altri soldi l'anno prossimo. Dobbiamo spenderne meno dell'anno prima”. Da parte sua, il Presidente si è detto “pronto a rivedere il budget di spesa: dobbiamo trovare un accordo”, ha detto, “ma senza la minaccia di un default”. Che "sarebbe una catastrofe, 8 milioni di americani rischierebbero di perdere il lavoro". La minaccia evocata dall'inquilino della Casa Bianca è però il convitato di pietra delle trattative, che almeno finora, non hanno ottenuto risultati: sebbene Biden abbia dichiarato che la bancarotta è “evitabile”, democratici e repubblicani sono ancora distanti, mentre i giorni passano veloci. Sì, perché – a parere di Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa – il tempo stringe davvero, e il 1° giugno gli Stati Uniti potrebbero non essere più in grado di onorare il loro debito. Alla fine, molti osservatori sono concordi nel ritenere che un accordo – anche provvisorio – sarà trovato, evitando il peggio. Lo pensano anche i mercati, che finora non hanno risentito delle tensioni provenienti dalla Sala Ovale di Washington. In particolare, i listini europei sono in leggero rialzo. Un po' perché – lo abbiamo appena detto – gli investitori “scommettono” su un buon esito della trattativa. Un po' perché il problema è più di carattere americano che non mondiale. E un po' perché, in questa situazione di trading range lungo, i volumi e gli scambi sono limitati e la volatilità resta molto bassa, anche quando i mercati scendono.

Mercati ancora tranquilli

Da febbraio, la situazione dei listini mostra il protrarsi di un lungo periodo interlocutorio, che ha trasformato i trend borsistici in una sorta di Deserto dei Tartari della finanza. Non si è ancora verificato un evento in grado di far pendere la bilancia dalla parte del Toro e dell'Orso. E non hanno smosso molto neppure le trimestrali che, pur molto buone, non hanno avuto la forza per dare una spinta al mercato. La situazione interlocutoria potrebbe durare per gran parte dell'estate; in seguito il trend sarà forse in grado di delinearsi in maniera un po' meno incerta. Visti i fondati timori di recessione, sembra più facile che all'orizzonte ci sia un rallentamento del mercato, anche se non si può prevedere di quale entità.

Gli impatti delle alluvioni

Il mese di maggio 2023 è stato anche contraddistinto dalle drammatiche alluvioni che hanno colpito l'Emilia-Romagna in due diverse ondate, lasciando una scia di morte e distruzione. Dal punto di vista economico, il disastro naturale avrà prevedibilmente un forte impatto sui settori agricolo e zootecnico delle aree colpite. In particolare, i raccolti ortofrutticoli delle zone allagate sono da considerarsi persi, e – a quanto stima la locale Confagricoltura – occorrerà estirpare da 10.000 a 40.000 alberi da frutto – soprattutto (ma non solo) peschi, albicocchi e kiwi. La stima definitiva si farà quando le acque si saranno ritirate e sarà possibile capire cosa salvare e cosa eliminare. È però già ampiamente noto che i danni da mancata produzione saranno incalcolabili (tra i 5 e i 6 miliardi quelli stimati) in un settore che viveva di esportazione nei principali paesi europei: sono a rischio oltre 50.000 posti di lavoro, mentre la ripiantumazione degli alberi distrutti potrà dare frutto non prima di quattro o cinque anni. Mettendo in ginocchio l'economia della Fruit Valley italiana. Non molto diverso il discorso legato alla zootecnia, che ha visto molti animali vittime dei fiumi in piena. Mentre sarà tutto sommato più marginale l'impatto sul settore industriale, i cui macchinari sembrano aver subito danni molto minori, e che presumibilmente potrà riprendere la produzione in tempi relativamente brevi. Ne consegue che l’impatto negativo provocato dal disastro naturale sul Pil italiano sarà probabilmente di qualche decimale.

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Rischio default americano, mercati con il fiato sospeso

Le Borse proseguono nella loro marcia regolare, senza sussulti né variazioni di grande entità. Ma a turbare la tranquillità, che prosegue ormai da febbraio, potrebbero pensarci tre elementi: l'incremento insufficiente della produzione industriale in Cina, la mancata crescita globale e, soprattutto, il rischio di un mancato accordo sul tetto al debito pubblico Usa

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

I mercati proseguono la loro marcia in territorio neutrale. Gli scostamenti sono minimi e ininfluenti: se due settimane fa le Borse hanno recuperato un calo iniziale con un rialzo di simile entità, venerdì scorso si è registrato il fenomeno opposto: una flessione dopo un buon avvio. Entrambi i trend hanno praticamente portato i listini alla situazione di partenza.

Rischio recessione

Il lungo trading range, che ormai prosegue quasi indisturbato da metà febbraio, non ha finora risentito troppo delle ottime trimestrali – anche perché i dati di marzo fotografano il passato, mentre il futuro presenta varie incognite, che potrebbero causare ribassi. Non troppo pesanti, probabilmente, ma in grado di offrire agli investitori opportunità di rientrare successivamente sul mercato a prezzi migliori. In particolare, ci sono tre grandi nubi all'orizzonte. La prima viene da Pechino, e dipende dalla pubblicazione dei dati sulla produzione industriale in Cina, che ad aprile si è incrementata del 5,6% annuo. Un dato che è sì migliore rispetto a quello di marzo (+3,9%), ma appare più modesto rispetto alla performance attesa dagli analisti (+10,9%). Un'altra preoccupazione riguarda le minacce alla crescita globale e i timori di recessione, che gravano sulle economie mondiali anche a causa della corsa al rialzo dei tassi: un rischio di questo genere si ripercuoterebbe anche sugli utili delle aziende, restituendo dati ben diversi da quelli molto positivi delle trimestrali attualmente in arrivo.

Usa, l'incubo del tetto al debito

Terzo incubo, il rischio di default tecnico americano, dovuto al mancato innalzamento (almeno finora) del debito pubblico Usa, che ha raggiunto il tetto stabilito di 31.400 miliardi di dollari. Finora, il presidente Joe Biden e l'opposizione repubblicana stanno proseguendo una non facile trattativa per ampliare il debito ed evitare, appunto, il default che in assenza di un'intesa – ha affermato il segretario al Tesoro Janet Yellen – potrebbe scattare il 1° giugno. Senza un compromesso fra i due litiganti, si verificherebbero fra le altre cose licenziamenti immediati nel settore pubblico, con un impatto devastante sull'economia americana. Se il buonsenso suggerisce che le due parti, alla fine, si verranno incontro, l'approssimarsi delle presidenziali fa temere un irrigidimento di democratici e repubblicani sulle rispettive posizioni. I due partiti potrebbero ragionare in ottica elettoralistica, mirando a guadagnare consensi più che a fare il bene del paese. Per questo motivo, una soluzione è tutto tranne che scontata. Anche perché il tempo non è molto e i mercati del mondo occidentale sono già nervosi e inquieti. Se l'accordo non sarà trovato, una flessione dei listini è vista come molto probabile, proprio per gli impatti sull'economia reale degli Stati Uniti. Anzi: già in questi giorni (meno di 15) c'è il rischio di ripercussioni negative sulle contrattazioni, causate da un'attesa sul filo del rasoio.

Tassi, manca coraggio

In questa situazione non aiuta certamente il pericolo di un nuovo, possibile rialzo dei tassi, su cui la Federal Reserve dovrà prendere una decisione. Mentre l'inflazione americana ha chiuso il decimo mese consecutivo di ribasso, raggiungendo i minimi dal maggio del 2021. È pur vero che la componente core è salita al di sopra delle attese, procurando argomenti ai sostenitori di nuovi rialzi ai tassi; tuttavia, il trend sembra ben definito, con un'inflazione Usa che entro fine anno tornerà sotto quota 4%. Queste tendenze potrebbero giustificare un atto di coraggio da parte della Fed, con uno stop, anche temporaneo, delle strategie a cui siamo ormai abituati. La speranza è, ovviamente, legittima, ma è bene non abbondare troppo nelle illusioni. Per la Federal Reserve, come anche per la Bce e la Bank of England, il rialzo dei tassi pare più una battaglia ideologica che non una scelta ponderata. Sembra che i tre istituti centrali siano impegnati quasi in una gara, dove perde chi rinuncia prima degli altri alle periodiche strette monetarie. Che sono presentate come ineluttabili, in presenza di dati sull'inflazione superiori al 2%. Questa percentuale è vista quasi come un mantra soprattutto in Europa, dove Christine Lagarde ha annunciato nuovi rialzi – sebbene i prezzi delle materie prime, veri responsabili dell'inflazione nel nostro continente, siano ormai ampiamente sotto controllo. Mentre anche Londra ha provveduto a un nuovo, ormai consueto scatto verso l'alto del costo del denaro.

Banche centrali, doppio ritardo

Le tre banche centrali si sono confermate ancora una volta in ritardo rispetto alla situazione che le economie mondiali stanno vivendo. Quando l'inflazione era ormai un fenomeno chiaro, Fed, Bce e Boe hanno atteso troppo nell'alzare i tassi, lasciando che la “valanga” prendesse corpo e diventasse più pericolosa. Oggi, gli istituti centrali reagiscono ancora una volta in ritardo alla recessione che incombe e non prendono quelle contromisure (cioè lo stop ai rialzi) che potrebbero contribuire a fermarla sul nascere, o almeno a rallentarla. Fra pochi mesi vedremo dove ci porterà questa politica. E capiremo se avranno avuto ragione i tre istituti centrali dei paesi occidentali oppure la Banca del Giappone, che ha invece rifiutato di avviare una pesante e progressiva stretta monetaria.

Petrolio e oro

Come anticipato, le materie prime sono ampiamente sotto controllo. Il gas sta viaggiando a zig zag verso quota 30 euro/MWh e potrebbe presto arretrare ulteriormente, avvicinandosi al prezzo a cui eravamo abituati prima della pandemia. Il petrolio è invece ancora in fase d'attesa e veleggia tra quota 70 e 80 dollari Usa, vanificando gli effetti dei tagli alla produzione decisi dall'Opec. È invece ancora oltre quota 2.000 dollari la quotazione dell'oro, che però - in uno scenario che vede l'inflazione in continuo calo - sembra sopravvalutato. Ai valori odierni, comprare metallo giallo non è particolarmente consigliabile: anzi, finché l'oro resta a questi livelli potrebbe rivelarsi più redditizio venderne una parte delle scorte, per poi magari effettuare un riacquisto successivamente, in caso di decisa flessione.


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