Inflazione, verso il punto di svolta?
Il ciclo di rialzi dei tassi sembra giunto alla sua fase finale, anche se la Bce si fermerà probabilmente dopo la Fed. Intanto, sui mercati regna ancora la tranquillità, mentre le ricche cedole elargite dalle trimestrali rendono legittimo un certo ottimismo
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Terza settimana di calma per le Borse. I mercati continuano a procedere sotto traccia, con la volatilità al lumicino e le antenne orientate verso le prime trimestrali. Che almeno finora, come da previsione, stanno offrendo cedole molto generose, rendendo legittimo un certo ottimismo. Nel clima di marcia tranquilla che contraddistingue questo mese di aprile, venerdì scorso i mercati europei hanno chiuso comunque in positivo, con l'eccezione di Milano: Piazza Affari ha infatti archiviato una lieve flessione (-0,50%), essenzialmente per le prestazioni negative di Tim e Stellantis. Le chiusure negative di martedì 25 aprile, legate soprattutto a rinnovati timori sulla tenuta di alcune aziende di credito (su tutte First Republic Bank), invitano comunque a essere cauti per capire se maggio si confermerà il mese del sell in May and go away. Di qui in avanti un po’ di cautela non guasta, visto che anche da un punto di vista di analisi tecnica i mercati sembrano essere vicini a livelli dai quali ci si può aspettare una correzione.
Due titoli sotto la lente
Ma torniamo all'Italia, e ai due titoli che abbiamo messo sotto la lente. A iniziare da Tim, che è ancora un'azienda indebitata: la società, negli anni recenti, si è contraddistinta per una redditività bassa. E i suoi problemi sono ancora aperti. L'opa sulla società era stata fissata a un valore di 42 centesimi, poi il valore è sceso. Tuttavia, occorre non dimenticarsi che la telefonia è un'infrastruttura strategica e che già in gennaio si parlava di un valore della rete unica maggiore del 40% rispetto a quello fissato per l'opa. Stellantis, da parte sua, ha deluso un po' rispetto alle previsioni, ma il suo valore attuale è ancora del 10% circa superiore rispetto a quello di inizio anno. È anche vero che ultimamente la società ha subito un calo, e ciò che ha impressionato è la velocità di discesa. La casa automobilistica sta scontando qualche problema sui dati di bilancio, ma la situazione si dovrebbe normalizzare, dato che ora il suo titolo è tornato a salire, anche per i recenti test effettuati sui carburanti sintetici.
Enel, il nuovo AD piace al mercato
A rimbalzare in modo deciso è il titolo di Enel, che quest'anno si sta riprendendo dai cali del 2022 ed è tornato a 6 euro circa. Non per niente, i fondi esteri stanno cercando posti in consiglio di amministrazione per pesare di più. Dopo la prima giornata post-nomine, il titolo ha recuperato redditività: il mercato è sembrato gradire la scelta, per il ruolo di amministratore delegato, di Flavio Cattaneo, un manager che ha fatto bene dovunque abbia lavorato. Secondo i rumours riportati da Il Sole24Ore, la sua strategia per Enel sarebbe in piena continuità con il piano del suo predecessore Francesco Starace e punterebbe da una parte alla riduzione del debito, dall'altra a cedole garantite.
Ita-Lufthansa, si va ai tempi supplementari
Se Enel ride, Ita è ancora in attesa della definizione del contratto che la dovrebbe portare in Lufthansa: la trattativa fra il ministero del Tesoro e il gruppo tedesco si sta dilatando, ma non sembra a rischio. I 60 giorni lavorativi previsti dal memorandum di intesa per chiudere l'accordo sono scaduti il 24 aprile, ma alcuni dettagli economici sono ancora da stabilire, e si prevede che la firma del contratto slitti a maggio. Poco male, se davvero sarà così. Qualunque cifra sia stabilita, sembra abbastanza certo che, per entrare prima al 40% e poi acquistare il resto, il gruppo tedesco pagherà una cifra molto bassa, anche se Ita è un asset molto fragile. Se gestito bene, tuttavia, il business aereo italiano ha molte potenzialità, soprattutto in un'epoca in cui si assiste a una decisa ripresa dei voli a livello mondiale. Uno dei punti di forza della nostra compagnia di bandiera sono gli slot, quelli che mancavano a Lufthansa Italia. Un progetto, lanciato alcuni anni fa, che senza i migliori orari di viaggio dovette chiudere, anche a causa della concorrenza delle compagnie low cost. Interessante, nella compagnia italiana, anche la gestione delle classi business negli aeromobili, soprattutto per i voli verso l'America del Nord. L'organizzazione di una Ita in ambito Lufthansa ne farà una compagnia regionale simile a Swiss e Austrian Arlines, con un'organizzazione multihub imperniata su Francoforte, Monaco, Zurigo, Vienna e Milano Malpensa come new entry. Ciò che è più importante, però, non è tanto la “gerarchia” tra i veri carrier, ma il fatto che la compagnia porti traffico aereo in Italia. Se gestita in maniera manageriale, dunque, la nostra compagnia aerea potrà finalmente contribuire alla crescita dell'economia. Molto probabilmente sarà ridotto il personale tramite l'ultimo giro di prepensionamenti, così da tagliare una delle due maggiori voci di spesa (l'altra, e cioè il costo carburante, non dipende chiaramente dalle scelte delle compagnie aeree).
Tassi, ultimi rialzi in vista
Negli Stati Uniti l'inflazione sta rallentando: i segnali inducono alla calma e sicuramente influenzeranno le scelte della Federal Reserve. In altri termini sembra abbastanza probabile che, tra giugno e luglio, avverrà negli Usa un ultimo rialzo dei tassi pari a non più un quarto di punto. Poi, finalmente, si raggiungerà il livello massimo. La situazione è un po' differente in Europa, dove l'inflazione è – a detta della Bce – ancora troppo alta: Francoforte potrebbe dunque proseguire il ciclo di “rialzini” almeno fino alla fine dell'estate; secondo Pierre Wunsch, governatore della Banca centrale belga e consigliere Bce, “stiamo aspettando che la crescita dei salari e dell'inflazione core rallenti prima di essere in grado di arrivare al punto in cui possiamo fermare" i rialzi: "non sarei sorpreso”, ha aggiunto, “se a un certo punto dovessimo passare al 4%”. Dopo aver raggiunto il picco, i tassi dovrebbero rimanere stabili almeno fino al 2024, per poi iniziare a scendere. Una situazione ideale, questa, per puntare sulla stabilità del mercato obbligazionario, che rende particolarmente vantaggioso l'acquisto di bond “lunghi”.
Italia, il rating non cambia
Non cambiano le valutazioni di Standard&Poor's per l'Italia: il nostro paese ha ancora un rating BBB con outlook stabile. Nessun rischio, insomma, per lo status tranquillizzante di investment grade, la cui conferma era ampiamente attesa. Un rating al ribasso sarebbe stato infatti discutibile, se non scandaloso: l'Italia è il paese che ha registrato una maggior crescita del Pil, nonostante una chiara penalizzazione in chiave debito proveniente dal rialzo dei tassi. L'aumento del costo del denaro, per l'Italia, è una vera corsa a handicap, e ci obbliga a crescere più della media per evitare un aumento delle tasse o un taglio dei servizi. E per allontanare lo spettro del patto di stabilità, di cui si sta parlando in sede Ue in questi giorni: meglio sarebbe abbandonarlo del tutto.
Credit Suisse, partono le cause
Sul fronte Credit Suisse, le turbolenze sul fronte cocos (tra l'altro ampiamente previste) si sono puntualmente avverate: gli obbligazionisti senior hanno deciso di fare causa. Difficile prevederne la conclusione: a quanto pare, i contratti di sottoscrizione contenevano una postilla che lascerebbe (il condizionale è d'obbligo) mano libera alla Banca Nazionale Svizzera in caso di situazione straordinaria. Se così fosse, non sarebbe possibile attaccare il rovesciamento delle garanzie, che ha penalizzato i cocos salvando gli azionisti (anche se a fronte di perdite molto forti). Si prevede, però, che alla fine si arriverà un accordo, in grado di rivedere un po' le clausole e rimborsare almeno in parte i sottoscrittori di obbligazioni senior. Al momento c'è una sola certezza: l'unica parte in causa a fare un grande affare è stata Ubs, che si trova ora a operare come unico colosso bancario in Svizzera.
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Deutsche Bank, allarme quasi rientrato
La scorsa settimana, il rimborso di un'obbligazione subordinata ha scatenato la tempesta che ha fatto crollare il titolo del gruppo tedesco. Ma i requisiti patrimoniali dell'istituto di credito e il peso politico della Germania dovrebbero rivelarsi sufficienti per difenderlo dalle speculazioni
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo le banche americane e il Credit Suisse, la crisi sistemica ha messo nel mirino Deutsche Bank, bersagliato a fine settimana dalle vendite a pioggia in Borsa. In questo caso, a scatenare le orde di speculatori è stata la decisione, da parte del colosso tedesco, di rimborsare in anticipo un bond subordinato di secondo livello da 1,5 miliardi di euro, che aveva scadenza nel 2028.
L'operazione è stata letta come un segnale di paura da parte della banca, dovuta all'improvvisa sfiducia sul mercato dei CoCo, innescata dalla clamorosa decisione che ha scaricato gli obbligazionisti di Credit Suisse, salvando nel contempo gli azionisti. Tanto più che Deutsche Bank, pur soddisfacendo senza alcun problema i requisiti minimi di patrimonio, ha in pancia parecchi derivati e titoli illiquidi. L'attacco speculativo ha prodotto il picco dei credit default swap a quota 203 e il successivo crollo delle azioni sulla Borsa di Francoforte. Tuttavia, alla riapertura dei listini dopo il fine settimana, il titolo di Deutsche Bank ha rimbalzato di circa il 6%, prestando ascolto alle rassicurazioni espresse dal cancelliere Olaf Scholz nel pieno della tempesta. E trascinando le borse europee nuovamente in territorio positivo.
Ruolo centrale
Le paure non si sono ancora del tutto dileguate, ma sembra lecito un certo ottimismo. In primo luogo, come già anticipato, i requisiti patrimoniali della banca sono abbondantemente superiori al limite minimo. Poi occorre sottolineare il peso politico della Germania e il ruolo centrale rivestito da Deutsche Bank nella sua economia, che la rende più difficile da colpire, nonostante problemi passati, derivati e . Da una crisi seria del più importante istituto tedesco potrebbero derivare minacce all'Europa (e alla sua moneta) almeno pari a quelle provenienti dai debiti sovrani. In altri termini, se salta Deutsche Bank rischia di saltare l'euro. E questa evenienza, naturalmente, deve essere evitata a tutti i costi. Il board della Bce, è vero, non è più quello improntato al whatever it takes, e ha dimostrato di non saper cogliere l'emergenza, proseguendo imperterrito nel suo rialzo dei tassi. Ma esiste una linea rossa che – confidiamo – non potrà essere superata. Anche perché fermare gli attacchi a una banca, nel caso in cui i suoi requisiti patrimoniali siano buoni, non è così proibitivo: nel caso in cui i fondi speculativi americani provassero una nuova campagna contro Deutsche Bank, alla Bce basterebbe acquistare obbligazioni subordinate per rimarginare l'attacco.
Caos CoCo
Detto questo, non si può negare che la risoluzione del caso Credit Suisse, con il salvataggio degli azionisti e l'abbandono del CoCo, abbia causato parecchi problemi, mettendo a rischio una parte del settore obbligazionario. È stato creato un precedente che preoccupa un numero molto grande di investitori e rischia di mettere in ginocchio un mercato. E di creare grossi problemi a qualsiasi banca che decida – come ha fatto Deutsche Bank – di liquidare obbligazioni subordinate in anticipo. Oltre a questo, come era prevedibile, il sovvertimento della normale gerarchia ha causato valanghe di cause contro il Credit Suisse; il vortice di controversie si unisce al chiaro imbarazzo sul fronte Antitrust, che ha creato un colosso capace di coprire il 75% del mercato svizzero. Una quota che fino a 20 anni fa era divisa fra tre banche, ridotte a due dopo la fusione inversa con cui Sbs ha acquistato Ubs, assumendone poi il nome, e a una dopo la crisi Cs. Intendiamoci bene: il Credit Suisse doveva essere salvato, e Banca Nazionale, Finma e Consiglio Federale hanno concluso un'operazione in tempi davvero rapidissimi. Tuttavia, la nazionalizzazione della banca si sarebbe probabilmente rivelata una soluzione migliore. La pensano così i cittadini svizzeri, che in un sondaggio hanno bocciato la mega-fusione, timorosi che la garanzia statale possa gravare sulle loro tasche. La pensano così, lo ripetiamo, anche quegli obbligazionisti che (cause permettendo) si ritroveranno con un pugno di mosche. Tutto questo mentre anche tra gli azionisti serpeggia un certo malumore – in questo caso, però, non contro le istituzioni svizzere, ma nei confronti di Ammar Al Khudairy, presidente di Saudi National Bank (primo azionista del Credit Suisse), che con le sue incaute dichiarazioni ha involontariamente dato il la all'attacco speculativo, causando perdite milionarie. Non per niente Al Khudairy ha rassegnato le proprie dimissioni dalla carica, motivandole con non precisati “motivi personali”.
Banche, opportunità di investimento
Più in generale, la crisi bancaria e i timori di recessione globale hanno causato flessioni nei mercati finanziari, che però sono riusciti a rimbalzare dopo il week end. L'orso ha coinvolto soprattutto l'Europa, che ha chiuso due settimane in rosso, mentre le Borse Usa sono cresciute nonostante le criticità delle banche locali. Osservando i trend a più largo raggio, si osserva che la flessione di fine marzo, caratterizzata dall'attuale sentimento negativo, non intacca un trimestre all'insegna di una lunga cavalcata dei mercati, ma ne è (almeno in parte) una normale reazione. Meglio quindi non enfatizzare le flessioni attuali, anche considerando che il mese di marzo chiude tradizionalmente in calo. Un calo che invece fa di questi giorni il momento giusto per entrare nel mercato, soprattutto per quanto riguarda i titoli bancari. La situazione attuale rende particolarmente appetibili gli investimenti nel settore creditizio, che ha subito perdite importanti negli ultimi dieci giorni. Oggi, essere in possesso di un portafoglio equity di banche potrebbe rappresentare un’opportunità. Naturalmente occorre, come di consueto, saper gestire i nervi e la volatilità, oltre che il rischio recessione. Ma questi, è persino inutile ricordarlo, sono pericoli legati a ogni investimento, soprattutto in un periodo caratterizzato dal rialzo continuo dei tassi. Rischio economico a parte, la solidità e la validità del mercato bancario non sono in discussione e i cali degli ultimi giorni preannunciano nuovi rimbalzi nel prossimo futuro, facendo delle azioni del settore un'ottima opportunità di acquisto. Soprattutto in vista delle trimestrali, che a quanto ci si aspetta, saranno di ottimo livello.
Fed: fine dei rialzi?
Un ottimo traino per un nuovo rimbalzo, oltre alle trimestrali delle banche, potrebbe essere costituito dalla possibile fine del ciclo di rialzo da parte della Federal Reserve. Non è infatti escluso che il ritocco “dimezzato” di marzo (25 punti invece di 50) costituisca l'ultimo intervento dell'istituto centrale americano. Il rialzo è stato veloce e violento, e solo ora vediamo gli effetti sull'inflazione. Che, con il costo del denaro a 5,25%, è ormai sotto controllo e in discesa.
Ora destano curiosità le prossime mosse della Bce, anche in virtù del continuo calo del prezzo del gas, ormai a un passo da quota 40. Vedremo anche come influirà sui costi delle materie prime la battaglia sui nuovi carburanti delle automobili, che ha parzialmente corretto il passaggio tout court all'elettrico, affiancandogli, appunto, le nuove “benzine ecologiche”.
Finora, l'Europa ha puntato sull'e-fuel (sintetico) escludendo i biocarburanti, il cui uso era caldeggiato dall'Italia e che si basano su materiali naturali (scarti e biomasse). Non si comprende il motivo di questa limitazione, se non accontentare la Germania e salvare, almeno in parte, l'agenda 2035. Tuttavia, sebbene più ecologiche dell'elettrico – problematico sia per i problemi di smaltimento, sia per il possibile utilizzo di centrali a carbone per produrre il surplus energetico – queste “nuove benzine” non sono esenti da problemi: gli e-fuel sono ancora molto costosi, mentre i biocarburanti dipendono dai rischi del settore agricolo, soprattutto se la siccità affliggerà i nostri campi con maggiore frequenza.
Beni rifugio: esistono ancora?
Intanto, si torna a parlare di beni rifugio. Ma, almeno nell'accezione classica, questa categoria non esiste più. L'oro è ormai troppo volatile, e finora non è mai riuscito a stabilirsi oltre quota 2.000 dollari, vera e propria soglia psicologica per il metallo giallo; di contro, un'eventuale flessione a 1.910 dollari potrebbe innescare un rischio ribassista.
Il franco svizzero ha resistito molto bene alle maxigaranzie pubbliche per la fusione Ubs-Credit Suisse, ma le pressioni sono comunque molto forti, e la possibilità di un arretramento non è poi così peregrina. Qualcuno ha addirittura inserito fra i nuovi beni rifugio il bitcoin, sottolineandone la performance (+40%) innescata dalla crisi bancaria. Una vera assurdità: se le criptovalute, che sono tra gli asset più rischiosi in assoluto, vengono definiti “beni rifugio”, questa categoria non ha davvero più senso di esistere. Piuttosto, dalla crescita di questi investimenti traspare il pessimismo di quella parte di investitori che teme nuovi sviluppi dalla crisi bancaria.
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Credit Suisse, un blitz per il salvataggio
Le autorità elvetiche hanno scongiurato il rischio di fallimento della banca, organizzando in tempi record l'acquisizione da parte di Ubs. Sospiro di sollievo da parte dei mercati. Ma non tutti hanno reagito bene...
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Una corsa contro il tempo, che aveva come scadenza l'apertura dei mercati. Stiamo parlando, naturalmente, del salvataggio di Credit Suisse, che solo pochi giorni fa era a fortissimo rischio e che è stata rimessa sui binari in extremis dalle istituzioni elvetiche, grazie all'acquisizione in tempi record da parte di Ubs. Anche se con parecchi strascichi su vari fronti, da quello occupazionale alla caduta d'immagine della piazza finanziaria confederata, fino al forte impegno economico delle casse pubbliche – e, quindi, dei contribuenti svizzeri.
L'arrivo del contagio
La crisi del Credit Suisse si era aperta poco dopo il fallimento di Silicon Valley Bank. Il gruppo svizzero aveva accusato il colpo dopo l'annuncio delle autorità americane, che avevano garantito i correntisti, ma non tutti gli obbligazionisti dell'istituto californiano. Il taglio annunciato ai possessori di bond Svb aveva quindi visto azioni e obbligazioni bancarie scendere di prezzo – con annessa crisi di fiducia sulla sostenibilità dei bilanci. E diffidenza nei confronti delle banche più vulnerabili. Come, appunto, Credit Suisse, bollata dalla stampa internazionale con il poco lusinghiero appellativo di “nuova Lehman”. A sancire l'inizio delle turbolenze è stata una dichiarazione rilasciata, nel corso di un convegno, da Ammar al-Khudairy, presidente di Saudi National Bank. Che altro non è che il primo azionista di Cs con il 9,88%. Il banchiere saudita ha affermato che “ora controlliamo il 9,8% delle banca; andare oltre il 10% comporterebbe troppe nuove regole da rispettare”. Un'esternazione non così clamorosa, che, in tempi normali, sarebbe stata archiviata alla fine del convegno. Ma che in un momento di fortissimo pericolo per la banca è stata presa come pretesto per un attacco speculativo, spinto dall'ampia copertura mediatica della dichiarazione. Risultato: titolo ai minimi, a 1,65 franchi (ne valeva oltre 90 nel 2007). Così, mentre al-Khudairy cercava di calmare la tempesta, accusando da una parte gli speculatori e dall'altra dicendosi sicuro che il governo svizzero non avrebbe lasciato fallire l'istituto, la Banca Nazionale Svizzera – dopo un momento di esitazione - è venuta in aiuto a Cs, accordandogli un prestito di 54 miliardi di franchi. Nel mentre, le autorità confederate hanno spinto per una fusione tra Ubs e Credit Suisse, che – dopo serrate trattative – si è concretizzata, proprio a poche ore dalla riapertura dei mercati. Il prezzo dell'operazione sarà di 3 miliardi di franchi, dopo che un'offerta da 1 miliardo ed una successiva da 2 miliardi erano state sdegnosamente rifiutate dal board Cs. La Banca Nazionale, che ha caldeggiato l'operazione, garantirà l'operazione per oltre 100 miliardi di franchi, e cioè il 20% del pil svizzero. Una somma enorme.
Operazione lampo
L'operazione che ha evitato il crac del Credit Suisse (facendolo, in realtà, sparire tra le braccia del suo storico rivale) si è rivelato un vero e proprio blitz, che ha sorpreso tutti per la sua rapidità. La fusione è stata sicuramente favorita dall'indipendenza della Svizzera e del suo istituto centrale, che ha la possibilità di “creare” il denaro, senza essere sottoposto ai farraginosi meccanismi a cui deve soggiacere la Bce. In ogni caso, l'operazione lampo non è stata creata dal nulla. Quasi sicuramente esisteva un “piano B”, un progetto di salvataggio del Credit Suisse da sviluppare in caso di rischi estremi per la banca. Già, perché da tempo Cs evidenziava forti problemi, e qualcosa covava sotto la cenere. Fin dal 2021, quando il fallimento di Archegos Capital Management aveva causato alla banca svizzera perdite per oltre 5 miliardi di dollari.
I contenti e gli scontenti
A tirare un sospiro di sollievo, naturalmente, le Borse (che hanno rimbalzato dopo la notizia) è il duo Bce-Bank of England, entrambe molto preoccupate di un'eventuale reazione forte dei mercati e di una pressione sui titoli bancari europei. Plauso anche da parte di Asb, l'associazione svizzera dei banchieri: secondo il suo presidente Marcel Rohner, l'operazione ha salvato la credibilità della piazza finanziaria elvetica, e la reputazione della Svizzera, pur “intaccata”, non è stata distrutta. Ci sono, però, anche voci critiche. Prima di tutto, è stata evidenziata un'anomalia: sono stati garantiti gli azionisti, ma non i possessori di obbligazioni subordinate: rovesciando la normale gerarchia del rischio, le autorità di controllo elvetiche hanno azzerato 17 miliardi di CoCo bond, aprendo la porta a una prevedibile serie di cause (già annunciate). La decisione è stata possibile perché, tecnicamente, l'operazione Ubs-Cs non è un salvataggio, ma una fusione. Tuttavia il disagio, anche fuori del perimetro di Credit Suisse, si è rapidamente diffuso: il timore fra i sottoscrittori di CoCo è che l'affaire Credit Suisse possa costituire un precedente pericoloso. Un via libera che al verificarsi di casi simili sia in grado di sovvertire nuovamente l'ordine del rischio. Per un mercato enorme, pari a circa 260 miliardi di euro in tutto il mondo. A ricorrere non saranno solo gli obbligazionisti Cs: ad annunciare cause anche alcuni azionisti di Ubs, che hanno lamentato la mancanza di un voto per dare l'ok alla fusione. Preoccupazione anche dalle organizzazioni sindacali Uss e Aseb, per il rischio che l'accorpamento fra i due colossi del credito causi 10.000 esuberi: l'Uss ha tuonato che non devono essere i dipendenti a pagare “per gli errori dei dirigenti della banca e delle autorità”. C'è anche un rischio istituzionale: il parlamento svizzero potrebbe essere chiamato a una sessione straordinaria (obbligatoria se almeno un quarto dei membri di una delle due camere lo richiede) per discutere dell'operazione. Molto difficile, però, che il Consiglio Federale (o le cause annunciate) possano mettere in dubbio la fusione. Chiunque conosca il mercato sa che banche di quelle dimensioni non possono fallire: sarebbero troppe e troppo devastanti le conseguenze sul sistema economico.
La reazione dei mercati
Inizialmente, i mercati hanno reagito con isteria, ma il via libera all'accordo Ubs-Cs ha portato serenità, con un buon rimbalzo a Piazza Affari. È dunque un momento favorevole per valutare un investimento con attenzione e con il supporto di un consulente esperto. Prima della crisi delle banche americane era consigliabile non incrementare le posizioni. Ora, con il forte calo di questi dieci giorni, sembra lecito attendersi un forte recupero. Una banca solida come Intesa Sanpaolo, ad esempio, ha perso il 25% in una settimana: il prezzo del titolo in borsa potrebbe affrontare una rapida fase di rimbalzo, soprattutto in vista di una trimestrale prevedibilmente molto positiva – come probabilmente accadrà per la maggioranza degli istituti di credito italiani. Naturalmente, l'outlook dipende anche da una previsione ottimistica: cioè, la quasi certezza che le nostre banche non saranno contagiate dal caso Credit Suisse, anche perché le loro esposizioni obbligazionarie nei confronti della banca tigurina sono trascurabili o nulle. Oltre a questo, è bene ricordare che, dopo la crisi Lehman, il sistema bancario europeo è riuscito a imporsi regole ferree che sembrano aver funzionato. Il settore è ora forte e stabile, diversamente da quello americano che si è dimostrato fragile soprattutto nel caso delle banche periferiche e regionali. L'unico campanello d'allarme potrebbe invece scattare se i cinesi che hanno depositi o investimenti nelle banche europee decidessero di spostarli altrove, impauriti dall'eventualità di sanzioni a Pechino (e ai suoi cittadini) a imitazione di quelle già applicate alla Russia. Un rischio per ora remoto, ma che non deve essere ignorato.
La Bce tira dritto
In tutto questo bailamme qual è stata la reazione della Bce? Praticamente nulla. Christine Lagarde ha regolarmente alzato i tassi di 50 punti. Come se nulla fosse successo, come se la crisi del Credit Suisse non si fosse verificata. Sembra molto lontano il whatever it takes di draghiana memoria. Il comportamento attuale del board dell'Eurotower sembra più simile a quello dei vari Politburo dell'era sovietica, che tracciavano in piani quinquennali e non li cambiavano neppure in presenza di elementi che avrebbero richiesto una reazione rapida o un cambio di strategia. L'estrema rigidità della Bce è stata male accolta dai mercati, causando una forte volatilità assorbita solo per le notizie provenienti dall'asse Berna-Zurigo.
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L'immobilismo europeo e lo “strappo” tedesco
Il rialzo dei prezzi del gas fa paura da almeno un anno e dallo scorso marzo è fuori controllo. Tuttavia, le autorità comunitarie continuano a discutere e rinviare la ricerca di soluzioni sempre più urgenti. E Berlino decide di fare da sola, mettendo sul piatto 200 miliardi per salvare la sua economia. Intanto, i mercati archiviano i peggiori primi nove mesi dell'anno dal 1974
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Le prime “bollette pazze” stanno raggiungendo anche le famiglie, dopo aver già spaventato le aziende. Alcune delle quali hanno già chiuso: ultima vittima sono i Caroli Hotels, catena di alberghi che dal 1966 ospitano viaggiatori e vacanzieri a Gallipoli e Santa Maria di Leuca, nel Salento: il gruppo alberghiero ha annunciato che chiuderà a causa dell'insostenibilità dei costi energetici (500.000 euro), lasciando 275 lavoratori sulla strada. Il problema è esteso, a macchia di leopardo, a gran parte dell'Ue. Eppure, i decisori continuano a parlare, argomentare, procrastinare. Ultimo rinvio, quello del piano d'azione della Commissione Ue sull'energia, la cui discussione era prevista per lunedì 3 ottobre, nel corso della riunione dei commissari europei, e che invece è stata rimandata “almeno” dopo il vertice informale dei leader europei previsto a Praga.
Fermi da un anno
A furia di rinvii, è ormai da un anno che si parla di rincaro di gas ed energia, ed è dallo scorso marzo che il problema ha iniziato ad aggravarsi con progressione geometrica. Ma a livello istituzionale europeo siamo ancora al punto di partenza: chi dovrebbe risolvere i problemi, o almeno affrontarli, continua a creare appuntamenti, a cui seguono nuovi meeting che a loro volta rimandano a ulteriori riunioni. Uno scenario degno del Castello di Kafka. Già spuntano i primi interventi improntati alla rassegnazione – come quello di Bruno Le Maire, ministro delle Finanze francese. Con un laconico “non si torna indietro”, l'influente membro del governo di Parigi ha sostenuto la natura strutturale – e non provvisoria – del prezzo del gas, ma anche di quello del petrolio, messo sotto pressione dai possibili tagli alla produzione da parte dell'Opec+. Insomma: l'Europa latita o si arrende. Mentre le uniche operazioni per alleviare i guai causati dai rincari sono state introdotte dagli stati nazionali. Prima da Spagna e Portogallo, che hanno fissato autonomamente un tetto con il placet di Bruxelles. E ora, pochi giorni fa, dalla Germania che, pur in ritardo, ha capito che l'inerzia dimostrata dalla Commissione Europea in questi mesi può portare l'economia europea alla catastrofe: saltando a pié pari l'Ue, Berlino ha quindi messo sul piatto 200 miliardi di euro. La decisione – tra l'altro presa da un paese non certo collaborativo negli sforzi per una soluzione condivisa - ha fatto capire che l'Europa, vista come la vagheggiavamo, non esiste più. E forse non è mai esistita.
Scelta obbligata
A questo punto, il cancelliere Olaf Scholz non aveva scelta: o intervenire subito, o far saltare completamente il sistema industriale tedesco. Proprio come sta saltando il sistema industriale italiano. Importare alle nostre latitudini un'operazione simile a quella del governo tedesco sarebbe più difficile, data l'entità del debito pubblico e le enormi pressioni che può esercitare Bruxelles su di noi. Ma probabilmente, se l'Europa proseguisse nei rinvii ad libitum, potrebbe rivelarsi l'unica soluzione praticabile per evitare il peggio: se chiudono le aziende, chiude il Paese. E il “jolly europeo” ce lo siamo già giocato: nonostante la reputazione a livello internazionale del premier uscente Mario Draghi, in questi mesi non è stata trovata una misura in grado di contrastare le conseguenze reali dell’aumento del prezzo del gas, pertanto sarà compito del nuovo governo riuscire a trovare una soluzione. Ora le uniche, flebili speranze concrete di una soluzione condivisa risiedono nel parere favorevole espresso dalla Germania a una riforma della Borsa di Amsterdam, in cui viene determinato il prezzo del metano. Proposta, questa, avanzata dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, che punta ad ancorare il costo del metano alle tariffe internazionali, piuttosto che a quelle olandesi, molto più onerose. Paradossalmente, un aiuto (ma più a lungo termine) potrebbe arrivare anche dal referendum annunciato dal governo ungherese sulle sanzioni russe, se davvero si terrà. Ma si sospetta che la minaccia di una consultazione popolare possa essere utilizzata da Budapest come “merce di scambio” per evitare misure penalizzanti da parte dell'Ue nei confronti dell'Ungheria.
Truss e Kwarteng, parziale retromarcia
A fare una retromarcia molto decisa sono stati, invece, la premier britannica Liz Truss e il cancelliere dello scacchiere Kwasi Kwarteng. Pressati dal crollo della sterlina, dalle reazioni dei mercati, dall'inflazione alle stelle e dalle pressioni dello stesso Partito Conservatore - che i sondaggi danno al minimo storico come gradimento - il governo di Londra ha rinunciato al taglio dell'aliquota fiscale del 45%. È chiaro che la misura serve a calmare la burrasca che rischiava di portare la sterlina sotto il dollaro e l'euro. E che avrebbe avuto ripercussioni sull'esecutivo, dato che si parlava di un possibile ritorno di Boris Johnson al timone. È però altrettanto chiaro che la retromarcia è parziale. A essere archiviato è solo il taglio dell'aliquota del 45% - tutte le altre misure restano intatte, sul tappeto. E saranno introdotte, a meno di un nuovo tonfo della sterlina.
Rimbalzo delle Borse: sarà vera gloria?
Non dipende però dalla marcia indietro del governo inglese il rimbalzo delle Borse a cui abbiamo assistito a inizio ottobre. Semplicemente, è una normale reazione ai ribassi record fatti registrare nei primi nove mesi di quest'anno, i peggiori dallo stesso periodo del 1974. Anno in cui – casualità – si pagavano le conseguenze di un conflitto molto “impattante” sulle forniture di energia (la guerra del Kippur dell'ottobre 1973). Dopo aver accumulato un -25% (indice azionario globale) in nove mesi, i mercati non potevano che rimbalzare. E lunedì scorso hanno registrato il miglior primo giorno del trimestre dal 2002. Occorre, naturalmente, essere molto cauti per capire se si tratta di un avvenimento isolato oppure di un trend.
Usa: bolla immobiliare in vista?
Anche perché si moltiplicano, negli Stati Uniti, i timori di una nuova bolla immobiliare, che andrebbe ad aggiungersi a crisi energetica, guerra e inflazione come elemento negativo per i mercati. Le paure diffuse riguardano soprattutto New York e la California, che trainano il real estate dello Zio Sam. In particolare, nella Grande Mela, si è costruito tanto e troppo, con costi esorbitanti e deficit locali. Il rialzo dei prezzi (non solo immobiliari) ha colpito sia i residenti a New York, sia i pendolari che raggiungono la capitale finanziaria americana ogni giorno, spinti dalla crisi economica a scegliere (quando possibile) lo smart working. Una bolla immobiliare, oltre a ripercuotersi sulle economie di tutto il mondo, fermerebbe però anche la corsa del dollaro, che una temporanea sopravvalutazione ha reso una sorta di “gigante dai piedi d'argilla”.
Credit Suisse: non sarà una nuova Lehman
In Europa sono invece forti i timori sulla crisi del Credit Suisse, esplosa venerdì scorso. I primi rumours suggerivano forti difficoltà per una banca sistemica europea, e presto si è capito che si trattava del gruppo creditizio tigurino, i cui credit default swap a cinque anni erano saliti dai 55 punti base di inizio 2022 al massimo di 255 di lunedì (per poi attestarsi intorno ai 300 punti base). Aveva poi fugato ogni dubbio l'amministratore delegato Ulrich Körner, che ha riconosciuto le criticità attraversate dalla banca. Si ritiene che il Credit Suisse necessiti di un aumento di capitale da 4 miliardi di franchi e di cedere vari asset, nonché di un piano di ristrutturazioni molto profondo. Tutto questo mentre la capitalizzazione dell'istituto è scesa dai 30 miliardi del marzo 2021 ai quasi 10 attuali (l'Ubs, maggior competitor del Credit Suisse, ne vale 50). Tanto per fornire un paragone, Lehman Brothers, poco prima del fallimento, capitalizzava 7 miliardi di dollari. Tuttavia, il rischio che il colosso elvetico segua il percorso del gruppo americano è contenuto, al momento. Il “fatal 2008” ha insegnato che le grandi banche, nel bene e nel male, non possono fallire, perché in caso di default trascinerebbero con sé intere economie. E in questo periodo storico i guai sarebbero decisamente peggiori rispetto al caso-Lehman, dato che i dati di partenza – cioè la situazione attuale dei mercati e delle economie di tutto il mondo – è ben più disastrata rispetto al 2008. Per questo motivo, si troverà una soluzione. Nel caso in cui la situazione si aggravi, è plausibile un piano di nazionalizzazione, o almeno di intervento pubblico, con la Confederazione che andrebbe ad iniettare 60 miliardi di franchi. Per evitare che la banca presieduta da Axel P. Lehmann (nessuna correlazione, state tranquilli) trascini con sé l'economia europea.
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