Mercati sotto controllo, nonostante la guerra
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
La nuova fase della guerra in Medio Oriente, con il coinvolgimento degli Stati Uniti, si è fatta sentire negli ambienti borsistici, ma tutto sommato moderatamente. Dopo l’attacco americano all’Iran si sono verificati arretramenti generalizzati, ma fisiologici e controllati, e dipendenti anche da altri fattori: Milano, che aveva già chiuso la settimana in ribasso a causa del conflitto, ha aperto il primo giorno post-bombardamento Usa lasciando sul terreno l’1% circa, ma sul calo ha inciso anche il maxi-stacco delle cedole; Madrid, unica in Europa, ha addirittura chiuso il primo giorno della settimana in positivo. Più che accusare il colpo i listini lo hanno assorbito, segno che sono ormai in grado di relazionarsi con gli effetti dell’instabilità geopolitica, cedendo il minimo indispensabile per poi provare un recupero. Almeno in Europa, la situazione dei mercati è improntata al sereno: anche dopo i passi indietro della scorsa settimana e di lunedì, Milano rimaneva oltre il 15% da inizio anno, contro lo zero degli indici americani. Quest’anno, insomma, è bastato avere la forza per investire molto sulle Borse europee e rinunciare a un’esposizione in dollari per portare a casa ottimi risultati: le previsioni che intravedevano un biglietto verde addirittura sotto la parità si sono dimostrate fallaci, in un quadro che ora vede la nostra moneta oltre quota 1.15.
Voglia di correre
La forza e la resistenza (e resilienza, come si direbbe oggi) dei listini è emersa chiaramente dopo l’annuncio di un pur instabile cessate il fuoco fra Israele e Iran: la notizia – nonostante l’altalena tra smentite e conferme, allarmi e contrordini e interventi anche duri di Donald Trump – ha innescato un recupero degli indici europei che, potremmo dire, hanno “voglia” di correre e hanno provato il rilancio. Wall Street, da parte sua, ha ceduto qualcosa dopo la risposta iraniana con il bombardamento missilistico alle basi americane in Qatar, ma ha subito invertito la rotta con guadagni generalizzati, che forse sono dipesi dal carattere poco più che simbolico del raid.
Petrolio su e giù
Il recupero delle Borse dipende anche dal prezzo del petrolio, la cui breve corsa, che aveva allarmato i mercati e l’opinione pubblica, si è fermata dopo l’annuncio della tregua: il greggio è tornato sotto quota 70 dollari al barile, facendo gongolare Trump, strenuo sostenitore dei prezzi soft. Il presidente americano, con il suo solito stile informale, ha anche pubblicato un post anti-speculazione sul social Truth, rivolto all’industria americana degli idrocarburi: “Tenete tutti i prezzi del petrolio bassi. Vi tengo d’occhio! State giocando dal lato del nemico, non fatelo”. Se il “combinato disposto” fra un raffreddamento della guerra in Medio Oriente, gli appelli di Trump per il calo del prezzo del greggio e la sovrapproduzione decisa dall’Arabia Saudita dovesse tenere, le Borse europee potranno concentrarsi su semestrali, outlook delle aziende e rischio nuovi dazi (il prossimo 9 luglio, lo stesso Trump dovrebbe annunciare ulteriori decisioni in questo senso).
Le due anime della Fed
I mercati sono anche molto attenti alle strategie delle banche centrali, che hanno scelto percorsi molto divergenti fra loro.
A lasciare i tassi invariati sono state Federal Reserve e Banca d’Inghilterra. L’istituto centrale americano, in realtà, ha espresso l’intenzione di apportare due interventi verso il basso entro fine 2025, facendo però attenzione a eventuali ulteriori effetti negativi dei dazi; tuttavia, Jerome Powell è stato esplicitamente insultato da Trump, che ha espresso il suo disappunto mentre la riunione del direttivo era in corso. L’inquilino della Casa Bianca non è l’unico a spingere per il calo dell’attuale forbice, ferma a 4,25%-4,50%: posizioni dovish si sono infatti registrate anche all’interno della banca centrale, pur con toni molto paludati. In questi giorni, due membri del board dei governatori non hanno escluso la possibilità di un taglio già nel corso della riunione in programma a luglio: prima Christopher Waller si è detto possibilista, poi Michelle Bowman si è dichiarata “favorevole”, sempre nel caso in cui l’inflazione restasse contenuta. Semplici opinioni o candidature alla successione di Powell?
Europa tra falchi e colombe
La Banca d’Inghilterra ha mantenuto i tassi al 4,25%, motivando la scelta con l’imprevedibilità della situazione geopolitica (guerra in Medio Oriente e dazi), mentre l’inflazione fa ancora paura. Oltre a questo, Londra sta ancora scontando le conseguenze della Brexit, che ha limitato la possibilità delle aziende di assumere personale dall’Unione Europea, incidendo sull’economia. La Banca Nazionale Svizzera, da parte sua, ha portato i tassi a zero, molto probabilmente per fermare la corsa del franco svizzero, il cui apprezzamento non piace alle autorità monetarie e politiche elvetiche. In mezzo al guado (anche se ormai più vicina al lato delle colombe) c’è la Banca Centrale Europea, che naviga sull’1,75% ed è ormai a target; nei prossimi mesi, la Bce potrebbe anche tagliare di mezzo punto le percentuali di riferimento, ma poco cambierebbe. Il vero problema dell’Eurozona non è la politica monetaria, ma l’economia diventata asfittica a causa del green deal radicale imposto dalla Commissione.
Risiko bancario
Sul fronte del risiko c’è una novità: il possibile passo indietro di Unicredit sul dossier Banco Bpm. Andrea Orcel, amministratore delegato di Piazza Gae Aulenti, ha fatto intendere che, se gli ostacoli non dovessero essere superabili, potrebbe rinunciare all’opa. A sollevare i dubbi di Unicredit, la difficoltà di convincere gli azionisti di Piazza Meda, arroccati in difesa, ad accettare un’operazione carta contro carta, ma anche il golden power governativo e le conseguenze della sorpresa suscitata dall’offerta Mps su Mediobanca. A proposito di golden power, l’utilizzo intensivo dello strumento è stato criticato da Paolo Savona, giunto all’ultima relazione come presidente della Consob. La facoltà del governo di porre il veto sull’acquisto di partecipazioni per tutelare interessi nazionali, ha detto, era stata pensata come norma extra-ordinem, ma si è trasformata in un esercizio multi-purpose. “L’interazione tra le regole del gioco di mercato e societarie stabilite dal Tuf e le norme sul golden power”, ha affermato il presidente della Consob, “presenta aspetti che richiedono di essere perfezionati e coordinati con le regole dei trattati europei”. Savona ha anche criticato i dazi (operazione che “riporta indietro le lancette della storia”) e le criptovalute, che ha paragonato ai subprime, evidenziando un rischio di bolla.
Musica, maestro
Una bolla di altra natura rischia di coinvolgere i concerti negli stadi, che evidenziano lo strano fenomeno del “tutto esaurito” artefatto.
In pratica, alcuni cantanti ricevono dai promoter prima della tournée un corposo anticipo economico. Nel caso in cui un numero alto di biglietti (carissimi) non venga piazzato, l’artista deve restituire la somma, spesso acquistando di tasca sua una parte dei tagliandi. In altri casi, molti ingressi vengono redistribuiti a prezzi irrisori, o addirittura gratuitamente, a organizzazioni o associazioni ricreative. Questo meccanismo curioso, insieme al costo troppo elevato dei biglietti, potrebbe mettere a rischio il futuro dei concerti, riservando Wembley o San Siro solo ad artisti di altissimo livello, o almeno in grado di riempire le gradinate “spontaneamente”. Il fenomeno della svendita dei molti biglietti invenduti sta anche contraddistinguendo i Mondiali di calcio per club, in corso negli Stati Uniti: secondo alcune testimonianze, i tagliandi vengono ormai abbinati a elettrodomestici o altri articoli venduti negli esercizi della città dove è prevista la partita, con buona pace di chi ha acquistato l’ingresso a 200 o 300 dollari. I Mondiali per club si svolgono in concomitanza non solo con il campionato americano di calcio, che non si è fermato, ma anche con la Gold Club della Concacaf (cioè i campionati per nazionali del Nord e Centro America), anch’essa organizzata dagli Usa e i cui stadi sono semivuoti. Ciò dimostra che l’inflazione di eventi sportivi e calcistici, oltretutto nello stesso Paese, non è il metodo migliore per ottenere ricavi economici.
Medio Oriente in fiamme. Ma le Borse tengono
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
L’attacco di Israele all’Iran e l’apertura di un nuovo conflitto in Medio Oriente hanno diffuso un senso di paura nelle Borse, intimorite soprattutto dal rischio di picchi del petrolio. Ma le perdite evidenziate dagli indici dopo le prime notizie dell’escalation militare sono almeno parzialmente rientrate; si registrano nuove turbolenze, che però sembrano rientrare nelle normali dinamiche di mercato. Nessun maxi-storno, dunque: le Borse dimostrano una resistenza paradossale ai nuovi problemi geopolitici, che piombano sull’economia mondiale in un periodo contraddistinto anche dalla lunga tiritera sui dazi, dalle incertezze sui tassi Fed e dalla crisi dell’automotive. Il petrolio, da parte sua, è stato inizialmente protagonista di un rialzo fortissimo, ma si è poi assestato sui livelli di inizio anno, cioè nella forbice fra i 70 e gli 80 dollari al barile. Occorre considerare che il nuovo conflitto è iniziato mentre in sede Opec+ era in corso un dibattito acceso sul prezzo del petrolio, con l’Arabia Saudita intenzionata a incrementare ulteriormente la produzione (e un conseguente calo dei prezzi) e la Russia strenuamente contraria a questa eventualità: a causa delle sanzioni Mosca sta vendendo sotto costo il suo greggio a India e Cina – che è anche il primo compratore (a sconto) di greggio iraniano.
Le apprensioni sul petrolio
Le Borse hanno dimostrato di non aver perso gli anticorpi per resistere, almeno fino a quando il prezzo del petrolio rimarrà a livelli comunque bassi. Diverso sarebbe se venissero colpiti i terminal petroliferi iraniani, oppure se Teheran decidesse il blocco dello stretto di Hormuz, snodo indispensabile per il passaggio del greggio. In questo caso, si rischierebbe un rincaro di Brent e Wti difficilmente controllabile. Ma l’eventualità è remota, un po’ per il rischio di un intervento militare americano, un po’ perché il blocco dello stretto danneggerebbe anche l’export della Cina, alleata dell’Iran, e gli interessi economici degli altri Paesi del Golfo. E’ quindi probabile che la situazione non si aggravi ulteriormente e che i mercati riescano a digerire anche questi stimoli negativi (come detto, hanno già inviato segnali in questo senso) e si concentrino sui dazi Usa-Cina.
Oro a go-go
Il dollaro, che ai primi attacchi israeliani aveva recuperato terreno, è poi tornato poco sopra le posizioni del giorno prima. L’euro, pur in miglior salute rispetto al biglietto verde, ha comunque perso nel confronto con varie altre monete. A guadagnare, come di consueto nelle crisi geopolitiche, è invece l’oro, che da tempo è tornato bene rifugio, spinto dalla voglia di sicurezza causata dalle sanzioni alla Russia. Il “re dei metalli” ondeggia sulla quota di 3.400 dollari l’oncia, e sembra avere le prerogative per salire stabilmente sopra i 3.500.
De Meo lascia il settore automobilistico
Hanno fatto scalpore le dimissioni di Luca de Meo dalla carica di ceo del gruppo Renault, che guidava da cinque anni. Il manager italiano, che lascerà la casa transalpina il prossimo 15 luglio, ha spiegato la sua scelta con il desiderio – spiega una nota di Renault – di “affrontare nuove sfide al di fuori del settore automobilistico”. Un settore in cui De Meo lavorava dal 1992, e che lo ha visto operare nei ranghi di varie case con ruoli crescenti. Dal prossimo 15 settembre, il top manager entrerà come amministratore delegato in Kering, la multinazionale del lusso di François-Henri Pinault che controlla marchi come Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Alexander McQueen, Boucheron, Pomellato, DoDo, Qeelin, Brioni, e Ginori 1735. Le dimissioni di De Meo e la sua separazione dal settore in cui aveva sempre militato preoccupa moltissimo: il dirigente era non solo un dirigente specializzato, ma anche un appassionato di motori fin da bambino. Il clamoroso saluto non solo a Renault, ma all’automotive, è stato interpretato come una manifestazione di pessimismo nel futuro del comparto in Europa, duramente messo alla prova dal green deal di Ursula von der Leyen. La reazione della Borsa alle clamorose dimissioni è stata molto forte: giù le azioni Renault, su i titoli Kering. Un atto di fiducia, quest’ultimo, un po’ troppo istintivo: il manager è certamente capace, ma è nuovo di un settore, come il lusso, che non sta attraversando i suoi giorni migliori, anche a causa della crescente concorrenza cinese.
Il caro-gas mette a rischio le fonderie
La crisi dell’automotive europeo contribuisce anche a crescenti difficoltà per acciaierie e ferriere di alluminio. Pochi veicoli immatricolati causano un calo di produzioni industrali e minori rottami a disposizione, con conseguente dumping: Cina, India e Stati Uniti stanno acquistando i detriti in Europa a prezzi che l’industria Ue non può sostenere. Tutto questo si unisce alla nuova impennata del gas, che potrebbe mettere in ginocchio le fonderie, industrie strutturalmente energivore. L’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Fabio Zanardi, presidente di Assofond, organismo di categoria che, in seno a Confindustria, rappresenta le fonderie italiane. Il settore, ha detto, è in bilico sia a causa dei dazi al 50% su acciaio e alluminio, sia per il rincaro dell’energia. Se i prezzi rimarranno questi, ha detto Zanardi, per le fonderie non ci sarà futuro.
Il mondo nel pallone
Sono intanto iniziati negli Stati Uniti i Mondiali di calcio per club, che alla vigilia del calcio d’inizio erano visti a rischio flop economico, anche a causa della vendita a prezzo di saldo dei molti (carissimi) biglietti non acquistati. In parte, però, la strategia ha limitato i danni: se per le partite con meno appeal gli stadi erano semivuoti, i match più interessanti hanno attirato numerosi tifosi, sfiorando il sold out. Questo fa sperare gli organizzatori in vista delle gare a eliminazione diretta, che vedranno prevedibilmente protagoniste squadre europee e sudamericane. La prima edizione allargata del massimo torneo per club serve comunque agli Stati Uniti per lanciare i prossimi Mondiali di calcio, previsti nel 2026 in Usa, Canada e Messico: se la manifestazione riuscisse nel suo intento, passerebbe in secondo piano anche un eventuale insuccesso economico della kermesse. Quali conseguenze economiche avrebbe, invece, un eventuale mancata qualificazione dell’Italia alla Coppa del Mondo per la terza volta consecutiva? La risposta non è così semplice come potrebbe sembrare. Perché da un lato, il calcio vale il 4% del pil italiano, e una qualificazione degli azzurri, con il conseguente maggior coinvolgimento degli appassionati, andrebbe a generare guadagni indiscutibili per bar, ristoranti e “indotto” pallonaro. Dall’altro, però, i fusi orari nordamericani rischierebbero di obbligare i sostenitori a levatacce o veglie notturne per poter assistere ai match, con la conseguente perdita di produttività, impossibile da quantificare, ma difficilmente confutabile.
Imminente la riunione Bce: estrema cautela sui mercati
Domani la Banca Centrale Europea deciderà se alzare ulteriormente i tassi o mantenerli al livello attuale. In attesa del verdetto, le Borse si muovono con molta cautela, portando le movimentazioni al minimo. Mentre la recessione già incalza e la crisi tedesca spaventa l'intera Unione
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo la chiusura della scorsa settimana in attivo, che ha ribaltato la precedente situazione di difficoltà, la Borsa di Milano è ripartita, come gli altri listini europei, con una certa cautela. Unici acuti, il recupero delle banche, capaci di riprendersi dopo i precedenti cali, e la buona performance di Saipem, che quest'anno è salita di più rispetto alla media del mercato (anche se la sua quotazione è ancora del 90% più bassa rispetto a cinque anni fa). L'incertezza dipende dall'attesa delle riunioni di Bce (domani) e Fed (20 e 21 settembre), che prenderanno decisioni molto importanti sulla politica monetaria nel mondo occidentale. Importanti anche i dati sull'inflazione americana, che saranno diffusi a breve.
Il monito di Draghi
Quando le decisioni delle banche centrali saranno comunicate, potremo anche intuire meglio quale sarà l'intonazione dei mercati. Per ora non possiamo far altro che aspettare. Non è facile, infatti, azzardare previsioni sulle prossime mosse di Francoforte e Washington. In particolare, sono le scelte dell'Eurotower ad apparire enigmatiche: la prosecuzione della stretta monetaria e lo stop ai rialzi dei tassi sembrano avere pari probabilità. Chi sostiene la prima opzione, sottolinea che l'inflazione è attualmente al 5,3%, ben lontana dall'obiettivo del 2% fissato dalle autorità monetarie europee. Chi invece caldeggia la seconda scelta, focalizza l'attenzione sull'economia in difficoltà (per non dire a rischio) e la recessione che, come uno spettro, si aggira per l'intera Europa. Una situazione che è stata evidenziata persino da Mario Draghi: l'ex presidente Bce ha sottolineato che o l'Europa cambia, o l'Europa salta, lanciando, come un sasso nello stagno, anche una domanda retorica: “può un'unione monetaria sopravvivere senza un'unione fiscale?”. Un eventuale nuovo rialzo dei tassi potrebbe, insomma, aprire un pericoloso vaso di Pandora che finora è rimasto faticosamente chiuso, rendendo devastante una recessione che già si sta manifestando nell'intera Ue. Anche in Germania, alla luce della crisi che ha scosso la locale economia. Per non parlare dei paesi con un debito pubblico alto, già in difficoltà per il costo sempre più elevato del denaro. Quale la reazione delle Borse a un eventuale, nuovo rialzo dei tassi? Sicuramente negativa, anche se i listini europei potrebbero rivelarsi in grado di limitare i danni. Soprattutto Piazza Affari, essenzialmente per l'alta presenza di titoli bancari, che sono tra le poche azioni favorite dal rialzo dei tassi.
Germania in crisi
Come detto, la crisi improvvisa dell'economia tedesca è molto pericolosa per l'intera Europa. La Commissione Ue ha rivisto al ribasso le prospettive di crescita di Berlino, passando dal +0,2% al -0,4% Alla congiuntura negativa della Germania, la prima dopo la fase acuta della pandemia, non è certamente estraneo il rialzo dei tassi Bce – ironia della sorte, caldeggiato proprio dalle autorità monetarie di Berlino. Da parte sua l'inflazione europea ha ridotto sensibilmente il valore degli stipendi, provocando da un lato il calo dei consumi interni, dall'altro la discesa della domanda a livello internazionale, che a sua volta ha fatto scattare un decremento significativo delle esportazioni. Una voce, questa, determinante per il buono stato dell'economia tedesca. Preoccupante anche la diminuzione di manodopera, dovuta essenzialmente all'ondata di pensionamenti e al calo demografico: se perdurasse questa situazione, il cancelliere Olaf Scholz potrebbe proporre il ricorso a lavoratori sia comunitari, sia extra-Ue, scatenando malumori su una parte della popolazione.
Rischio effetto domino
La recessione che ha colpito la locomotiva d'Europa preoccupa non poco, anche per l'effetto domino che – soprattutto se si dimostrasse molto profonda - potrebbe scatenare nel resto dell'Unione. Soprattutto in Italia: la nostra economia, nel bene e nel male, è intrecciata con quella di Berlino, e sicuramente ne risentirebbe qualora la Germania chiudesse l'anno con una contrazione del pil. Davanti a questi dati, e a questi rischi, è lecito chiedersi: la posizione tedesca in ambito Bce cambierà? Oppure Berlino proseguirà nella linea di austerity e stretta monetaria, non abbandonando l'alleanza con i “falchi”? Le prime risposte potrebbero essere fornite domani dalle autorità monetarie e a breve da quelle politiche, in sede di discussione sulla reintroduzione del patto di stabilità dal prossimo 1 gennaio. Scelta che si potrebbe rivelare molto pericolosa, considerata la situazione generale. La strada più logica sarebbe, ça va sans dire, la riforma di questo strumento, che nella sua attuale formulazione si è dimostrato più una camicia di forza che un volano di stabilità. Auspicabile, anche se molto improbabile, sarebbe un passo ulteriore: il cambiamento radicale dei principi di governance europea, che però andrebbe a intaccare (e ridefinire) i trattati.
Bene il dollaro, la sterlina soffre
In questo scenario, il dollaro ha recuperato sull'euro. A contribuire alla performance del biglietto verde, il probabile stop della Fed al rialzo dei tassi, su cui i mercati scommettono molto di più che non su un'analoga decisione Bce. Si è invece fatto molto clamore sul calo della sterlina. Forse troppo. E' vero che la moneta di Sua Maestà, ultimamente, ha sofferto per un'inflazione persino maggiore che nel resto d'Europa, anche a causa della carenza di risorse e di personale. Ma, almeno finora, i grafici del pound sono fluttuanti e i valori attuali restano ampiamente inferiori alle valutazioni dei mesi pre-Covid. Poco credibile, se non fantascientifica, è invece una imminente situazione di parità sterlina-euro-dollaro. E, anche se questa inverosimile possibilità si verificasse, ci vorrebbero almeno due o tre anni per vedere un simile tonfo della sterlina. A meno, ovviamente, di “cigni neri” particolarmente devastanti.
Ottobre, riparte il Btp Valore
In questa situazione di estrema incertezza, c'è qualcosa di sicuro: il mese prossimo partirà la nuova emissione del Btp Valore, di durata quinquennale, con cedola trimestrale e premio finale di fedeltà. Indipendentemente dai tassi minimi garantiti, che saranno comunicati il prossimo 29 settembre, la notizia è buona. E' infatti positivo che il Ministero del Tesoro cerchi, per quanto possibile, di offrire sul mercato interno il proprio debito pubblico. Certamente, il futuro di queste emissioni dipenderà molto dalla situazione dei tassi nei prossimi mesi.
Recessione alle porte
Secondo alcuni analisti finanziari, il 2023 potrebbe rivelarsi l'anno peggiore per l'economia dalla crisi del 2009. L'economista Nouriel Roubini calca la mano e prevede che la depressione sarà lunga e dolorosa per famiglie e aziende. Tuttavia, le Banche centrali non hanno cambiato strategia rispetto a 14 anni fa, limitandosi a uno scontato rialzo dei tassi
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
La recessione mondiale sembra ormai alle porte. Per l'economia globale il 2023 rischia di essere l'anno peggiore dal 2009. E, tra i paesi occidentali, la Gran Bretagna sembra essere l'apripista verso questo scenario da incubo.
Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti ad avere previsto la crisi del 2008, ha persino rincarato la dose: secondo il professore della New York University, la recessione che sta per arrivare sarà molto brutta, potrebbe durare anni e farà soffrire molto famiglie e imprese, mentre i governi non saranno nelle condizioni di introdurre adeguate facilitazioni fiscali per la mancanza di margini.
I dati sull'aumento delle spese confermano i primi segnali di tempesta. Un esempio su tutti: in Germania, i prezzi alla produzione di agosto sono saliti del 45,6% annuo, mentre il costo dell'energia ha registrato un aumento del 20,4% su base mensile e del 139% a livello tendenziale. Si tratta dei rincari più alti mai registrati dall'inizio dell'indagine statistica nel 1949.
Vecchi rimedi
La storia, si dice, è maestra di vita: per affrontare questa tempesta incombente dovremmo imparare da quanto è accaduto in passato, e possibilmente evitare gli errori commessi.
E invece no: le banche centrali si comportano come fecero nel biennio 2008-09. E cioè, si limitano ad alzare i tassi. Mentre le poche misure (comunitarie e nazionali) introdotte in Europa contro il caro-energia e i costi folli del gas si rivelano inefficaci e confuse – con l'eccezione del tetto introdotto autonomamente in Spagna e Portogallo.
In Spagna e Portogallo. Non in Italia, dove si è puntato sui crediti di imposta per aiutare le aziende a pagare le bollette. Va da sé che la misura è monca: aiuterà infatti alcune imprese e ne escluderà altre, dato che per godere di un credito di imposta occorre avere utili. Paradossalmente, saranno lasciate fuori le aziende con più necessità di sostegno, che dovranno fronteggiare senza alcun aiuto il pagamento di bollette aumentate di sei-sette volte.
Ma se Roma piange, Bruxelles non ride. La proposta del tetto al prezzo del gas è ferma su una scrivania perché non trova l'unanimità dei paesi membri, e neppure il disaccoppiamento tra le tariffe del gas e quelle dell'energia è scontato. Unica certezza è che il prossimo 30 settembre, data in cui i ministri dell'energia si troveranno di nuovo, saranno introdotti razionamenti e limitazioni per il cittadino. Per dirla con il cantautore milanese Walter Valdi, semper mì. Cioè: le situazioni scomode vengono scaricate regolarmente sul consumatore, che alla fine è costretto a pagare per errori altrui.
Aria di bonaccia
In questa calma innaturale, che sembra tanto la quiete prima della tempesta, una cosa è chiara: che la questione energetica e le sue variabili rendono la situazione attuale potenzialmente più grave rispetto a quella del 2008. Con conseguenze imprevedibili: solo una (probabile) contrazione del Pil pari al 2,5% equivale a mezzo milione di posti di lavoro in meno. Davvero una patata bollente per chiunque vinca le prossime elezioni.
Nel mentre, è passata praticamente sotto silenzio la violazione dei confini armeni da parte delle truppe azere. Avvenuta, fra l'altro, a poche ore di distanza dall'accordo di fornitura del gas fra Unione Europea e Azerbaigian.
Ciò conferma inequivocabilmente quanto si diceva all'inizio della crisi ucraina: misure come le sanzioni possono essere coerenti con un'idea di pace, democrazia e rispetto delle leggi internazionali solo se sono comminate a tutti i paesi che non rispettano i diritti umani. Indistintamente. Un'impresa impossibile, dato che la maggioranza di chi ci fornisce materie prime non brilla certo sotto questo aspetto. La non reazione dell'Ue alla crisi armeno-azera non fa che confermare, ancora una volta, questa incoerenza.
Federer, fine di un'era
Se la nuova crisi ci fa tornare indietro di 14 anni, l'annuncio di Roger Federer, che ha comunicato il suo ritiro dal tennis dopo la Laver Cup, ci riporta al 2001 - anno in cui il fuoriclasse basilese vinse il suo primo torneo Atp, a Milano.
L'inizio dell'era-Federer coincide con gli anni dell'euromania: nel 2002 la moneta unica fu accolta con entusiasmo ai quattro angoli d'Europa e nel 2003 - anno in cui il tennista renano conquistò il suo primo slam, sull'erba amica di Wimbledon - la nostra valuta cavalcava l'onda della grande rivalutazione sul dollaro. Mentre cresceva il boom dell'europeismo, favorito anche dai voli low cost e dal crescente scambio di esperienze tra cittadini dell'Unione (soprattutto giovani).
Oggi, l'euro è sotto la parità con il dollaro, e ancor più sotto nel rapporto con il franco svizzero, l'economia ha subito una serie di crisi devastanti e l'euroscetticismo è ai massimi. Il nostro continente ha abbandonato il suo ruolo di “gigante economico” e si è impoverito, mentre il resto del mondo si è arricchito.
Dove abbiamo sbagliato? È mancata del tutto la coesione. Pensavamo di entrare in una nuova era, ma purtroppo non abbiamo sviluppato quell'unione politica e fiscale che si sarebbe dimostrata necessaria per competere con Stati Uniti e Far East.
Il passo non è stato compiuto, e ciò ha reso impossibile la fase successiva, e cioè la progettazione di un debito pubblico comune, vero scudo contro ogni possibile attacco all'euro e alla nostra leadership economica.
Trent'anni dal “mercoledì nero”
Si parlava del primo torneo vinto da Federer da professionista, all'ombra del biscione visconteo di Milano. Alcuni anni prima, il tennista svizzero ancora bambino aveva dominato un altro torneo, questa volta da junior, sotto un altro biscione visconteo, quello di Bellinzona. Correva l'anno 1992. Quello del “mercoledì nero”, che vide affossare la lira e la sterlina sotto i colpi di un attacco speculativo, e il cui trentennale è stato ricordato alcuni giorni fa.
L'euro non c'era ancora e i paesi Ue avevano la possibilità di svalutare. Però, Italia e Gran Bretagna erano state costrette uscire dal sistema di cambi dello Sme, con gravi ripercussioni sull’economia.
Il “mercoledì nero” ha rappresentato la prima “scommessa” contro l'Italia da parte della finanza speculativa – libera, ora come allora, di mettere in ginocchio intere economie.
Sempre nel 1992, alcuni mesi prima, il governo italiano aveva inaugurato la stagione di privatizzazioni e di dismissione del patrimonio dello stato. Da allora, si è pian piano ridotta la classe media. Oggi, per la prima volta nella storia, i figli stanno peggio dei propri genitori, e i ragazzi non riescono più a farsi una famiglia, braccati da crisi, disoccupazione e dumping salariale, innescato anche dalla concorrenza della crescente manodopera straniera.
Petrolio, la grande incognita
C'è tranquillità, invece, sul fronte del petrolio, che si sta deprezzando. Il trend sta creando malumori nell'Opec+: i produttori, guidati dall'Arabia Saudita, sono intenzionati a fermare la discesa delle quotazioni.
Sembra che il decremento del greggio sia stato influenzato da un'operazione dell'amministrazione Biden, che in vista delle elezioni di mid term, sta ricorrendo alle riserve strategiche per evitare rincari della benzina. Per motivi essenzialmente elettoralistici.
Dopo il rinnovo delle camere – o comunque all'esaurimento delle riserve – gli Stati Uniti dovranno però ricostituire il magazzino. E in quel momento, è prevedibile che il prezzo del greggio torni a salire. Senza che sia necessario l'intervento dell'Opec+.
Scende, invece, l'oro. Il trend è l'ulteriore dimostrazione di quanto siano confusi oggi i mercati: il metallo giallo non protegge più dall'inflazione. Il dato potrebbe anche essere condizionato dalla vendita di oro da parte della Russia, per finanziare la guerra in Ucraina.
Le Borse, da parte loro, sono nervose e volatili per il nuovo, possibile rialzo dei tassi negli Stati Uniti, oltre che per la crisi incombente. Per questo, sono ancora consigliati i titoli difensivi, come le utility e i petroliferi. Disco rosso, invece, per le azioni industriali: su questo fronte è meglio aspettare di capire come sarà affrontata la tempesta-bollette.
Il merge di Ethereum
Soffrono i mercati e soffrono le criptovalute, influenzate anche dal nuovo decremento dei titoli tecnologici e del Nasdaq. A questa discesa non si sottrae neppure Ethereum, nonostante la grande operazione (il merge) che ha portato la moneta virtuale dall'inquinante ed energivoro proof of work al più sostenibile proof of stake.
Per ora, la scelta non ha premiato le quotazioni, mantenendo Ethereum in linea con le altre crypto. Un domani, però, questa divisa virtuale potrebbe invertire la tendenza generale, premiata da una scelta all'insegna della sostenibilità.
In futuro, la vendita di Bitcoin e il contestuale acquisto di Ethereum potrebbe rivelarsi una strategia tutt'altro che remota – perché si avveri, però, è necessario che qualche grande investitore rompa l'attesa e traini il mercato verso questa scelta. Una mossa che, naturalmente, al momento non può essere prevista.
Image by rawpixel.com
La folle corsa del gas
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Il prezzo del gas continua a salire vertiginosamente, inanellando record su record. Dopo il nuovo stop a Nord Stream, l'oro blu ha sfiorato quota 300 euro a megawattora, per poi attestarsi nell’intorno dei 270 euro.
Il rischio è ormai noto: se non si dovesse trovare una soluzione, l'economia europea potrebbe crollare, con scenari da incubo. Vale a dire: imprese che chiudono, forte aumento della disoccupazione e cittadini sull'orlo della povertà.
L’impatto delle sanzioni su Mosca
Per capire il trend è sufficiente esaminare la differenza tra le bollette di agosto 2021 e quelle attuali, che in alcuni casi arrivano a costare sei volte tanto. Finora, in Italia si è cercato di turare la falla con sconti sull'imposizione fiscale in bolletta, che sono costati circa 30 miliardi di euro, pari a 2 punti di Pil. E le nuove, inevitabili riduzioni per i prossimi mesi costeranno altrettanto.
La corsa del gas dimostra ancora una volta quanto i sei pacchetti di sanzioni introdotte dall'Ue contro la Russia abbiano avuto un impatto non del tutto atteso. Soprattutto in paesi come Germania e Italia, legati mani e piedi alle forniture di Mosca. Non è un caso che a Berlino l'asse pro-embargo inizi a incrinarsi; il liberale Wolfgang Kubicki, vicepresidente del Bundestag, ha proposto senza mezzi termini l'apertura del Nord Stream 2, la cui inaugurazione è stata bloccata su pressioni americane, per poter salvare l'economia tedesca. Una posizione singolare per un dirigente di un partito particolarmente severo nei confronti della Russia e della sua aggressione all'Ucraina.
Se la Germania invertisse la rotta, respirerebbe un po' anche l'economia italiana, già duramente colpita dallo stop ai commerci con Mosca. Solo le mancate esportazioni costano al nostro paese un punto di pil – e l'impatto potrebbe essere persino maggiore se non ci fossero le “triangolazioni”, cioè la presenza di alcuni paesi che accettano di fare da intermediari tra l'Italia e la Russia, permettendo alle aziende di aggirare l'embargo.
Le sanzioni – lo avevamo previsto fin da febbraio – non riescono a generare l’impatto atteso sull’economia russa, che finora, è stata colpita solo marginalmente in alcuni ambiti, ma favorita in modo massiccio in altri. Con un saldo positivo. Un esempio su tutti: Gazprom ha chiuso il 2021 con un utile netto pari a poco meno di 28 miliardi di euro, in forte crescita rispetto ai 2 miliardi dell’anno precedente – e prevede di raddoppiarlo con riferimento al 2022.
Non era questo l'obiettivo delle misure europee, ma un'eventualità simile era facilmente pronosticabile.
Il delisting cinese
La reazione occidentale ha anche compattato Russia e Cina, come ha ricordato in un'intervista Henry Kissinger. In particolare, l'ex segretario di stato americano – a suo tempo fautore della distensione con Mao - ha puntato il dito contro la politica miope dell'amministrazione a stelle e strisce, anche in relazione alle tensioni su Taiwan.
E proprio nel momento più critico delle relazioni tra Washington e Pechino arriva un annuncio: cinque colossi cinesi hanno deciso il delisting dal Nyse, che avverrà probabilmente il prossimo mese. La capitalizzazione di mercato di queste società è enorme: 370 miliardi di dollari, più della metà, ricordiamolo, di quella della Borsa di Milano.
Sullo sfondo c'è la proposta, avanzata lo scorso giugno, di una nuova moneta unica globale istituita dai Brics, che potrebbe essere istituita per rappresentare un'alternativa al dollaro statunitense negli scambi internazionali. Un'idea sul tappeto da molti anni, ma tornata alla ribalta con la crisi fra Stati Uniti, con l'occidente a ruota, e l'asse russo-cinese. Se le cinque potenze emergenti mettessero in atto questo proposito, in futuro gli stati occidentali vedrebbero ridimensionata l’efficacia di sanzioni come quelle inflitte all'economia russa.
Inflazione alle stelle
Mentre, è persino inutile ripeterlo, l’effetto boomerang di queste misure sta creando criticità sempre pià acute all'Europa, che grazie al caro-gas sta subendo impotente il galoppo dell'inflazione. A luglio 2022, il dato ha raggiunto l'9,8% per l'Ue (era 2,2% nello stesso periodo dell'anno precedente) e l’8,9% per l'eurozona. Percentuali che avrebbero potuto essere persino più elevate se il petrolio non avesse fermato la sua corsa, attestandosi su un più ragionevole prezzo di 90 dollari al barile.
Si prevede che l'inflazione continui a salire fino a gennaio, per poi stabilizzarsi. A meno che il caro-gas prosegua in questi termini, provocando la chiusura di molte aziende e la distruzione della florida economia europea.
Finora, a calmierare gli aumenti ci sono gli sconti decisi dal governo e le formule, offerte a suo tempo dai fornitori di energia, di gas bloccato per uno o più anni. A loro volta, queste società si coprono dai minori introiti con l'acquisto di contratti derivati sulla Borsa di Amsterdam, per assicurare il prezzo ai consumatori e alle aziende senza perdere profitto.
Borse, tornano le difficoltà
Il pessimismo sull'inflazione e il timore di un nuovo rialzo dei tassi hanno influito anche sui mercati. Le Borse hanno esaurito la loro spinta propulsiva che durava da luglio. Milano, in particolare, ha raggiunto i minimi del mese.
Lo stop è meno preoccupante per i mercati americani, che erano rimbalzati molto, portando l’indice S&P500 a dimezzare le perdite annue. Per gli indici made in Usa si tratta, finora, di una normale fase di trading range – in attesa, naturalmente, di capire le reazioni al delisting cinese.
Situazione diversa, invece, per l'Europa, il cui rimbalzo si era dimostrato di minore portata. Il nostro continente è sotto la doppia minaccia della recessione e dell'esplosione dei costi industriali, che hanno rallentato la fase positiva. Proprio lo scenario a tinte fosche per il prossimo inverno ha colpito, in particolare, i titoli industriali tedeschi, e ha messo sotto pressione quelli finanziari italiani.
Attenti allo spread
Le sfide del prossimo ottobre sembrano preoccupare tutti. Quasi tutti. Perché la campagna elettorale continua a concentrarsi su temi di vario tipo, senza però sfiorare quelli più importanti: la crisi del gas e l'inflazione galoppante.
Nessuno parla, perché tutti i politici in competizione hanno paura di aprire il sipario e mostrare agli elettori uno spettro che aleggia sul paese: l'ingresso della troika in Italia, che potrebbe ridimensionare la capacità di movimento dello schieramento vincitore alla prossima tornata elettorale.
Ora lo spread è salito a 230, e lo scudo europeo non è una protezione incondizionata. Lo ha ricordato anche Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, sottolineando che questo meccanismo non è automatico, che ci sono condizioni da rispettare. Il timore diffuso è che il prossimo governo, qualunque esso sia, non possa evitare di confrontarsi con i paletti posti nel suo cammino da regole europee e banchieri centrali. E di varare misure impopolari per aziende e famiglie italiane.
Certo è che, qualunque cosa accada, la finanziaria del prossimo esecutivo non potrà essere troppo diversa da quella varata dal governo uscente.
Image by rawpixel.com
Mercati, navigazione tranquilla
Il rimbalzo di luglio si sta confermando anche nel corso di agosto. Il mese prossimo potremo capire meglio se siamo in presenza della tanto agognata ripresa. Senza trascurare le incognite provenienti dal rincaro delle materie prime, vera e propria spada di Damocle sull'economia reale.
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari
Il rimbalzo partito lo scorso luglio sta proseguendo. È ancora presto per capire se si tratti di un fenomeno passeggero o di un segnale di ripresa: a settembre, quando la totalità degli operatori tornerà in servizio, potremo capirne qualcosa di più. Senza dimenticare, ovviamente, la scure della crisi provocata dalla guerra e dall'aumento dell'energia elettrica, potenzialmente distruttivi per le imprese e l'economia di mezzo mondo.
È ancora presto, si diceva, per delineare i possibili trend. Ma un elemento già emerge: i dati non sono così negativi come inizialmente si pensava. Anche l'inflazione si sta attestando su nuovi livelli, senza ulteriori rincari: un'ulteriore dimostrazione che il mercato ha i suoi anticorpi. E i suoi limiti, difficilmente valicabili: oltre a un certo livello non è possibile spingersi.
Sta di fatto che oggi la navigazione è tranquilla e il mare è calmo. Il decennale tedesco offre rendimenti tra lo 0,8% e l'1,2%, mentre quello americano il 2,6%. E questi dati favoriscono la ripresa.
Anche lo spread veleggia su quota 210 e offre una fase di relativa tranquillità – il che non è poco, soprattutto nel mezzo di una campagna elettorale. A questi prezzi i mercati offrono un cuscinetto di garanzia che tranquillizza investitori e risparmiatori: la lettura dei dati suggerisce che molto difficilmente si scenderà sotto i minimi fatti registrare da gennaio a oggi. È quindi ragionevole rimanere nell'investimento, o addirittura aumentare il proprio peso.
Meglio l'Europa
Sì, aumentare il proprio peso. Ma dove? Un buon livello di consenso consiglia di guardare ai titoli value europei piuttosto che a quelli americani.
In Europa, i titoli value hanno fatto crescere gli utili in maniera maggiore di quelli growth – un fenomeno non riscontrabile oltre oceano. Poi - è chiaro - qualsiasi società che oggi vale dieci volte gli utili, fra dieci anni potrebbe raddoppiare il capitale anche se non dovesse crescere. Questo non succede – e da nessuna parte - nei titoli growth. Perché per poche società che, come Google o Amazon, hanno raddoppiato il loro valore, ci sono anche altre aziende che hanno causato agli investitori la perdita di una gran parte del capitale, se non dell'intera somma allocata.
Cosa scegliere, invece, in Italia? Alcuni dei titoli con le maggiori capitalizzazioni del listino promettono buoni rendimenti, purché si investa nel medio-lungo periodo. L'operazione conviene anche solo considerando i dividendi attesi, a cui occorre aggiungere gli utili che vanno a patrimonio netto. A ben vedere, questi titoli di Piazza Affari promettono rendimenti molto vicini a quelli che una volta erano offerti dai titoli di Stato.
La discesa del petrolio
In generale, abbiamo quindi visto, i fari sono accesi sui mercati europei che cercano di consolidare la ripresa. Unico punto critico di una situazione tranquilla è il freno ai mercati proveniente dalla Cina, che dipende essenzialmente dai nuovi lockdown decisi dalle autorità di Pechino.
D'altra parte, però, il rallentamento che proviene da oriente ha anche un effetto positivo: contribuisce cioè al calo del valore del petrolio, con tutto quello che ne consegue per le aziende e per i prezzi al consumo. Uno studio di Goldman Sachs prevedeva che entro fine anno il greggio si sarebbe spinto a 180-190 dollari: mai dire mai, si usa dire, ma la situazione attuale rende questa congettura assai improbabile. Oggi il Brent è più vicino ai 90 che ai 100 dollari al barile e il Wti è persino sotto i 90. E non è detto che non si scenda ancora.
Ma il gas va sempre più su...
Il trend petrolifero sta favorendo la discesa dell'inflazione americana e creando qualche speranza per la tenuta dell'economia reale nel mondo occidentale. Ma potrebbe non essere sufficiente, a causa del prezzo del gas, che continua ad aumentare (questa settimana ad Amsterdam si è raggiunto il prezzo record di 233 dollari per kilowattora, con un rialzo del 6%).
Il fenomeno, che sembra inarrestabile, avviene per i problemi noti, ma anche (e soprattutto) a causa degli speculatori che ne approfittano a mani basse. Basti pensare che il gas acquistato dall'Eni costa, teoricamente, un euro per il 90% dell'approvvigionamento e 3 per il restante 10%. Se non che, alla fine il prezzo finale è quello più caro, applicato all'intero stock – vale a dire, il 100% viene acquistato a 3 euro. Questo esempio fornisce già un quadro chiaro delle vere cause del rincaro selvaggio.
Se poi si aggiunge che ogni nave americana impegnata nel trasporto di gas via mare guadagna 250 milioni di dollari per singolo tragitto, si ottiene una spiegazione ancora più completa dell'intero scenario.
Se nessuno riuscisse a intervenire, il prossimo autunno potrebbe rivelarsi molto problematico. Si rischia un “raddoppio del raddoppio” dei costi energetici – tutto questo mentre la campagna elettorale italiana ha reso marginale il problema, che invece è drammaticamente centrale. Se le previsioni negative dovessero avverarsi, molte imprese ne verrebbero travolte, con esiti davvero disastrosi per lavoratori e consumatori.
C'è chi scende e c'è chi sale
Se il petrolio fa respirare le aziende e il gas rischia di soffocarle, l'oro dà ulteriori segni di stabilità. Il metallo giallo è infatti risalito un po', ma si trova sempre in una fascia neutrale, confermandosi sempre in un prezzo di protezione. In altri termini non ha perso nulla, ma non si è completamente posto al riparo di un'inflazione che continua a rimanere fra il 7% e l'8%.
Da questi dati si capisce quanto avesse ragione Warren Buffett quando diceva che un dollaro americano collocato in Borsa nel 1943 e conservato fino a oggi ha un valore 30 volte maggiore rispetto allo stesso investimento in oro. E se lo ha detto un uomo che recentemente ha proprio puntato sul metallo giallo, gli si può ampiamente credere.
L'oro, come abbiamo ricordato più volte, non è più un bene rifugio. In questo ruolo, almeno temporaneamente, è stato scalzato dal franco che, dopo i tanti sforzi della Banca Nazionale Svizzera per mantenere quota 1,20, ha sfondato la parità sull'euro e sta continuando a galoppare, facendo registrare record su record. E, secondo gli esperti, proseguirà la sua corsa: John Plassard, analista di Mirabaud Banque, ha previsto ulteriori apprezzamenti della moneta elvetica.
Il dollaro americano si è invece stabilizzato in una valutazione vicina alla parità: la corsa del biglietto verde si è fermata, ma la valuta americana non retrocede, nonostante una serie di problematiche dell'economia americana e l'avversione, da parte degli Usa, all'idea di dollaro forte.
Giappone, deludono i dati sul pil
Infine, un'osservazione sul pil giapponese, che ha un po' deluso le aspettative a causa di un calo delle scorte. Si tratta, comunque, di valori moderati, che non preoccupano più di tanto, e che possono rappresentare un fattore contingente legato all'inflazione. D'altra parte è utile non drammatizzare troppo un dato trimestrale, privilegiando maggiormente una visione di insieme, anche alla luce degli sviluppi economici (e geopolitici) mondiali.
Il Giappone, ricordiamolo, ha mantenuto una politica di tassi a zero, dimostrando di privilegiare la crescita rispetto alla lotta all'inflazione. Tokyo ha un punto fermo: non può permettersi una recessione. È la grande lezione di Shinzō Abe, che sopravvive allo statista recentemente scomparso. E che, probabilmente, darà i suoi frutti a lungo termine, quando occorrerà pagare le pensioni a una popolazione sbilanciata sugli anziani. Un problema che accomuna il Giappone all'Italia (ricordiamolo, i due paesi sono tra i più longevi del mondo). E che occorrerà affrontare anche alle nostre latitudini, per evitare che, fra dieci o vent'anni, lo stato non sia più in grado di pagare le pensioni a causa del grande numero di persone che si sono ritirate dal lavoro.
Image by rawpixel.com




