Salvataggio First Republic: si spengono i rischi sistemici?

L'istituto di credito, in forte difficoltà, è stato ceduto in tempi brevi a JPMorgan. L'operazione rende possibile un certo ottimismo sulla fine della crisi bancaria “made in Usa”. Ora l'attenzione dei mercati può tornare a inflazione, tassi e trimestrali

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Risoluzione sprint per il caso First Republic Bank. L'istituto di credito americano, in forte difficoltà a causa della crisi bancaria Usa, sarà infatti rilevato da JPMorgan Chase. Regista dell'operazione, la Federal Deposit Insurance Corporation, che lunedì scorso ne ha preso il controllo e ha organizzato il salvataggio con un blitz à la Credit Suisse. JPMorgan, che negli Stati Uniti è banca di sistema. assumerà tutti i depositi di First Republic, inclusi quelli non assicurati (per un totale di 103,9 miliardi di dollari) e acquisterà la maggior parte dei suoi 229,1 miliardi di attività.

Incendio spento?

L'operazione First Republic-JPMorgan potrebbe davvero scrivere la parola fine sulla crisi bancaria americana esplosa dopo il fallimento di Silicon Valley Bank. Anche se, visti i precedenti del 2008, il condizionale è sempre d'obbligo. Certo è che l'acquisizione contribuisce a spegnere sul nascere gli attacchi short sferrati venerdì scorso contro il settore bancario europeo. Il tentativo speculativo aveva sfruttato i timori che le aziende di credito potessero tornare in difficoltà a cause dei crediti deteriorati. Le chiusure negative di venerdì scorso (-4% in Europa, con Milano particolarmente sofferente) sono state riassorbite e probabilmente sarebbero svanite in ogni caso, dimostrandosi una correzione più che un tentativo di attacco di sistema. È quindi possibile guardare avanti e concedersi un certo ottimismo: gli istituti di credito Usa colpiti dalla crisi sono gruppi regionali, pur con un posizionamento importante. In Europa, la crisi bancaria era già archiviata, e i rischi per i listini del nostro continente avrebbero potuto presentarsi solo su notizie provenienti dagli Stati Uniti. Ora, come detto, anche oltre oceano si può tirare (cautamente) un respiro di sollievo. Potremo dunque concentrarci sull'economia reale, e – ci si consenta un gioco di parole – sui problemi sistematici, più che su quelli sistemici.

In attesa

Il venerdì di sofferenza non ha comunque cambiato il trend che da quasi un mese guida l'andamento dei mercati, stagnanti in attesa dei dati trimestrali europei (quelli americani stanno già arrivando). Certo è che stiamo entrando nel semestre (statisticamente rilevante) del "Sell in May and go away"; per questo motivo, per l'investitore è consigliabile un approccio vigilante e prudente. La discesa dei mercati del 2 maggio, apparentemente senza spiegazioni se non nel probabile nuovo e ingiustificato aumento dei tassi che Fed e Bce si apprestano a fare questa settimana ci inducono alla cautela.  In questa ottica, potrebbe avere senso ridurre leggermente l’esposizione sul portafoglio azionario per rientrare più avanti. D’altronde sono due mesi che il mercato viaggia in un trading range strettissimo e le probabilità che la prossima mossa sia verso il basso sembra la più convincente a nostro parere. Sono troppe le incertezze sul tavolo: la stagionalità negativa, come già detto, il continuo rialzo dei tassi, una recessione chiamata a più voci e che prima o poi si manifesterà, le tensioni geopolitiche su Ucraina e Taiwan, il problema delle banche.  Insomma, chi vuole togliere soldi dal tavolo o scommettere su un ribasso, ha buone munizioni.

Patto di stabilità

Intanto, a Bruxelles si discute sulla riforma del patto di stabilità e crescita, con una proposta messa nero su bianco dalla Commissione Europea, che dovrà poi essere approvata dai paesi membri. La nuova bozza, che rende meno rigido il piano di rientro per i paesi con debiti superiori al 60% del prodotto interno lordo, prevede però aggiustamenti di bilancio annuali obbligatori (dello 0,5% minimo) per chi ha un rapporto deficit-pil oltre il 3%. Il testo formalizzato a Bruxelles contempla anche la possibilità di aprire procedure per debiti eccessivi e non esclude dal calcolo gli investimenti in ambiti inclusi nel Pnrr. Le posizioni dei paesi membri sono molto eterogenee (la Germania considera il testo troppo debole, l'Italia troppo rigido) e lo sono anche quelle degli economisti. Ma non mancano le perplessità sui meccanismi: secondo l'ex ministro dell'Economia e delle Finanze Giovanni Tria, per esempio, con il nuovo patto di stabilità l'Italia perderebbe controllo, e troppo potere sarebbe accentrato nelle mani di Bruxelles. Sicuramente, il provvedimento potrebbe mettere a rischio la riforma delle pensioni e quella del fisco nel nostro paese. Ma non andrebbe a colpire solo i paesi più in difficoltà a rispettarne i parametri. La proposta, così come è stata concepita dalla Commissione Europea, impone regole rigide che nessuno stato membro è in grado di rispettare. E ne rende difficile l'applicazione, proprio come è accaduto finora. Non è infatti un mistero che i rigidi paletti previsti dalla misura originaria - specialmente il rientro per i paesi con un rapporto debito-pil superiore al 60% - non siano stati quasi mai rispettati. Più che altro, il patto di stabilità è stato utilizzato per vietare deficit eccessivo ai paesi membri e, in alcuni casi, anche per fare pressioni contro governi ritenuti ostili alle politiche di austerity.

Braccio di ferro sul Mes

L'Italia, in ogni caso, cercherà di trattare, forte anche delle buone notizie sul fronte del pil: per il terzo anno di fila, l'indicatore cresce, e cresce più rispetto a quelli registrati da Francia e Germania. Il trend positivo dipende anche dalla capacità delle aziende di adattarsi alla crisi di sistema del paese, che si era manifestata già prima del Covid. La reazione a problemi reali ha reso le imprese italiane più reattive rispetto a quelle di altri paesi europei, che avevano vissuto tranquille per molti anni ed erano meno abituate a fronteggiare le difficoltà, esplose poi con la pandemia. Le trattative non saranno, però, semplici. Anche perché non riguarderanno solo il patto di stabilità. L'Italia è sotto i riflettori perché (unico paese nell'Unione Europea) non ha approvato il Mes. Mentre le istituzioni comunitarie fanno pressioni continue, dato che il meccanismo europeo di stabilità, per entrare in vigore, non può rinunciare all'unanimità degli stati membri. Come si risolverà il braccio di ferro Roma-Bruxelles? Molto probabilmente con un compromesso: da una parte l'Italia non può entrare in rotta di collisione con l'Europa; dall'altro, però, l'esecutivo cercherà di trattare per ottenere qualcosa in cambio su altri dossier aperti. In ogni caso, se (come probabile) il Mes dovesse entrare in vigore, qualsiasi paese membro dovrà sperare di non averne bisogno, per non rischiare la sorte della Grecia. Il tema vero è, come al solito, quello della speculazione sui debiti pubblici, contro cui la Bce (come più volte ha confermato Christine Lagarde) non può o non vuole fare nulla. Eppure, se vogliamo vederlo, questo è uno dei maggiori problemi, se non “il” problema. Lo ha evidenziato anche il Financial Times, secondo cui i grandi fondi speculativi hanno smesso di scommettere contro i titoli di stato italiani. Riconoscendo, implicitamente, che in passato sono state piazzate “scommesse” contro stati sovrani. Il che, è persino inutile dirlo, significa giocare alla roulette sulle spalle delle persone, e soprattutto delle fasce più deboli delle popolazioni.

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