Chi cresce piano, cresce sano e va lontano...
Le Borse continuano a salire con gradualità e senza troppi scossoni. Piazza Affari ha chiuso la settimana rafforzando la sua “maglia rosa” europea, senza farsi ostacolare dai nuovi dati (in rialzo) dell'inflazione americana. E lasciandosi ancora una volta trainare dai titoli finanziari
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Continua la lenta progressione delle Borse che, salvo qualche eccezione, sembrano trottare regolari e senza troppi scossoni. La scorsa settimana, quasi tutti i listini europei hanno fatto segnare una chiusura positiva e Piazza Affari ha ancora una volta registrato un incremento (+1,6%), pur fallendo l'aggancio ai 34.000 punti (la soglia simbolica, comunque, è stata poi raggiunta in sede di riapertura). Non hanno esercitato alcuna influenza negativa i dati dell'inflazione americana, in crescita al 3,2%: il risultato, infatti, non sposta le aspettative dei mercati sull'inizio della discesa dei tassi Fed. In altri termini, ci si aspetta ancora che Jerome Powell avvii il meccanismo a giugno/luglio. O che forse ritardi un po', ma non troppo. A questo punto, la vera questione è rappresentata dal ritmo dei ribassi (che si prevede lento) e dalle percentuali (che non saranno alte, almeno inizialmente).
Le streghe son tornate. Ma nessuno le ha viste
Praticamente ignorato da Milano e dalle altre Borse il cosiddetto “giorno delle quattro streghe”, o quadruple witching day. Una data che si presenta quattro volte l'anno (nel 2024 in data 15 marzo, 21 giugno, 20 settembre e 20 dicembre) e che vede la scadenza contemporanea di future e opzioni sugli indici azionari e sui singoli titoli, con un forte rischio di volatilità. La mancata reazione alla quadrupla deadline è abbastanza semplice da spiegare: di solito, le “quattro streghe” fanno paura alle Borse quando i mercati sono già volatili, e non è questo il caso. Se poi aggiungiamo il nuovo rally dei bancari, possiamo comprendere in che modo i titoli borsistici italiani stiano marciando in sicurezza, quasi come fossero un convoglio militare scortato che avanza in territorio protetto. Il rialzo è poi stato consolidato alla riapertura delle attività: per alcuni osservatori, il traino delle Borse Usa avrebbe potuto spingere Milano; tuttavia, la performance di oltre oceano ha coinvolto soprattutto i sette big tecnologici, dimostrandosi in questo modo poco più che settoriale. Tra l'altro, proprio New York ha assistito al crollo di uno storico titolo Ict, Adobe, i cui servizi di fotoritocco sono intaccati dalla valanga-intelligenza artificiale. Siamo ormai giunti alla prima, grande resa dei conti fra informatica “tradizionale” e nuova tecnologia.
Maggio: vendere o non vendere?
Come abbiamo già affermato, in Borsa un andamento lento ma costante è da preferirsi a grafici ripidi e incerti. I mercati sono tonici un po' in tutta Europa, e ciò rappresenta un risultato già ragguardevole, considerato tutto ciò che accade nel mondo e i timori legati all'inflazione. Da parte loro, i dati economici non si stanno rivelando particolarmente brillanti, ma a contare di più sono gli utili, che appaiono soddisfacenti. Soprattutto per le aziende finanziarie – il che favorisce particolarmente Milano. Ora, è conto alla rovescia per maggio, che molto spesso si rivela un mese negativo (sell in May and go away, recita un noto proverbio americano, che esprime in modo aperto una tradizionale strategia di investimento). Se lo storno primaverile si verificherà, sarà per aumentare i pesi azionari di chi è sul mercato.
Il Giappone non è più sotto zero
Torniamo ai tassi, ma questa volta andiamo in Giappone. La banca centrale di Tokyo, storicamente poco propensa a toccare le percentuali, ha alzato ieri il costo del denaro dall'attuale -0,1% alla fascia compresa tra lo 0% e lo 0,1%. Dal punto di vista pratico non cambia assolutamente nulla: il ritocco ha effetti praticamente impercettibili e la situazione sarebbe pressoché identica se i tassi fossero elevati all'1%. Eventualità che, peraltro, non è sul tavolo, almeno secondo le dichiarazioni della Banca del Giappone: l'intervento è una tantum e un inasprimento non si verificherà. La mossa dell'istituto centrale fa rumore essenzialmente per il suo aspetto simbolico: in primo luogo, l'ultimo rialzo di Tokyo era avvenuto nel 2007, mentre la permanenza sotto zero resisteva dal 2016. Inoltre, la mossa avviene in controtendenza rispetto alle decisioni attese da Bruxelles, Londra e Washington – che però hanno tassi di riferimento ben più alti. L'ambiente, dunque, resterà “accomodante”, come ha assicurato il governatore Kazuo Ueda.
Swisscom si prende Vodafone Italia
Il mercato delle telecomunicazioni è stato sbalzato al centro della scena con un annuncio clamoroso: Swisscom ha siglato un accordo vincolante per acquisire il 100% di Vodafone Italia per il maxi importo di 8 miliardi di euro, che saranno pagati in contanti. D'emblée. La mega acquisizione, il cui closing è previsto per il 2025, integrerà Vodafone Italia in Fastweb, società con cui il gruppo rossocrociato opera in Italia, ma lascerà aperta la possibilità di mantenere il vecchio brand inglese per non oltre cinque anni. Si crea un colosso con ricavi combinati pari a 7,3 miliardi di euro, con dividendi succosi per gli azionisti Swisscom. Vodafone, da parte sua, incassa, abbandona un mercato saturo e con tariffe ormai risicate come quello italiano e può investire in mercati emergenti. Essenzialmente, un'operazione di M&A così poderosa si giustifica con le condizioni attuali del mercato italiano telco, che è abbastanza saturo. La telefonia è l'unico settore in cui le privatizzazioni hanno creato un vantaggio per i consumatori. Per il resto, si sono verificati troppi passaggi da monopoli pubblici a monopoli privati – che con il mercato non c'entrano assolutamente nulla. La fusione per acquisizione avviene, inoltre, in un frangente che vede Tim in difficoltà, anche a causa dei tassi alti e del conseguente rialzo degli interessi sul debito da pagare. C'è da temere per la scomparsa di un operatore sul mercato? Generalmente, quando sparisce un competitor occorre sempre stare all'erta, soprattutto sul versante tariffario. Poi si vedrà.
Case green, chi paga?
Nuovo successo per le proteste dei trattori: la Commissione Europea (con un'astuta mossa pre-elettorale, avrebbe detto Fantozzi) ha redatto alcune proposte per mandare in soffitta l'obbligo dei terreni a riposo, che avrebbe costretto i coltivatori a tenere incolto il 4% delle loro fondi agricoli. In cambio, si pensa di introdurre incentivi a chi agirà ugualmente in questa direzione per libera scelta. Un passo indietro, dunque, da parte del dirigismo radicale dell'Ue, i cui diktat possono trasformarsi in norme ammazza-economia oppure, in alternativa, in grida manzoniane, che nessuno poi rispetta. Le partite ancora in corso sono comunque numerose e di grande significato: l'addio alle auto con motore endotermico, su cui Bruxelles non arretra di un centimetro, e l'ultima trovata, che vuole obbligare una parte dei proprietari di case meno “verdi” (più o meno 5 milioni nella sola Italia) a tirare fuori dal portafoglio somme molto forti per ristrutturarle – con il divieto per i proprietari inadempienti di affittare o vendere immobili ai proprietari di case in classi energetiche basse, a partire dal 2030. In pratica, quasi un esproprio mascherato. E' fin troppo ovvio che non sarà possibile costringere i proprietari di case a contrarre forti esposizioni debitorie per ottemperare alla direttiva – farlo significherebbe rischiare una crisi sociale (e un rivolgimento politico) di proporzioni inimmaginabili. Altrettanto improbabile è pensare che siano gli Stati membri a tirare fuori somme così enormi. Anche in questo caso, l'Ue non potrà che ripensare questa misura. Considerando, magari, che l'Europa è un mercato di 300 milioni di abitanti e che sulla transizione ecologica conta poco e niente. Soprattutto se Paesi molto estesi e abitati come India, Cina e, in parte, Stati Uniti proseguiranno a puntare su prodotti inquinanti (ben più dei nostri) e poco adeguati a una strategia ecologica.
Foto di Avel Chuklanov su Unsplash
Politica monetaria, le banche centrali si dividono
Federal Reserve, Bank of England e Banca Nazionale Svizzera hanno deciso di tenere fermi i tassi, concedendo un respiro all'economia e distanziandosi dalla Bce, che sembra non volersi arrestare. Mentre in Giappone le percentuali restano ferme, in territorio negativo. Preoccupa però l'intenzione della Fed di lasciare alte a lungo le percentuali: si teme che poco cambierà prima di fine 2024
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo la Banca Centrale Europea, anche la Federal Reserve ha comunicato la sua decisione mensile sulla politica monetaria. Washington, a differenza di Francoforte, ha deciso di fermare la crescita dei tassi (è il secondo stop, in una manovra che ha finora fatto registrare 11 rialzi), mantenendo così la forbice fra il 5,25% e il 5,5%. Le parole con cui Jerome Powell ha spiegato la sua decisione, però, non sono state troppo confortanti. Il presidente della Fed ha infatti affermato da un lato che prossimamente potrebbero essere necessari altri aumenti, dall'altro che i tassi rimarranno alti per lungo tempo. A preoccupare i mercati è soprattutto la seconda affermazione: negli Usa, il costo del denaro rischia di rimanere alto per tutto il 2024 e forse oltre, con evidenti ripercussioni sull'economia.
Politiche divergenti
Insieme alla Fed, hanno optato per una pausa altri due importanti istituti centrali del mondo occidentale: la Banca d'Inghilterra e la Banca Nazionale Svizzera. Più in particolare, Big Ben ha detto stop dopo 15 interventi consecutivi, fermando la percentuale di riferimento a 5,25%, mentre Berna ha mantenuto costante il tasso all'1,75%, smentendo le previsioni degli analisti che ritenevano probabile un nuovo ritocco verso l'alto dello 0,25%. Tutte e tre le banche centrali potrebbero, in futuro, decidere per nuovi interventi, ma hanno preferito lasciar rifiatare le rispettive economie. Cosa che, come è ben noto, non ha fatto la Bce, il cui ritmo serrato rischia di portare al disastro economia, potere di spesa delle famiglie e Stati con debito pubblico alto. Sembra di assistere alle stesse scene del 2007, quando l'allora presidente dell'Eurotower Jean-Claude Trichet alzò i tassi, ma fu costretto a tornare precipitosamente indietro dopo la crisi Lehman. Una situazione simile potrebbe riproporsi: non per niente, Goldman Sachs ha già accennato a una possibile impennata degli spread – e quando le grandi banche d'affari iniziano ad affrontare questi argomenti, significa che hanno già posizioni short sui debiti dei paesi più in difficoltà. Sembra che attualmente la Bce sia intenzionata a fare qualsiasi cosa per raggiungere l'obiettivo del 2%. Quando, lo ripetiamo per l'ennesima volta, l'inflazione europea è una questione soprattutto di materie prime: finché queste non calano, la spirale inflattiva non può scendere troppo. Tassi o non tassi. E, da questo punto di vista, le cose non sono certo rassicuranti, a causa della nuova ascesa del petrolio che, a causa dell'asse fra Arabia Saudita e Russia, sta galoppando pericolosamente verso il valore di 100 dollari al barile. Invece che insistere fideisticamente in una monolitica strategia di rialzi in loop, la Bce dovrebbe accettare di mettersi in discussione, studiando gli esempi delle altre banche centrali occidentali. Quelle americana, inglese e svizzera, appena citate. E quella giapponese, che rappresenta la scelta diametralmente opposta: dallo scoppio della crisi in poi, Tokyo non ha abbandonato la tradizionale politica di tassi fermi, confermandosi l'unico paese del G7 a mantenere il costo del credito in territorio negativo. Anche l'avvicendamento, avvenuto alcuni mesi fa, del governatore della banca centrale (Kazuo Ueda al posto di Haruhiko Kuroda) ha lasciato invariato il piano operativo nipponico. Risultato? L'inflazione resta inferiore a quella di Eurolandia.
Vie alternative
Del resto, l'economia dell'Unione Europea, insieme a quella britannica, è la meno brillante nel mondo occidentale. Vale a dire che oltre oceano le condizioni sono migliori: l'economia statunitense è molto più vicina all'equilibrio rispetto alla nostra, con un'inflazione che arretra gradualmente. Sicuramente, alla crisi europea contribuisce anche lo stop della Germania, di cui per anni ha tratto beneficio l'intero continente. Berlino ha vissuto per più di 20 anni su tre cardini: l'assenza di svalutazioni competitive, che ha favorito una crescita di salari reali, il gas russo a basso prezzo e un export in Cina praticamente illimitato. Oggi, con il metano di Mosca ridotto ai minimi termini e i problemi geopolitici che riguardano Pechino, si manifestano tutti i limiti dell'espansione economica della Germania che, come si è visto dagli ultimi accadimenti, non dipende da buone politiche di bilancio. Non potendo più beneficiare del “traino” tedesco, i paesi del centro e sud Europa dovrebbero cercare alternative. L'Italia, per esempio, ha una strada obbligata: quella di ritagliarsi un ruolo in Africa con il “piano Mattei” di cui si sta insistentemente parlando.
Sofferenze bancarie al minimo dal 2006
L'aumento dei tassi, come è ampiamente risaputo, ha dato una grossa spinta alle banche, contribuendo ai loro utili record. Anche se in futuro, il possibile rovescio della medaglia potrebbe vedere i loro bilanci indeboliti proprio da un’altra conseguenza della stretta creditizia: la recessione che incombe e che, giocoforza, minerà la capacità di spesa degli italiani. Intanto, però, le aziende bancarie si godono un altro successo, evidenziato dal Market Watch Npl, inchiesta realizzata dall’ufficio studi di Banca Ifis e presentato nel corso del Npl Meeting di Cernobbio. Dalla ricerca emerge infatti che il tasso di deterioramento del credito delle banche italiane dovrebbe chiudere l'anno all'1,2%, minimo storico dal 2006. Inoltre, prosegue lo studio, negli ultimi otto anni lo stock Npe si è ridotto di 55 miliardi, scendendo dai 361 di inizio 2015 ai 306 di fine 2022. Nello stesso periodo, gli operatori del mercato Npl hanno favorito il processo di derisking delle banche italiane, con 352 miliardi di euro in crediti deteriorati transati - di cui 42 sono stati ceduti nel 2022. Questo risultato dipende sicuramente dalle regolamentazioni Eba e dal lavoro dei player specializzati nella gestione dei non performing loans, ma anche dalla stretta creditizia che le banche hanno applicato dopo la crisi Lehman. Un trend che è stato rinforzato dalla rimozione di autonomia decisionale un tempo concessa alle filiali e ai loro direttori: oggi al contrario anche per concedere piccoli crediti si inizia a utilizzare l'intelligenza artificiale. Il che, ovviamente, svilisce la professionalità e gli skill di chi in banca ci lavora, oltre che accordare meno finanziamenti alla clientela.
Meglio aspettare
Sicuramente, l'andamento delle banche sarà determinante per i prossimi risultati della Borsa di Milano. Che al momento percorre una linea ribassista (Piazza Affari ha già fatto registrare quattro sedure negative) ma non abbastanza per effettuare movimenti drastici sul mercato. In un momento di incertezza come quello attuale, è probabilmente saggio rimanere in una situazione di attesa: il mercato non è ancora bene intonato, ma la discesa è ancora marginale, e non si vedono ancora grandi opportunità per gli investitori.
Foto di Brendan Church su Unsplash


