Piazza Affari torna a sorridere
La Borsa di Milano ha chiuso la scorsa settimana con un bel +5,1%. Il rimbalzo, che allinea il listino italiano ai mercati internazionali, rappresenta un segnale di forza, soprattutto considerando la stagionalità e la situazione geopolitica. Bene anche l'obbligazionario
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
La Borsa di Milano sta ancora veleggiando sull'onda del rimbalzo della scorsa settimana, la migliore da marzo, con una chiusura a +5,1%. Un segnale di forza, soprattutto considerate la stagionalità e la situazione geopolitica. Si è verificata una duplice combinazione, perché alla scalata del mercato borsistico ha fatto eco la ripresa vigorosa della componente obbligazionaria, con anche l'arretramento dello spread a una quota di poco superiore a 180. Questa volta, chi ha deciso di scommettere contro l'Italia sfruttando le molte posizioni allo scoperto si è fatto molto male. Il sistema economico complessivo non poteva permettersi che qualcuno si mettesse a giocare sugli spread in un periodo come questo, contraddistinto da conflitti e tensioni sull'arena mondiale. La crescita della Borsa è stata supportata da dati economici importanti: basti vedere i risultati raggiunti da Intesa Sanpaolo, che ha portato l'utile netto a nove mesi a +85% rispetto allo stesso periodo del 2022, con un risultato passato, nel terzo trimestre, da 957 milioni a 1,9 miliardi. Il periodo brillante della Borsa italiana si verifica in un periodo di ottima salute dei mercati mondiali, che hanno tutte le carte per archiviare, a fine anno, risultati migliori rispetto a quelli di fine ottobre.
La cessione della rete Tim
A fare eccezione all'ottimo momento della Borsa è il titolo di Tim, che ha subito una brusca retromarcia. Il tutto dipende dalla vertenza annunciata da Vivendi contro la modalità con cui il consiglio di amministrazione ha approvato a maggioranza (11 a 3) la cessione dell'infrastruttura di rete al fondo americano Kkr. Un acquisto che prevede una valorizzazione fino a 22 miliardi, con chiusura dell'operazione attesa la prossima estate. Più in particolare Vivendi, primo azionista di Tim con il 23,75%, ha contestato il mancato passaggio in assemblea che, secondo una comunicazione della società francese, rende la decisione del cda “illegittima”. L'azienda transalpina “utilizzerà ogni strumento legale a sua disposizione per contestare questa decisione e tutelare i suoi diritti e quelli di tutti gli azionisti”, prosegue la nota. Il calo del titolo dipende, probabilmente, dai timori di Piazza Affari su una lunga e incerta controversia. Comunque vada, ci si augura che la vendita della rete a un privato sia stata studiata con tutte le garanzie e le cautele del caso, e che azienda e governo si siano tutelati a dovere: si tratta infatti di un'infrastruttura sensibile, in cui transitano dati importantissimi e riservati.
Fisco e Pil
Niente di nuovo, invece, sul fronte del fisco: secondo Eurostat, i dati 2022 evidenziano che tasse e contributi pesano per il 42,9% del Pil. Non è una sorpresa, dicevamo: è da più o meno 20 anni che l'incidenza fiscale è vicina a queste percentuali (abbiamo anche sperimentato picchi oltre il 44%). Tenendo conto che il prodotto interno lordo è salito artificialmente con l'inflazione, non è più possibile permettersi tasse aggiuntive: siamo arrivati vicino alla curva di Laffer, nella situazione in cui l'eccessiva tassazione distrugge il gettito invece di crearlo.
Materie prime, segnali misti
Segnali contrastanti per le materie prime. Il gas continua a lambire i 50 euro a megawattora, probabilmente sospinto dalle aspettative della domanda per la stagione invernale. I dati sono, naturalmente, quelli ufficiali della Borsa di Amsterdam, anche se gran parte degli scambi – quelli che contano – si fanno al di fuori delle piazze finanziarie regolamentate. Se il gas torna alto, il petrolio si è nuovamente attestato nella fascia tra gli 80 e gli 85 euro al barile, con punte negative anche al di sotto di questa forbice. L'oro invece, dopo l'escursione oltre il tetto psicologico dei 2.000 dollari l'oncia, è tornato a calare, assestandosi in territorio neutrale. I recenti rimbalzi del “re dei metalli” non hanno nessun altro motivo se non la situazione geopolitica e la ricerca di uno storico bene rifugio: per essere più redditizio rispetto ad altri investimenti, l'oro dovrebbe rendere tra il 9% e il 10%.
Fed, i tassi restano alti
Negli Stati Uniti, intanto, i tassi restano (per ora) invariati tra il 5,25% e il 5,5%, ma riduzioni a breve sono poco probabili. “Non stiamo pensando a tagli”, ha affermato a questo proposito Powell. “Manterremo una politica monetaria restrittiva fino a quando saremo sicuri che l’inflazione sia su un percorso sostenibile verso il 2%”. Ma, ha concluso, “non siamo ancora sicuri di aver raggiunto una posizione sufficientemente restrittiva”. Della serie: i tagli possono attendere, mentre un nuovo rialzo non è del tutto escluso. Nulla di cui preoccuparsi, comunque: anche se la Federal Reserve dovesse procedere a un ultimo, ulteriore ritocco, la sua entità sarebbe di 25 punti e nulla più. Sulla stretta monetaria, in ogni caso, negli Stati Uniti ci sono due correnti di pensiero contrastanti. Da un lato, c'è chi è convinto che i tassi alti possano indurre una flessione dell'economia, fino a portarla in recessione. Una dimostrazione lampante verrebbe dal valore degli immobili commerciali in discesa, anche a causa del rincaro del costo del denaro. Basti pensare che, a fine 2021, il tasso medio dei mutui era leggermente sotto il 3%, mentre venerdì scorso la media era del 7,81%. Chi invece approva le decisioni della Fed afferma che ci sono 2.000 miliardi di dollari di spesa corrente per l'anno prossimo che devono essere ancora spesi. Soldi, cioè, del 2023, che entreranno il circolo l'anno successivo. E' comunque chiaro che eventuali ricadute negative della stretta monetaria si sentano molto di più nell'Unione Europea che non oltre oceano. Perché gli Usa, a differenza dell'Ue, sono un Paese unito. Un esempio. Recentemente, è stato approvato un finanziamento pari a 16 miliardi di dollari per una nuova linea ferroviaria sotto il fiume Hudson, con stanziamenti in gran parte federali e per 4,5 miliardi di dollari dallo Stato di New York. Un'opera pubblica in grado di bypassare le tariffe alte dell'ingresso in città con l'automobile, che sfiorano i 10 dollari, a cui se ne aggiungono 20 per i ponti o i tunnel. Ecco: approvare in tempi brevi una simile opera pubblica con concorso di finanziamenti in un qualsiasi Paese dell'Ue sarebbe più difficile. Quasi proibitivo.
Foto di Mario Caruso su Unsplash

