L'intelligenza artificiale sulle montagne russe

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

L’intelligenza artificiale prima sale, poi scende. E’ tutto iniziato con l’accordo fra Amazon e Open Ai, intesa settennale che prevede la possibilità, per la proprietaria di ChatGpt, di utilizzare con effetto immediato il cloud di Amazon Web Services, per un corrispettivo di 38 miliardi di dollari. L’accordo, con cui Open Ai vuole ridurre la dipendenza da Microsoft e, nel contempo, utilizzare capacità di calcolo enormi, aveva inizialmente causato un balzo in avanti del 6% per il gruppo con sede a Seattle.
Il Nasdaq e le Borse asiatiche avevano reagito positivamente, per poi ripiegare: le vendite di azioni a New York si sono ripercosse anche in Estremo Oriente con una correzione importante, causata dai timori di una bolla. A influire sul calo delle Borse, che si è esteso all’Europa, anche la dichiarazione di David Solomon e Ted Pick, rispettivamente ceo di Goldman Sachs e Morgan Stanley, che durante una conferenza a Hong Kong hanno paventato un possibile storno molto severo nei prossimi due anni. “Una contrazione del 10%-15%”, ha detto Solomon, “accade spesso, anche nel corso di cicli di mercato positivi”; “dovremmo accogliere favorevolmente la possibilità che avvengano ribassi del 10%-15%”, ha confermato Pick, non spinti “da una specie di effetto macroeconomico”. Come sembra di capire, la sfida dell’intelligenza artificiale è solo all’inizio, e non sarà priva di ostacoli. Perché le valutazioni appaiono molto più alte rispetto al reale valore delle società: si stima, per esempio, che Nvidia, per sostenere il suo valore in Borsa, dovrà totalizzare almeno 150 miliardi di utile in cinque anni – traguardo da cui oggi sembra distante. Ma, a parte questo, c’è chi viaggia come un treno e chi rimane indietro: per ogni gruppo che corre, ce ne sono molti che arretrano, o scompaiono.

In ordine sparso

A influenzare il grafico in discesa si aggiungono i dubbi e le opacità legate all’accordo Stati Uniti-Cina su dazi e terre rare. Anche le Borse europee, come anticipato, si sono prese una pausa. Dopo vari mesi di chiusura in positivo, sono infatti arrivate vicine ai massimi, ma poi hanno aperto la nuova settimana in ordine sparso per, infine, arretrare. A questo si aggiunge il costante recupero del dollaro sull’euro (ora il rapporto fra le due valute veleggia su quota 1,15) e il ritracciamento dell’oro e dell’argento, nuovamente in ribasso rispetto ai massimi. Il petrolio è sempre in posizione soft, ma gli automobilisti non lo percepiscono: il rialzo del dollaro rende automaticamente un po’ meno conveniente il prezzo alla pompa, anche se siamo ben lontani dai valori del 2022. I bitcoin, infine, sono in discesa.

Top e flop

A Piazza Affari ha aperto la settimana in grande spolvero il titolo di A2A, che ha raggiunto i massimi da febbraio 2008. La prestazione dipende in buona parte da Morgan Stanley, che ha innalzato la valutazione sull’azienda energetica da equal weight a overweight, aumentando il prezzo target da 2,55 a 3,25. L’ottimo giudizio si è innestato in un periodo favorevole per il comparto delle utility, che ha coinvolto positivamente anche altre aziende, come Enel. Crollo invece per Campari, dopo il sequestro di azioni per oltre 1,2 miliardi di euro della controllante lussemburghese Lagfin, accusata di “dichiarazione fraudolenta mediante artifici” e di “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”. Il titolo ha pagato dazio anche se, ha puntualizzato Lagfin in una nota, la questione riguarda la stessa holding e non il gruppo Campari, né la società italiana “Davide Campari-Milano” e neppure altre aziende controllate. La holding si è comunque detta “certa di avere sempre operato nel pieno rispetto di tutte le norme, incluse quelle fiscali italiane”, affermando che “si difenderà vigorosamente con sereno rigore in tutte le sedi deputate”.

Taglio Fed: sì, ma…

Mentre la Bce lascia il costo dell’euro invariato, negli Stati Uniti si allenta ancora la stretta monetaria: la Federal Reserve ha tagliato nuovamente i tassi di 25 basis point, abbassando la forbice fra il 3,75% e il 4%. Ci si attende un altro intervento a dicembre, anche se un’eventuale persistenza delloshutdown americano rischia di far saltare l’eventuale taglio di fine anno (comunque già scontato dagli investitori) o di posporlo a gennaio o febbraio 2026. Per il momento, il mercato del lavoro americano non è a rischio; tuttavia, il presidente della Fed Jerome Powell ha affermato che guidare immersi nella nebbia obbliga il conducente a un rallentamento. In questo caso, la mancata visibilità è causata dall’assenza di informazioni sul lavoro, che non vengono prodotte proprio a causa dello stop temporaneo alle attività non essenziali: per questo motivo, la sospensione (dei dati macro) ne causerebbe un’altra (degli interventi sul costo del dollaro). In una situazione che comunque vede un rallentamento già in atto del mercato del lavoro e nuovi rischi sul versante dell’inflazione. Tutti sperano che lo shutdown si trasformi presto un brutto ricordo; c’è però l’impressione che solo un passo indietro di Donald Trump – magari mascherato da atto di responsabilità e di attitudine al negoziato – possa risolvere la situazione in tempi brevi.

Tassa sulle banche, per Messina è “gestibile”

Mentre la tassa sulle banche fa discutere, Carlo Messina butta acqua sul fuoco. Precisando che per conoscere l’aliquota vera e propria occorrerà attendere il varo della manovra, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ha comunque sottolineato: “L’impatto che potremmo avere sia sul risultato netto che sul patrimonio netto è completamente gestibile. E quindi non siamo assolutamente preoccupati per questo impatto”. Un’altra voce autorevole prova dunque a quietare le apprensioni legate a questo intervento: l’entità dell’imposizione, così come è stata anticipata, sembra accettabile, a fronte degli utili record raggiunti dagli istituti di credito. In ogni caso il titolo di Intesa, insieme Mps, sembra fra i più interessanti in un momento in cui si aprono opportunità interessanti nell’acquisto di azioni bancarie.

Scope ottimista sull’Italia

Interessante anche, in un’ottica più macro, l’investimento sul sistema Italia: anche Scope, agenzia di rating con sede a Berlino, ha confermato la valutazione BBB+ dei buoni del tesoro tricolori, ma con un outlook passato da “stabile” a “positivo”.
I vari miglioramenti dimostrano che qualche passo in direzione di un approccio virtuoso è stato compiuto: sia chiaro, l’Italia non ha superato i suoi problemi, ma ora è messa meglio di altri Paesi europei.

Foto di Marivi Pazos su Unsplash


Cina-Usa: fiorisce la distensione. E le Borse brindano

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Cina e Stati Uniti hanno raggiunto dopo soli due giorni di trattative un accordo preliminare che ferma la guerra commerciale fra le due potenze. Lo ha annunciato Scott Bessent, segretario Usa al Tesoro. Le negoziazioni tra i delegati dei due Paesi hanno bloccato l’applicazione di dazi al 100% di Washington contro Pechino, fermando anche un’escalation su soia e terre rare. Riguardo quest’ultimo punto – centrale nei rapporti sino-americani – Bessent ha annunciato che “Pechino rimanderà la stretta di un anno”, prendendosi quindi il tempo di riesaminarla. La Cina procederà anche ad acquisti nell’agricoltura americana. L’accordo sarà formalizzato nell’imminente incontro tra Xi Jinping e Donald Trump. Nel mentre, il presidente americano ha visitato Malaysia, Giappone e Corea del Sud, con l’obiettivo di cercare nuovi accordi sulle terre rare e diminuire la dipendenza dalla Cina. Sullo sfondo, sempre parlando di minerali, la partnership già siglata con Kiev e un possibile, futuro rifornimento anche da Mosca, nel caso in cui la guerra russo-ucraina finisca.

Mercati felici

Le Borse hanno reagito con entusiasmo alla notizia. A cominciare dal Nikkei, che ha infranto per la prima volta la soglia psicologica dei 50.000 punti. Record anche per New York, che risente pure dei dati positivi sull’inflazione e si sta riallineando con le Borse europee. Che, a loro volta, hanno reagito bene alla distensione commerciale fra Cina e Stati Uniti, ma in misura più contenuta; eccezione importante, ancora una volta, Parigi, che ha risentito del downgrade di Moody’s dei suoi titoli di Stato, con un rating passato da “stabile” a “negativo”. I buoni risultati dell’Europa risentono anche della performance delle banche (compatibile con la rotazione settoriale che detta legge ormai da tempo), ma anche del fenomeno, già sottolineato la scorsa settimana, delle scarse alternative agli investimenti e, last but not least, degli utili del terzo trimestre, che sono buoni nonostante la crescita asfittica dei mercati. Sembra, dunque, che le Borse debbano veleggiare bene perché la situazione lo esige. Di contro, oro e argento crollano: la schiarita che promette di risolvere una crisi preoccupante come quella tra Cina e Stati Uniti rende i beni rifugio meno appetibili. Fa eccezione, almeno finora, il franco svizzero, mentre il petrolio resta debole.

Il balzo di Eni

Il petrolio resta debole, si diceva. Ma Eni, alla scadenza di settembre 2025, ha raggiunto un utile netto di 2,5 miliardi di euro (+5%), mentre nel solo terzo trimestre si è attestato sugli 803 milioni, con una crescita del 54%; il piano di buyback dei titoli è decollato a 1,8 miliardi e le azioni sono salite come non si vedeva da molto tempo. Occorre anche ricordare che, per dinamiche di mercato spesso difficili da capire, Eni era sempre stata trattata a sconto rispetto ai concorrenti: ha perciò recuperato un valore più vicino a quello reale. Tuttavia, se il petrolio dovesse rimanere a questi livelli, è difficile immaginare un’ulteriore salita in Borsa per l’azienda guidata da Claudio Descalzi. Per ora, dunque, a godere dell’ottima performance di Eni sono ben più i cassettisti che incassano il dividendo rispetto a chi punta al capital gain.

Boom Btp Valore

E’ stato ancora una volta un successo il collocamento di Btp Valore: la raccolta, di 16,5 miliardi, ha superato quanto registrato dal Btp Più dello scorso maggio. A spingere gli italiani verso la nuova emissione sono stati la voglia di sicurezza, la pubblicità molto presente sui mezzi di comunicazione e i tassi, superiori alla media e considerati accettabili da chi ha sottoscritto i buoni del tesoro. Se pensiamo alle obbligazioni Usa osserviamo facilmente che, con la svalutazione del dollaro, gli investimenti di risparmiatori europei in Treasury hanno causato una perdita del 10% – valore che rende alte, se non sontuose, le percentuali offerte dai Btp.

Tassa sui dividendi

E’ stata introdotta la tassa sui dividendi incassati in qualità di partecipazione di minoranza dalle aziende, che includerebbe le società con meno del 10% del controllo (con esclusione di piccoli risparmiatori e fondi di investimento, mentre sono comprese banche e grandi gruppi, che pagherebbero l’aliquota più alta). La tassa dovrebbe portare un miliardo di euro nelle casse dello Stato. Altra novità dal fronte fiscale: il governo aumenterà di due punti l’Irap per le banche. “Se su 44 miliardi di profitti nel 2025 ce ne mettono a disposizione circa 5 per aiutare le fasce più deboli della società”, ha spiegato la premier Giorgia Meloni, “credo che possiamo essere soddisfatti noi e che in fin dei conti possano esserlo anche loro”. In questi termini, l’intervento del governo sembra ragionevole, a condizioni che non si calchi la mano in maniera esagerata. E’ comunque certa la legittimità di un aumento dell’Irap, a differenza delle proposte di imposizione fiscale degli extraprofitti, che in tutta probabilità non avrebbero superato l’esame di adeguatezza costituzionale.

Faro Ue su TikTok e Meta

TikTok e Meta sono finiti sotto il faro della Commissione Europea. I due social network sono accusati di non aver rispettato l’obbligo di garantire un accesso adeguato ai dati pubblici. Secondo l’esecutivo Ue, le due aziende non hanno neppure offerto agli utenti strumenti semplici per segnalare contenuti illegali, né per permettere di contestare decisioni di moderazione dei contenuti. Nel caso in cui l’osservazione della Commissione fosse confermata, i due gruppi, che hanno respinto ogni addebito, rischierebbero una multa salata. Sembra che, però, l’intervento dell’esecutivo Ue sia arrivato fuori tempo massimo, cioè mentre Cina e Stati Uniti interrompono la loro guerra commerciale. Con un accordo che, tra le altre cose, riguarda anche la vendita dell’80% delle attività americane di TikTok a gruppi statunitensi. Un’intesa fra due grandi potenze come Pechino e Washington renderebbe più debole la posizione della Commissione Europea.

Foto di Marivi Pazos su Unsplash


Borse, dopo il maltempo torna il sereno

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Scusate, abbiamo scherzato. Sembra questo il messaggio delle Borse europee che, dopo la tempesta della scorsa settimana, hanno poi imboccato la strada del recupero. Eppure, venerdì scorso i mercati del nostro continente avevano aperto con cali generalizzati (con l’eccezione di Parigi, ringalluzzita dal via libera al governo Lecornu), chiudendo poi con una timido recupero – anche grazie alle parole distensive di Donald Trump sulla Cina – ma sempre in perdita. Passato il week end, è avvenuta l’inversione a U, con cifre positive.

Difficile orientarsi

Non era, quindi, una correzione, ma un semplice calo causato dalla guerra commerciale sino-americana sui dazi. La dinamica mostra rotazione settoriale e trading range, con qualche scivolone. Questa situazione rende tuttavia difficile la scelta degli investitori. In condizioni simili è difficile orientarsi: non appena ci si muove, si rischia di sbagliare. All’orizzonte c’è poi l’imminente, gigantesco piano di spesa pubblica tedesca del 2026, che a breve potrebbe riorientare le Borse europee in senso più marcatamente positivo. Tutto questo mentre Wall Street recupera, spinto dai tecnologici, e il Nikkei 225 si impenna fino quasi a 50.000 punti dopo l’elezione di Sanae Takaichi a primo ministro giapponese, molto gradita ai mercati per la sua piattaforma di riforme sulla scia degli Abenomics.

Poche alternative all’azionario

Nonostante gli scivoloni e la volatilità alta, sembra che non ci siano grandi alternative all’azionario. Per questo motivo, gli investitori mantengono la loro presenza sui titoli in Borsa, accettando anche gli storni (come quello, severo, dello scorso aprile) e facendosi andar bene i periodi di volatilità. Il quadro attuale richiede comunque cautela: per il momento non ci sono grossi spunti, e questo consiglia di mantenere le posizioni attuali. Al momento, dopo aver – a lungo – performato meno rispetto all’Europa, Wall Street sembra attraversare un periodo positivo, con il nostro continente a traino: la causa è il momento particolare della rotazione settoriale, che sta premiando i tecnologici, su cui New York è particolarmente esposta. L’Europa, da parte sua, attende un ritorno delle banche, che hanno ripiegato (a Piazza Affari sono a circa -10% dai massimi).

La Cina è più vicina?

Le Borse hanno le antenne puntate sulle crisi geopolitiche, lo shutdown americano (che, secondo il direttore del National Economic Council, Kevin Hassett, potrebbe risolversi presto) e la guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, che ha causato lo scivolone poi riassorbito dopo molti giorni di arretramento. I colloqui in videoconferenza fra Scott Bessent e He Lifeng e le rassicurazioni emerse dalle due parti inducono a nutrire qualche speranza. I tavoli aperti sono numerosi, ma la vera questione sembra legata allo sfruttamento delle terre rare. E’ comunque legittimo nutrire un cauto ottimismo su una risoluzione positiva della crisi: Cina e Stati Uniti hanno bisogno l’uno dell’altra, e non possono permettersi di litigare sul serio.

Gimme shelter

Mentre le crisi belliche, commerciali e istituzionali provocano un “su e giù” in Borsa, gli stessi avvenimenti spingono in alto i beni rifugio. A cominciare dal franco svizzero, protagonista di un nuovo allungo su euro e dollaro. La moneta elvetica ha fatto segnare i massimi sulla moneta unica e la sua marcia sembra inarrestabile. Il trend preoccupa soprattutto l’economia svizzera e i Confederati, che non celano una certa sorpresa. L’approvvigionamento di franchi risponde al bisogno di beni rifugio, che in questo caso è amplificato dalle dimensioni ridotte della Svizzera. Il successo della valuta rossocrociata fa il paio con la ricerca dei buoni del tesoro di Berna, considerati particolarmente affidabili. Come da copione, anche l’oro continua a battere record su record: a mettere il turbo al metallo giallo sono ancora gli approvvigionamenti di Cina e India, che investono in un asset non a rischio di eventuali sanzioni. Nuovi primati anche per l’argento, che sta correndo da tempo.

Italia promossa con lode

Passiamo ora ai conti pubblici italiani, su cui il Fondo Monetario Internazionale ha espresso giudizi lusinghieri. Helge Berger, vicedirettore del dipartimento europeo Fmi, ha definito “impressionanti” i risultati sui conti pubblici tricolori, mentre il direttore Alfred Kammer ha espressamente parlato di una gestione “fantastica” del disavanzo. Due esternazioni sorprendenti, non tanto nel merito (il deficit italiano sul prodotto interno lordo si è fermato al 3%, contro il 3,3% previsto dal Fmi), ma nei toni utilizzati. Nel 2026, il rapporto debito/Pil dovrebbe attestarsi a 138% e calare al 137% nel 2030. Un grande risultato che è stato ottenuto forse sacrificando un po’ di crescita, ma tenendo la barra dritta sui conti pubblici. E’ curioso che l’Italia, che non molti anni fa sembrava in fallimento, oggi sia quasi vista come un paese virtuoso, pur con un debito maggiore e la crescita asfittica di pil. Al miglioramento dell’immagine dell’Italia non è estranea la corsa ad approvvigionarsi di buoni del tesoro, che si sta puntualmente verificando anche con l’emissione in corso di Btp Valore. Strumenti che, tra l’altro, hanno un rendimento mediamente maggiore rispetto alla media delle obbligazioni. La grande richiesta di questi prodotti dipende anche dalla strategia lanciata dal governo Draghi, e proseguita dall’esecutivo Meloni, di lavorare perché siano i cittadini italiani a detenere più debito possibile, piuttosto che le grandi istituzioni finanziarie.

Molti ostacoli per Lecornu

Mentre loda l’Italia, il Fmi redarguisce l’Europa, invocando riforme. Certamente il Belpaese non è più una delle preoccupazioni più importanti in tema di debito: ora il “grande malato” è la Francia, che a fatica cerca di introdurre nuove regole economiche per evitare il naufragio.
Sébastien Lecornu ha incassato il via libera dall’Assemblea Nazionale, con la promessa di non introdurre la riforma delle pensioni fino alle prossime elezioni presidenziali; tuttavia, la legge di bilancio non è ancora stata messa ai voti. Il sostegno dei socialisti, fondamentale per il futuro dell’esecutivo transalpino, è vincolato alle promesse del primo ministro: se gli impegni fossero disattesi, o se la riforma risultasse troppo dura per la classe lavoratrice, il Ps farebbe sicuramente mancare il proprio sostegno. Il compromesso fra il premier e i socialisti, insomma, non ha fatto che rimandare i problemi, che prima o poi dovranno comunque essere affrontati.

Foto di Alex Jackman su Unsplash


Crollo dei mercati dopo i nuovi dazi annunciati da Trump

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Lo storno tanto atteso (e temuto) alla fine è arrivato. Le nuove dichiarazioni di Donald Trump sull’intenzione di imporre ulteriori dazi del 100% alle merci cinesi hanno infatti causato un forte arretramento di Wall Street, con ripercussioni altrettanto serie sulle Borse europee. La reazione di Pechino, che si è dichiarata disposta a “combattere fino alla fine”, ha fatto il resto.
L’ormai usuale mezzo passo indietro di Trump, esplicitato nella successiva dichiarazione “andrà tutto bene”, non ha ribaltato il trend dei mercati: gli indici non sono riusciti a mettersi alle spalle l’escalation che ha portato a una nuova crisi commerciale. O forse non hanno voluto farlo fino in fondo: il duello sino-statunitense è probabilmente una scusa presa dai listini per rifiatare, dopo un mese e mezzo di corsa sostenuta che però faceva fatica a trovare temi per sostenere un’ulteriore salita.

Non solo Cina

Non dimentichiamoci, poi, lo shutdown americano, una nuvola ben lungi dall’essere diradata. La chiusura delle attività governative Usa non essenziali influisce su Pil, comunicazioni al mercato e dati di occupazione statunitensi. Oltre che, in alcuni casi, anche sugli utili di qualche società. E’ pur vero che, solitamente, quando lo shutdown finisce avviene spesso un rimbalzo delle Borse; tuttavia, più lunga è la crisi, maggiori sono i problemi. In Europa ha probabilmente contribuito al trend borsistico anche la crisi di governo francese: contrariamente a quanto aveva dichiarato, Sébastien Lecornu ha accettato di formare un secondo governo, che presenterà una finanziaria più light rispetto alla precedente. In particolare, il premier ha deciso di rimandare la riforma delle pensioni fino alle prossime elezioni presidenziali, per ottenere il voto di fiducia dei socialisti. Un supporto che è essenziale per poter raccogliere il consenso dell’Assemblea Nazionale. Visti tutti questi problemi, si capisce quanto la correzione fosse nell’aria: il “venerdì nero” potrebbe esserne il punto di partenza. I listini sono ancora in sofferenza, mentre la volatilità è in aumento e il mercato mostra tutte le sue fragilità.

Beni rifugio

Per gli investitori si apre un periodo di scelte difficili. In generale, i prezzi più bassi offrono nuove opportunità di acquisto; tuttavia, è forse più consigliabile attendere una o due settimane, per capire se siamo di fronte a un calo temporaneo oppure a una correzione del mercato più seria e duratura. Difficile, ora, comprenderlo. Perché i problemi sono tanti, ma l’economia è ancora in buono stato. Sicuramente, a “fare 13”, come si usava dire una volta, sono stati gli investitori in oro e in argento. In questa lunga fase di incertezza, infatti, i due metalli hanno pienamente recuperato il ruolo di beni rifugio, salendo oltre il 70% e affermandosi – insieme al franco svizzero – come gli unici asset in grado di proteggere gli investitori. Oltre a ciò, l’argento ha anche un utilizzo industriale, il che riesce a supportarlo ancora maggiormente in caso di crescita. Per attraversare questo periodo di incertezza è quindi consigliabile estrema prudenza, giocandosi con molta attenzione i beni rifugio e cercando di alleggerire il portafoglio. Senza dimenticare di prestare molta attenzione alla rotazione settoriale, che ha visto i titoli precedentemente sugli scudi (come i finanziari o quelli legati al riarmo) in forte calo. Al momento ci sono alcuni settori che possono risultare interessanti: prima di tutto i minerari – il cui buon momento è legato ai nuovi record di oro e argento – e poi le utility, spesso indicate nelle fasi che necessitano di titoli difensivi. Come già detto, però, gli acquisti vanno pensati con molta cautela: sembra ancora presto per aumentare le proprie esposizioni, e chi può farà meglio ad attendere una manciata di giorni. Anche se alcuni singoli titoli, come Mps, hanno performato in controtendenza rispetto al loro settore, tornando a crescere.

Petrolio a rischio ribasso?

E il petrolio? Il petrolio è fermo nella fascia sotto i 70 dollari al barile, e neppure il processo di pace a Gaza sembra aver influito sulla sua quotazione. Il valore, di poco più basso rispetto alla fascia neutrale, sembra non volersi discostare dal suo attuale livello, molto più rassicurante rispetto ai picchi raggiunti dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia, c’è un ma. Un prezzo che veleggia sui 65 dollari al barile è vicino ai 70, ma anche ai 60. Vale a dire che se, come qualcuno afferma, il greggio dovesse sfondare questo muro al ribasso, ci sarebbe da preoccuparsi, perché un petrolio troppo soft è sintomo di un indebolimento dell’economia.

Bond, boom domanda e offerta

Intanto è boom per le obbligazioni europee. I bond del nostro continente hanno stabilito un primato storico sia in termini di domanda, sia di offerta. Il motivo di questa situazione è semplice. La domanda record dipende dalla grande liquidità che c’è in giro; l’offerta ai massimi, invece, è causata dall’abbassamento dei tassi, per cui le aziende sfruttano le condizioni di mercato attuali per indebitarsi.

Golden power sotto accusa

Prosegue il duello fra la Commissione Europea e il governo italiano sul golden power. A breve (a quanto si ritiene, il prossimo mese) l’esecutivo di Bruxelles dovrebbe inviare due lettere a Roma, una delle quali conterrebbe una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Motivo: la legge sul golden power sarebbe contraria al diritto europeo e, secondo l’organismo di governo comunitario, dovrebbe essere modificata. “Ogni decisione che impedisca la creazione di un mercato unico dei servizi finanziari è motivo di preoccupazione“, ha detto chiaro e tondo Maria Luís Albuquerque, commissaria europea per i Servizi finanziari e l’Unione dei risparmi e degli investimenti. “Se qualcosa si metterà di mezzo, utilizzeremo gli strumenti a nostra disposizione per rimettere le cose sul binario giusto”. La posizione europea contrasta con quella del governo italiano che, per bocca del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, ha ribadito che la sicurezza nazionale è prerogativa dell’esecutivo. Scontato, quindi, il ricorso italiano a una procedura di infrazione europea, che potrebbe persino aprire a una pur poco probabile richiesta di danni da parte di Unicredit. In punto di diritto, le osservazioni della Commissione sono corrette. Ma fino a che punto si può limitare un governo nella tutela della sicurezza nazionale? Inoltre, sembra che l’Europa difenda i principi costitutivi in modo rigido con alcuni Paesi e più flessibile con altri: il dossier Commerzbank è lì a dimostrarlo.

Foto di Supradoc su Unsplash


Crisi di governo francese: cala la Borsa di Parigi, cautela nel resto d'Europa

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Si complica la crisi di governo in Francia. Un giorno dopo aver presentato la lista del suo esecutivo, il premier Sebastien Lecornu ha rassegnato le dimissioni, accettate dal presidente Emmanuel Macron. La matematica non è un’opinione e la consapevolezza di non avere la maggioranza, soprattutto dopo il disimpegno degli alleati Républicains, ha evitato un inutile tira e molla che avrebbe solo provocato una perdita di tempo. Evento da evitare, data la situazione in cui versa l’economia transalpina. Lecornu, che passerà alla storia come il capo del governo dal mandato più breve della Quinta Repubblica francese, ha affermato chiaro e tondo che non vuole un reincarico, ma è stato convinto da Macron a consultarsi con i partiti per cercare di “definire una piattaforma di azione e stabilità” con un governo di scopo, cioè sostanzialmente a tempo. Con due obiettivi: introdurre e approvare la finanziaria e definire il futuro istituzionale della Nuova Caledonia.

Parigi arretra

Le dimissioni di Lecornu hanno causato un arretramento della Borsa di Parigi, con un iniziale -1,75% e ulteriori scivolamenti, con effetti anche sulla valutazione dell’euro. Lo spread tiene, ma la Bce sta intervenendo massicciamente per evitare una divaricazione pesante del differenziale. I listini europei, pur mostrando la giusta cautela e una certa apprensione nei confronti di ciò che accade in Francia, non si sono lasciati trascinare dagli accadimenti politici transalpini, dimostrando maggiore sensibilità nei confronti delle dinamiche più proprie degli indici. Milano, per esempio, ha subito un calo (poi recuperato) a causa del netto ripiegamento dei titoli bancari, tradizionalmente dominanti a Piazza Affari. Di contro, si è verificato un ottimo spunto di Unipol dopo le indiscrezioni su una possibile alleanza di bancassurance con Unicredit.
Francoforte è invece molto attenta alla diminuzione inattesa degli ordinativi all’industria manifatturiera tedesca, ma procede abbastanza stabilmente.
Comunque, in gran parte delle Borse europee prosegue la fase di trading range all’insegna della rotazione settoriale, con volatilità bassissima e oscillazioni contenute. In attesa di nuovi stimoli.

Nikkei ai massimi

La politica affossa i mercati francesi e premia quelli giapponesi. Dopo la nomina di Sanae Takaichi a leader del partito liberale democratico al governo (il che equivale a una designazione a premier in pectore), il Nikkei ha spiccato un balzo di oltre il 4%, frantumando i massimi storici. I mercati hanno evidentemente premiato l’impostazione della nuova leader, molto vicina a quella di Shinzo Abe: Sanae Takaichi ha una fama di “dura” e di “conservatrice”, ma insiste sulla gestione monetaria espansiva, con tassi bassi, yen debole, stimoli fiscali e spesa pubblica, con l’obiettivo di riavviare l’economia. Per contro, contemporaneamente al record borsistico, si è verificato un calo dello yen nei confronti del dollaro, proprio in previsione di una politica morbida sul costo del denaro.

Stati Uniti, prosegue lo shutdown

Oltre a Francia e Giappone, le Borse guardano con attenzione quanto accade negli Stati Uniti, che dal 1 ottobre sono in shutdown. Una situazione che prevede il blocco delle attività governative non essenziali. Lo stop generalizzato, che si è verificato più volte nella storia del Paese, sembra questa volta di problematica risoluzione. Al giorno d’oggi, la politica è sempre più polarizzata, e si tende a sottovalutarne il ruolo di disciplina d’ascolto e a cercare lo scontro piuttosto che il compromesso. Per sbloccare la situazione, i democratici chiedono di introdurre una proroga ai crediti di imposta per i cittadini con un reddito meno elevato, che senza una conferma scadranno a fine dicembre. Da parte loro, i repubblicani stanno facendo muro, affermando che prima si aspettano un ok dai democratici al superamento dello shutdown, poi discuteranno sul merito. Sembra quindi che i due partiti cerchino più la vittoria personale che non il bene del Paese. Tutto questo mentre i lavoratori non essenziali vengono licenziati, anche se temporaneamente.
Le Borse, dicevamo, concedono la giusta attenzione anche a questo avvenimento, che causa anche la mancata pubblicazione di dati (come quelli sul lavoro statunitense) molto importanti per i mercati, anche non americani. Tuttavia, lo shutdown d’oltreoceano ha finora registrato un impatto ancora minore della crisi di governo francese: sembra che Wall Street (come, del resto, già accaduto in passato) abbia ignorato la crisi istituzionale, sperando che non si protragga troppo a lungo. E il dollaro, che ha già sperimentato la svalutazione, non dovrebbe soffrirne in modo eccessivo, neppure se – come qualcuno teme – il fermo amministrativo dovesse durare a lungo.

Uno contro l’altro… praticamente amici

Intanto, mentre problemi politici ed economici – e ancor di più le guerre in atto, prima tra tutte quella di Gaza – catturano l’attenzione di cittadini e mercati, passano sotto traccia le nuove puntate della telenovela-dazi: l’ultimo dossier contempla una nuova tariffa al 107% su alcuni marchi di pasta italiana. Ma, dal punto di vista commerciale, il nodo più importante è il rapporto Stati Uniti-Cina, a tratti conflittuale e a tratti pervaso da una volontà di distensione. Uno dei risultati di questo tira e molla si è visto nel braccio di ferro sui dazi reciproci, seguito da un’attenuazione e da uno stop alle tariffe-monstre, seguito dall’avvio di una trattativa. Un disgelo che – ça va sans dire – è stato accolto con sollievo dalle Borse. Uno dei capitoli cruciali di questo incontro-scontro è il caso Tik Tok, che è finito, per così dire, in pareggio: da un lato, le attività americane del social network (algoritmo compreso) saranno prese in carico da aziende americane; dall’altro, capitali cinesi conservano una quota di minoranza e metà dei proventi sarà attribuita a Pechino. L’accordo è una dimostrazione ulteriore che allentare le tensioni è interesse dei due paesi, in vista dei prossimi colloqui Trump-Xi.

Foto di Hugo Breyer su Unsplash


Acque tranquille in Borsa

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Questa regoletta, che ci porta ai primi anni di scuola, potrebbe più o meno adattarsi al momento attuale delle Borse europee, che da un po’ di tempo procedono all’insegna del trading range e della rotazione settoriale. Vale a dire: su un comparto, giù un altro e il risultato non cambia (come da proprietà commutativa – vi ricordavate questa definizione?). O almeno cambia poco, in funzione dei titoli che compongono il listino. Un esempio su tutti: il settore bancario, che aveva sottoperformato nei 15 giorni precedenti, è stato protagonista di una buona performance la scorsa settimana. Questo ha spinto moderatamente in alto le Borse, specialmente quelle in cui il banking è particolarmente presente, senza però intaccare la sostanziale stabilità degli indici. Poi, il comparto ha rifiatato, portando invece in alto comparti diversi e indebolendo un po’ l’inizio settimana dei listini. Un “su e giù” che, appunto, sa molto di stabilità: dopo tre anni di rialzo e nove mesi di buone prestazioni, un po’ di mare calmo è assolutamente fisiologico.

Nvidia… fa invidia

A Wall Street, a sostenere i listini sono invece i tecnologici, soprattutto Nvidia, reduce dalla maxi-operazione con Intel. Alcuni sostengono che il gruppo di semiconduttori sia ancora all’inizio: la sua capitalizzazione è titanica – 4.000 miliardi di dollari, 25% superiore al pil italiano e oltre il 13% di quello americano. Il quadro sembra suggerire che la crescita non possa che andare avanti. Ma a una condizione: che la valutazione in progressione geometrica sia supportata dagli utili.

Tre incognite

Una calma fisiologica, quella delle Borse, o la quiete prima della tempesta? Dipenderà dal comportamento della Federal Reserve (non troppo), dai dazi (poco) e dalla situazione geopolitica (molto). Sfide molto importanti, che finora le Borse hanno vinto, dimostrandosi vaccinate contro eventi avversi. Per quanto riguarda la Fed, i mercati hanno già scontato il prossimo taglio, mentre un altro intervento entro fine anno (tutt’altro che certo) sarebbe abbastanza ininfluente. Discorso diverso sono le proiezioni sul 2026, su cui le opinioni sono discordanti: si passa dalla previsione di due o tre nuove sforbiciate all’ipotesi di una sostanziale stabilità del tasso guida,

La Bns resta a zero

Chi invece ha tenuto le bocce ferme è la Banca Nazionale Svizzera. Che però aveva già raggiunto lo 0,0%: la decisione di non muoversi significa evitare lo scivolamento in territorio negativo. Con le difficili decisioni sul costo del denaro, la Bns cerca di fermare la corsa del franco, che prosegue a marciare a passi da gigante. Influisce il ruolo di bene rifugio che, in tempo di crisi geopolitica mondiale e difficoltà economiche di “colossi” come Germania e Francia, ricopre la valuta confederata. Stessa logica per i continui record dell’oro, favoriti dal blocco dei patrimoni russi e dalla minaccia occidentale di utilizzare il denaro sotto sequestro. Il petrolio resta invece fermo sotto i 70 dollari al barile, in “zona Trump” – vale a dire in una fascia bassa di prezzo bene accetta dal presidente degli Stati Uniti e non sgradita a India, Cina e a vari Paesi Opec+ (Russia esclusa).

Soia, la Cina cambia fornitore

Da un po’ di tempo, le notizie sulle conseguenze dei dazi americani passano sotto traccia. Non ha dunque ricevuto molta attenzione l’ennesimo appello della Cina agli Stati Uniti di cancellare quelle tariffe definite “irragionevoli” da Pechino, rilanciando invece gli scambi fra i due colossi. La Cina è anche passata al contrattacco, bloccando gli approvvigionamenti di soia dagli Stati Uniti, per acquistarla invece in Brasile, Argentina e in altri mercati sudamericani. Un bel problema per lo Zio Sam, dato che la Cina è il maggior importatore di soia al mondo e che la prosecuzione di questa politica rischierebbe di creare problemi per l’agricoltura americana. Il nuovo “duello della soia” potrebbe dare fastidio all’economia reale, ma difficilmente influirà sulle Borse, che sembrano aver già archiviato il capitolo dazi e le sue conseguenze. A meno che avvenga qualcosa di davvero importante.

Timori dalle guerre

Se l’onda lunga delle tariffe difficilmente potrà scuotere le Borse, i problemi geopolitici rappresentano forse il maggior rischio per la tenuta dei mercati. Perché se è vero che gli indici hanno “digerito” gli avvenimenti accaduti in questi ultimi mesi, non è detto che lo possano fare pienamente anche in futuro. Le crisi in atto a Gaza e in Medio Oriente e quelle relative alla guerra russo-ucraina con i suoi de cuius (il caso-droni e gli sconfinamenti di aerei in Polonia) potrebbero, alla lunga, buttare pessimismo tra gli investitori e mettere a dura prova la proverbiale forza delle Borse, che finora le ha protette.

It’s time for Africa

Si sono da poco conclusi con il poderoso assolo del “solito” Tadej Pogačar i campionati del mondo di ciclismo su strada, che per la prima volta nella storia si sono corsi nel continente africano, più precisamente a Kigali (Ruanda). La rassegna iridata si è dimostrata un successo, sia per la qualità delle strade, sia per la partecipazione record dei cittadini locali alle gesta dei corridori sui “muri” in pavé ispirati agli ex colonizzatori belgi. Lo sbarco della carovana in Africa ha motivazioni chiare. Di tipo sportivo (lanciare il ciclismo nel continente e atleti locali – mai se n’erano visti così tanti alla partenza), ma non solo. Alla base della designazione ci sono anche – e forse soprattutto – ragioni di tipo economico: l’Africa sta vivendo un ottimo momento, caratterizzato da uno sviluppo imprevisto, e marcia a una velocità maggiore rispetto all’Asia, impostando un graduale piano di recupero. Nonostante le molte persone sotto la soglia di povertà, le condizioni di vita stanno gradualmente migliorando, facendo sperare nell’inserimento di un nuovo player nella competizione dell’economia mondiale. Certo. Ma perché proprio il Ruanda? Probabilmente per l’interessante tasso di crescita, che ha portato l’economia locale a un +8,9% nel 2024 (con un+7% previsto alla fine di quest’anno) e il Pil al +9% (con un balzo in avanti di servizi, agricoltura e industria). Sicuramente ha pesato anche l’abbondanza di terre rare, che fa di Kigali un leader nell’estrazione di tantalio. Inoltre, il Ruanda si sta lanciando come destinazione turistica – a dimostrarlo, i molti cartelloni pubblicitari a bordo strada che invitavano a visitare il Paese. Possono aver pesato nella scelta dell’Uci anche le garanzie di sicurezza che il Paese sembra aver conquistato, 30 anni dopo una delle guerre più sanguinose mai combattute nella storia. Sicurezza, abbiamo detto, ma con un rovescio della medaglia: la leadership ruandese è accusata di violazioni dei diritti umani, e questo pone il Paese fra gli ultimi nella classifica del World Press Freedom Index. La situazione ha indotto varie associazioni per i diritti umani a definire la kermesse iridata di Kigali come l’ennesimo episodio di sportswashing. E’ anche vero, però, che puntare i riflettori su un Paese con gravi problemi relativi ai diritti umani può smuovere le acque e contribuire – insieme alla crescita economica – a un cammino verso il miglioramento delle garanzie di libertà personale ed equità fra le varie etnie presenti sul territorio.

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Federal Reserve, la cauta ripresa dei tagli

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Come previsto, la Fed ha tagliato i tassi dopo una lunga pausa. L’intervento è stato di 25 punti base e ha portato il costo del dollaro dalla forbice compresa fra il 4,25% e il 4,50% a quella tra il 4% e il 4,25%. Non è stato dunque introdotto il jumbo cut di 50 punti insistentemente chiesto da Donald Trump: più probabile che si verifichi un altro taglio (se non due) da 25 pb entro fine anno. Potremmo dunque parlare di “pareggio” nella querelle istituzionale tra la Casa Bianca e la Federal Reserve, anche se è probabile che il taglio dipenda ben più dalle preoccupazione sui dati relativi al mercato del lavoro e alla disoccupazione che non dalle ripetute e ostili pressioni di Trump. La prudenza nell’intervento è probabilmente motivata dal nuovo aumento del vortice inflattivo, che ha costretto la Fed a barcamenarsi fra i timori opposti legati, appunto, alla disoccupazione (che avrebbero richiesto un jumbo cut) e quelli relativi alla crescita dei prezzi (che invece frenano l’abbassamento dei tassi). Secondo il presidente Fed Jerome Powell, sul pur controllato rialzo delle stime di inflazione per i prossimi due anni ha avuto un impatto non secondario (anche se minore del previsto) il sistema dei dazi introdotto da Trump: a dover pagare un prezzo per le tariffe sono le aziende, che a loro volta trasferiscono gli aumenti sulle spalle della clientela.

Operazione già scontata

Le Borse hanno reagito con una sostanziale neutralità al taglio della Federal Reserve: i mercati avevano già scontato l’operazione, ritenendola molto probabile, e si sono concentrati su altri stimoli. L’unico effetto della sforbiciata è stata la puntata del dollaro, arrivato vicino a quota 1,19 sull’euro.
I più iniziano a pensare che il biglietto verde possa scendere ulteriormente, intorno a 1,25. La valuta americana, almeno in questo periodo, dimostra una fragilità endemica che amplifica gli effetti dei dazi, ma questo non dispiace alle Borse: sembra paradossale, ma di solito il dollaro debole favorisce i mercati.

Pit stop per automotive e banche

Gli indici hanno trascorso un periodo improntato alla cautela, con una rotazione settoriale che ha premiato moderatamente le aziende del settore difesa. Sulla fase debole dei listini hanno invece avuto un impatto il calo europeo dell’automotive (dovuto alla debolezza della domanda dell’elettrico e al taglio delle stime relative a Porsche), il rallentamento della Cina e il mancato gradimento, da parte dei mercati, del rilancio dell’opa Bbva su Sabadell, evidentemente considerato insufficiente. Scontata la reazione della Borsa spagnola, improntata alla debolezza, mentre in tutta Europa il settore creditizio sembra aver esaurito la sua forza. Si sa che quando il mondo bancario si prende una pausa, la Borsa di Milano ne risente: non è quindi una sorpresa la reazione neutrale di Piazza Affari all’ottima notizia per la nostra economia, e cioè il miglioramento del rating Fitch dell’Italia, passato da BBB a BBB+ con outlook stabile. Un avanzamento che fa il paio con il passaggio della valutazione Idr a breve termine da F2 a F1 e le previsioni relative a un calo del deficit nel triennio 2025-27. Per gli investimenti, il periodo sembra consigliare l’attesa: fino a quando il mercato regge, meglio non alleggerire e non appesantirsi troppo in Borsa. Nell’obbligazionario, invece, non ci inganni lo stop ai tagli Bce in settembre: il costo dell’euro ha ormai raggiunto una percentuale neutrale e la rendita attesa è ormai bassa. I prossimi Btp avranno quasi sicuramente una rendita sotto il 2%: Nelle azioni americane del settore tecnologico ha fatto scalpore il maxi investimento di Nvidia in Intel, con un acquisto di azioni per 5 milioni di dollari e l’avvio di una collaborazione operativa: la notizia ha portato i titoli dell’azienda di semiconduttori e microprocessori fino al +26%. Oracle si è invece spinta fino al +40%, dato veramente sproporzionato, considerata la capitalizzazione dell’azienda, influenzato dall’accordo che vedrà il gruppo gestire la versione americana di TikTok.

La scalata dell’argento

Sul fronte delle materie prime, il petrolio rimane a valori molto moderati; a rallegrarsi della situazione è Trump, che punta a una quotazione moderata non solo del dollaro, ma anche del greggio, per motivi essenzialmente di consenso elettorale. L’oro è sempre in alto, confermandosi bene rifugio soprattutto in queste drammatiche condizioni geopolitiche. E’ invece salito, e di molto, l’argento. E sono molte le voci che lo vedono in grande ascesa nei prossimi mesi. Tuttavia, il metallo dei secondi gradini del podio è ancora molto indietro rispetto al differenziale di prezzo con l’oro degli anni 1970-80; in realtà, l’argento ha reso come un titolo decennale.

Risiko, Banco Bpm torna in campo

Sul fronte del risiko, Banco Bpm torna in campo, ma con una nuova, possibile operazione: tramontato il tentativo di acquisizione da parte di Unicredit, ora Piazza Meda potrebbe unirsi a Crédit Agricole Italia, che già controlla il 20% della banca lombardo-veneta e con cui ha anche vari accordi di collaborazione. Giuseppe Castagna, che si era opposto all’opa Unicredit, si è dimostrato più che possibilista sulla banque verte: pur affermando che l’opzione Agricole non sia quella preferita da Banco Bpm, né l’unica possibilità, ha comunque riconosciuto che a ora è “l’opportunità più chiara”, e che un m&a potrebbe rivelarsi “un bene per l’economia italiana”. E’ interessante capire se il governo opporrà il golden power o meno. Sta però di fatto che l’Agricole sembra non avere fretta: Jérome Grivet, amministratore delegato del gruppo francese, si è detto pronto ad aspettare “anche anni”. I contorni di una possibile fusione non sono così chiari: si parla di CA come cacciatore, ma sembra possibile anche la dinamica opposta, con Banco Bpm nel ruolo di compratore e il Crédit Agricole di preda. E intanto Mps è alla finestra, e – ha affermato Castagna – è una valida alternativa ai francesi. Insomma: questa partita metterebbe in difficoltà i bookmakers, mentre la ex protagonista – Unicredit – è scesa sotto il 2% in Generali, in previsione di una possibile uscita dal Leone di Trieste. Nel momento in cui sembra abbandonare il risiko bancario e assicurativo italiano, Andrea Orcel mantiene invece il faro su quello tedesco, più nel dettaglio su Commerzbank. Un dossier molto interessante, con Unicredit ormai quasi al 30%, alla vigilia di una lotta senza esclusione di colpi che vedrà, tra i difensori dell’autonomia della banca tedesca, anche il governo di Berlino, contrario a questa operazione.

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Lecornu, corsa a ostacoli: subito un downgrade per Parigi

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

La designazione di Sébastien Lecornu a primo ministro francese non piace né ai cittadini, né ai mercati. Una ricerca Ipsos/Bva rivela che il capo del governo designato gode di un’opinione negativa del 40% dei transalpini, contro un misero 16% di persone che hanno espresso una valutazione positiva. Questo risultato è persino peggiore di quello ottenuto da François Bayrou, che alla nomina godeva solo del 20% di consensi. Tutto questo mentre le città assistono a forti proteste e sono in programma nuovi scioperi e dimostrazioni nel prossimo futuro. Fitch, da parte sua, ha “retrocesso” il debito di Parigi da AA- ad A+, mentre Lecornu sembra voler intervenire sulle riforme di Bayrou, attenuandole (per ottenere il consenso determinante dei socialisti), ma non troppo (per non scontentare i mercati): va in questa direzione l’annuncio che l’annullamento dei due giorni festivi parte del programma bocciato dall’Assemblea Nazionale sarà cancellato nel nuovo testo. D’altra parte, però, il maxi-piano di riarmo non sarebbe toccato dai tagli generalizzati – come ministro della Difesa del governo Bayrou, Lecornu aveva elaborato la legge che vincola la Francia a spendere 413 miliardi di euro in spese militari fra in 2024 e il 2030. Questo dettaglio non è sembrato casuale nella scelta del presidente Emmanuel Macron, di cui il nuovo premier è un fedelissimo. Se il governo non dovesse ottenere la fiducia, difficilmente l’inquilino dell’Eliseo potrebbe evitare le dimissioni, mentre si amplificherebbero i rischi preoccupanti legati al debito sovrano francese. Con Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon intenti ad attendere ai lati del fiume, rispettivamente sulla rive droite e sulla rive gauche.

Mercati senza paura

Nonostante i timori, il downgrade francese non ha scosso le Borse. La “retrocessione” era infatti già stata scontata dai mercati, che comunque l’hanno sorprendentemente digerita. Le Borse hanno infatti trascorso un’ottima settimana e aperto bene quella nuova, spingendosi sui massimi dell’anno; martedì si è invece verificato un riflusso controllato, in attesa della Fed e del taglio di 25 (o forse 50) basis point. Proprio su questa scia Wall Street ha proseguito nel suo recupero: l’S&P 500 ha fatto segnare un nuovo record, spinto dall’ottimismo relativo a un intervento di Powell sul costo del dollaro. Due aspetti spingono le Borse europee, consentendo loro di superare le tempeste che si susseguono nel mondo. In primo luogo i listini trattano a multipli ancora ragionevoli e, con tassi sui titoli di stato decennali attorno al 3%, questo vuol dire che c’è ancora un margine di salita o, almeno, questo ci consente di dire che il mercato non è assolutamente dentro una bolla speculativa come avvenne invece a inizio 2000. Secondo, la Germania propone una spesa pubblica gigantesca, che promette di fare da stimolo all’intera economia europea: anche questa operazione è stata anticipata dal mercato, che sembra credere alla realizzazione di questo progetto. A Piazza Affari si è aggiunta la spinta di Montepaschi e Mediobanca: in particolare Mps corre dopo aver superato la metà delle azioni di Piazzetta Cuccia (secondo le previsioni, Siena salirà fino all’80%).

I nuovi anni Novanta

I tre anni di crescita quasi ininterrotta ci hanno sbalzato in un’atmosfera anni Novanta. Prima o poi, uno storno avverrà (anche se non necessariamente con una bolla stile fine millennio): in presenza di segnali di discesa strutturale, gli investitori dovranno decidere se anticipare i mercati uscendo velocemente prima dello storno. Un’operazione che – ça va sans dire – è difficilissima. Al momento, orientarsi sembra impegnativo: mantenere il portafoglio è quasi una parola d’ordine, ma cosa acquistare? In questa fase, sono rimaste indietro le utility, che hanno evidenziato una minor crescita dei profitti: potrebbero dunque rivelarsi interessanti per chi vuole rimpolpare il portafoglio. I titoli del settore difesa, da parte loro, sono saliti molto, ma forse c’è ancora spazio per qualche acquisto. In Italia, Mps rimane interessante, essendo una banca ancora partecipata dal ministero del Tesoro, che deve ancora trovare una sua collocazione ed è quindi esposta a rischi speculativi. Mediobanca è invece al centro di una campagna di vendita azioni da parte dei suoi top manager, che prima della riapertura dei termini dell’offerta hanno ceduto le loro performance share: l’amministratore delegato Alberto Nagel ha venduto da solo titoli per più di 22 milioni di euro.

Usa-Cina, prove tecniche di disgelo

Alla resistenza dei mercati e all’attesa della Fed, si è aggiunto l’ottimismo relativo a un possibile accordo Usa-Cina su TikTok: il presidente americano Donald Trump ha parlato di un’intesa “con una certa azienda” amata dai giovani, preannunciando un colloquio “con il presidente Xi”. Sembra quindi scongiurata la chiusura dell’app cinese negli Stati Uniti: il social network proseguirà a essere disponibile negli Usa grazie alla vendita, da parte di ByteDance, delle sue attività americane. Percorso inverso per Starbucks, che molto probabilmente cederà a un’azienda di Pechino la maggioranza delle azioni della sua struttura cinese (il secondo mercato per la multinazionale del caffè). Le due cessioni sembrano collegate, ma probabilmente non lo sono: la vendita di Starbucks non sembra un do ut des per TikTok, ma appare più come una normale operazione economica, piuttosto che politica.

Criptovalute in goal

Le criptovalute sono sulla cresta dell’onda e ora vogliono espandersi nel calcio. House of Doge ha infatti acquisito la maggioranza delle azioni della Triestina, attraverso la controllata Dogecoin Ventures. La moneta virtuale Doge, nata nel 2013, è già celebre per essere accettata, come pagamento, anche da Tesla e da altre imprese controllate da Elon Musk. E ora ha voluto fare un passo clamoroso. L’acquisizione della squadra alabardata, ha detto Marco Margiotta, ceo di House of Doge, è il “primo passo” nell’interessamento di questa criptovaluta al mondo del calcio. Potremmo aspettarci dunque altre acquisizioni di società pallonare da parte di Doge e di altre monete virtuali? Può darsi. Le “cripto” hanno creato un’enorme quantità di ricchezza e ora sentono la necessità di convertirne una parte in economia reale. Il gioco più popolare al mondo potrebbe valere la candela. E rivelarsi un piatto ricco per piazzare i propri investimenti.

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Cade Bayrou: Borse in attesa

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Il governo di François Bayrou è caduto. Come ampiamente previsto, l’Assemblea Nazionale francese ha sfiduciato l’esecutivo a soli nove mesi dal suo insediamento. La bocciatura assume contorni inequivocabili: solo 194 i voti a favore del governo, 364 i contrari. Con la caduta di Bayrou tramonta anche la riforma “lacrime e sangue” che l’ormai ex primo ministro aveva proposto per salvare la Francia. Per ottenere il taglio previsto di 44 miliardi di euro, il piano prevedeva l’applicazione di misure draconiane, che avrebbero impattato pesantemente su spesa sociale, pensioni, servizi pubblici e persino giorni di festività, aumentando contemporaneamente le tasse, in un quadro di forte inflazione. La palla avvelenata passa dunque al prossimo governo, che dovrà inventarsi una nuova ricetta per contrastare un deficit al 5,8% e un debito pubblico ormai oltre il 110% del Pil.

Tra Scilla e Cariddi

Il compito (improbo) del prossimo esecutivo sarà identificare le riforme da mettere in atto. In Europa esiste già un esempio: quello del governo Monti, che ha arginato la deriva dei conti pubblici, innescando però parecchi interrogativi sulle prospettive per i cittadini. Manovre correttive troppo radicali, infatti, hanno spesso un effetto depressivo su economia e Pil e favoriscono recessione e calo dei consumi. La Francia sembra dunque navigare tra Scilla e Cariddi: senza riforme incisive si rischia il default; con manovre troppo penalizzanti si crea povertà, con annessi e connessi. E con la sicurezza matematica di un riacutizzarsi delle dure proteste che Oltralpe si verificano ogni qual volta si toccano conquiste sociali e diritti acquisiti. Una “terza via” ci sarebbe, ma occorrerebbe tracciarla a livello europeo. Si tratta del cambiamento di prospettiva sul debito, per discostarsi dalla rigida via seguita finora – fatta di austerità e di rigidità sui conti – e avvicinarsi un po’ di più alle prassi espansive tradizionalmente seguite dagli americani.
Una roadmap, se vogliamo, c’è già: l’ha tracciata Mario Draghi quando ha proposto un mega-piano investimento di 1.000 miliardi l’anno con un debito comune. Per facilitare una “rivoluzione copernicana” di questo tipo sarebbe però necessario annacquare il piano green radicale che ha depresso la manifattura, spingendo le autorità europee a cercare un recupero con giganteschi piani di investimento sul riarmo, oltretutto difficili da mettere in atto. Un’economia ricca vive necessariamente di produzione; i soli servizi non bastano per mantenere gli standard elevati che hanno contraddistinto l’Europa degli ultimi decenni.

Non solo Francia

La caduta di Bayrou ha favorito nuovi record per l’oro, che si conferma nel ruolo tradizionale di bene rifugio; tuttavia, a beneficiare del rialzo sono soprattutto gli investitori americani, data la debolezza del dollaro sull’euro. Le Borse, invece, hanno reagito alla sfiducia senza particolari scossoni. I mercati anticipano, e già sapevano che cosa sarebbe successo. Non per niente, la scorsa settimana si è verificato un calo, anche se tutto sommato gestibile e ben diverso dallo storno dello scorso aprile. Si è trattato, dunque, di una discesa controllata, utile per ripartire, che, oltretutto, non è dipesa solo dalla crisi di governo in Francia. A contribuire, anche altre componenti: la caratteristica de mese di settembre, tradizionalmente un periodo in cui i mercati arretrano e riflettono; il bisogno di rifiatare delle Borse, che hanno corso moltissimo e hanno bisogno di fermarsi per un po’; l’incertezza sul taglio dei tassi, che potrebbe vedere una rotazione strategica, con la Bce probabilmente ferma per un giro e la Fed propensa a diminuire di 25 o addirittura di 50 punti. Una scelta, quest’ultima, che gli investitori potrebbero prendere male, interpretandola come spia di un mercato del lavoro americano persino peggiore di quello (già critico) attuale. Sullo sfondo, l’attesa della Corte Suprema americana sui dazi, con una paura crescente (esplicitata apertamente da esponenti dell’amministrazione Trump) che una bocciatura delle tariffe possa innescare una girandola ingestibile di rimborsi. A meno che i giudici decidano di annullare le tasse doganali dal momento della sentenza in poi, evitando così il caos.

En attendant Macron

Le Borse sembrano, comunque, aver già scontato la situazione sfavorevole: lunedì scorso, hanno infatti chiuso moderatamente in positivo nonostante le difficoltà e l’attuale fase senza spunti.
Sembra quindi che gli investitori siano in attesa. Delle decisioni politiche di Emmanuel Macron e del destino del prossimo governo francese. Ma anche delle evoluzioni dello spread transalpino, finora a livelli gestibili: se il differenziale dovesse allargarsi, la Bce potrebbe essere costretta a intervenire. Sta di fatto che i problemi della Francia sono strutturali: da tempo si sa che Parigi è un grande malato, che ha potuto reggere soprattutto per l’aiuto ricevuto da una Germania ora in difficoltà.

Google, una multa da 2,95 miliardi

Intanto, la Commissione Europea ha comminato una contravvenzione di 2,95 miliardi di euro a Google per aver distorto la concorrenza nelle tecnologie di tipo pubblicitario. L’ufficializzazione della multa – a cui sarebbe stato contrario il commissario al commercio Maroš Šefčovič, sostenitore di una sospensione – è stata accompagnata dall’obbligo, per il colosso di Mountain View, di rimuovere i conflitti di interesse riguardanti le adtech. L’ammenda a Google, per cui Donald Trump ha minacciato una ritorsione a suon di dazi, è corretta, ma è stata comminata in ritardo di almeno dieci anni. Oggi, l’intelligenza artificiale mette a rischio la stressa Google e la sua posizione dominante nelle tecnologie pubblicitarie, oltre che la sua leadership nella ricerca di informazioni sul web.

Unicredit-Commerzbank: la mossa di Morgan Stanley

Sul fronte del risiko, nuovo capitolo nel dossier Unicredit-Commerzbank: Morgan Stanley (probabile alleata di Piazza Gae Aulenti) ha quasi raddoppiato la sua quota nella banca tedesca, arrivando a detenere il 5,19% e diventando il quinto maggior azionista. La mossa a sorpresa della banca d’affari americana segue di pochi giorni il nein di Bettina Orlopp: lo scorso 3 settembre, la ceo di Commerzbank aveva ricordato che “ovviamente” Unicredit non conquisterà la banca: “a decidere saranno i nostri azionisti, è a loro che spetta la decisione”. Ora, la mossa di Morgan Stanley potrebbe scompaginare le carte, governo tedesco permettendo.

Foto di Olivier Darbonville su Unsplash


Borse, faro su debito francese e dazi

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

Il debito pubblico francese e i dazi americani sono ancora protagonisti nella cronaca economica di questi giorni e influenzano l’andamento delle Borse. Proprio mentre Russia, Cina e India, al vertice di Tianjin tra i leader dello Sco, rinsaldano la loro alleanza economica, che mina le certezze dell’Occidente sulla propria centralità nel contesto mondiale e lancia un modello multipolare.

Bayrou in bilico

A Parigi è partito il conto alla rovescia per il voto di fiducia, che il prossimo 8 settembre deciderà le sorti del governo Bayrou. Se l’esecutivo dovesse incassare la fiducia – al momento molto difficile, data la posizione dei socialisti – sarebbe introdotta una manovra finanziaria da 44mila miliardi, con un aumento delle tasse e tagli a spesa pubblica e pensioni. Una riforma difficile da digerire per i cittadini e foriera di possibili proteste di piazza. Che sono già in calendario, dato che il 10 dicembre il collettivo popolare Bloquons tout ha proclamato uno sciopero generale, con l’obiettivo di fermare il Paese. Nel caso in cui invece il governo dovesse cadere, tornerà tutto nelle mani del presidente Emmanuel Macron, ormai inviso alla maggior parte dei francesi. La caduta di Bayrou implicherebbe la mancata approvazione delle riforme: in questo caso, il rischio di vedere la troika a Parigi non sarebbe così eccessivo come è apparso finora.

La posizione di Christine Lagarde

Sui pericoli corsi dalla Francia, Christine Lagarde ha buttato acqua sul fuoco. Il sistema bancario transalpino, ha detto la presidente della Bce, “non è una fonte di rischio; è in una situazione migliore di quella in cui si trovava nella crisi del 2008. Stiamo tenendo sotto controllo con attenzione lo spread dei titoli francesi con quelli del resto d’Europa”. In quanto alla possibile bocciatura del governo Bayrou, Christine Lagarde ha affermato che “tutti i rischi di caduta di governo in tutti i Paesi della zona euro sono preoccupanti”. Tuttavia, ha proseguito, “la Francia non è attualmente in una situazione che richiede l’intervento del Fondo monetario internazionale, ma la disciplina fiscale deve essere imperativa”.

La “scommessa” di Macron

Resta però ben chiaro che oggi Parigi non è in grado di ripagare il proprio debito pubblico, che oggi ha raggiunto il 114% del pil. Una situazione che rischia di trasformarsi in un bubbone in grado di travolgere l’Ue e l’euro. E che, nel caso peggiore, potrebbe essere affrontata solo con un whatever it takes di draghiana memoria, per scongiurare un effetto domino. Se la crisi politica dipende in gran parte dalla “scommessa” dell’Eliseo – che ha proclamato le elezioni anticipate del 2024, innescando una prevedibile instabilità – la situazione economica ha radici molto più lontane. I problemi del debito d’Oltralpe erano noti da anni, ma per molto tempo sono stati nascosti sotto il tappeto. Oggi, lo spread fra i buoni del tesoro italiani e francesi è ormai abbastanza simile, anche se ancora molto contenuto. I Btp hanno comunque compiuto un passo da gigante, dal 7% del 2011 a meno dell’1%. I valori ormai simili mostrano che il debito pubblico francese è considerato come quello italiano. In un quadro, però, in cui Parigi è in continuo peggioramento, come evidenziato anche dagli allarmi di Bayrou. La Borsa di Parigi è, da parte sua, la più zoppicante d’Europa: da inizio anno rende tra il 17% e il 20% in meno degli indici tedesco e italiano.

Tariffe doganali a rischio

Le Borse seguono con molta attenzione anche la telenovela-dazi, che si è arricchita di un nuovo capitolo. Una corte d’appello federale ha infatti sentenziato che gran parte delle tariffe doganali imposte da Donald Trump sono illegali. In effetti, il presidente americano ha esautorato il Congresso, avvalendosi di una legge speciale che, però, è riservata alle emergenze (ed è difficile, evidentemente, spacciare normali dinamiche commerciali per un allarme rosso). Il tribunale d’appello ha comunque deciso che la sua sentenza sarà valida dal 14 ottobre, per consentire alla Corte Suprema di pronunciarsi e mettere finalmente una parola definitiva sull’intera questione. Vari commentatori scommettono che la Scotus dia ragione a Trump, per la presenza al suo interno di una maggioranza conservatrice. Ma questo non è detto. Un po’ perché una convinzione di questo tipo getterebbe ombra sull’indipendenza dei giudici. E un po’ perché i membri della Corte Suprema hanno già contraddetto Trump su questioni di tipo economico. Se i giurati dovessero confermare lo stop ai dazi, si innescherebbe però un rischio di ricorsi delle varie aziende penalizzate in questi mesi dalle tariffe. A meno che riescano a trovare la formula per resettare tutto e tornare alla situazione pre-2 aprile a decorrere dal momento della sentenza.

I Brics sfidano l’Occidente

Le scadenze di questi due mesi rendono interlocutorio il periodo delle Borse, in un mese, come settembre, che di solito è difficile per gli indici. Una crisi del governo Bayrou potrebbe aggiungere tensione, ma un eventuale annullamento dei dazi avrebbe la possibilità di dare un po’ di fiato ai listini, anche se finirebbe di creare incertezza politica.
Per la verità, Trump dovrebbe comunque preoccuparsi maggiormente dei nuovi legami tra Russia, Cina e India piuttosto che di una sentenza sfavorevole della Corte Suprema. Paesi che una volta erano nemici tra di loro stanno rinsaldando un’alleanza economica, che rende meno impattanti le sanzioni e la centralità dell’Occidente, degli Usa e del dollaro. La strada verso i negoziati bilaterali Putin-Zelensky e la pace sul fronte russo-ucraino – che era vista dall’inquilino della Casabianca come una leva per sottrarre Mosca dall’abbraccio con Pechino – si è fatta ardua e piena di ostacoli. Mentre, d’altro canto, le storiche inimicizie tra India e Cina sembrano sparire. In particolare, i dazi non hanno bloccato Delhi che, come ha riconosciuto lo stesso Trump, “acquista la maggior parte del suo petrolio e dei suoi prodotti militari dalla Russia, molto poco dagli Stati Uniti”.

Piazza Affari e il risiko

La Borsa di Milano potrebbe dimostrare più resistenza rispetto ad altri listini europei, anche per il rilancio di Mps su Mediobanca: Siena ha alzato il premio per gli aderenti alla sua offerta, aggiungendo una componente cash di 0,90 euro ad azione. Per il resto, non ci sono grossi spunti da segnalare. Il mercato ha la possibilità di rimanere tonico almeno fino a metà ottobre. Ciò suggerisce una strategia di mantenimento; nel caso in cui affiorassero segnali di cedimento, sarebbe però utile alleggerire il portafoglio e portare a casa gli utili prima che sopraggiunga uno storno importante.

Foto di Marcel Strauß su Unsplash


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