Sorpresa: le Borse recuperano. Ma l'economia soffre ancora
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Pochi si erano spinti anche solo a pensarlo, ma è successo per davvero: le Borse hanno annullato con una velocità inaspettata gli storni dovuti alle tariffe doganali di Donald Trump. E si sono riassestate in breve tempo intorno ai livelli pre-dazi. Ciò che è accaduto è incredibile perché, dati i valori attuali degli indici, il 2 aprile è stato letteralmente cancellato dai mercati. Come se non fosse mai esistito. Ancora una volta, a vincere è stato chi ha mantenuto i nervi saldi: la storia insegna che, salvo pochi e circostanziati crack, è sempre meglio non reagire istintivamente ai crolli degli indici. Con l’aggancio si è tornati a un andamento normale dei trend. In questa logica si inserisce la flessione temporanea delle Borse europee di ieri mattina, dipesa soprattutto dal mancato insediamento del cancelliere tedesco Friedrich Merz, che per pochi voti non ha ottenuto la maggioranza in prima battuta. Tuttavia, nel pomeriggio il cancelliere ha ottenuto la fiducia in seconda votazione, e le Borse europee hanno completato una rimonta già in atto. Anche il Dax, indice europeo più penalizzato in mattinata, ha evidenziato segnali di recupero.
Anche New York riduce il divario
Anche la Borsa americana, contro il parere e il volere di tutti, è stata protagonista di una netta ripresa: Wall Street è salita al -4% da inizio anno mentre il Nasdaq è ancora un po’ sacrificato (intorno al -7%), ma il momento negativo del dollaro facilita l’investitore europeo nell’acquisto di azioni tecnologiche statunitensi. Attualmente, a fare la differenza fra i mercati Usa e Ue sono i tassi: la Bce li ha tagliati e la Fed no. E’ comunque indubbio che l’amministrazione Trump abbia portato a un riposizionamento di asset azionari sui mercati che trattavano a sconto. I dazi hanno fatto sì che grossi player con centinaia miliardi dollari in gestione abbiano spostato (e lo stiano facendo ancora) flussi continui di acquisti dal mercato americano a quelli europei. E l’Italia, mercato dai multipli bassi, ne ha particolarmente goduto.
La produzione non riparte
Se le Borse sono tornate alla normalità, l’economia reale non si è mossa di un centimetro e subisce un significativo blocco delle attività produttive legato all’effetto-annuncio dei dazi. Ciò colpisce in maniera generalizzata, ma ad accusare il colpo sono in maniera particolare gli Stati Uniti, dove il primo trimestre si è chiuso leggermente in negativo, mentre le materie prime e il petrolio sono in sofferenza perché quotate in dollari. Unica eccezione l’oro, che mantiene la sua posizione ben oltre i 3.000 dollari l’oncia. Il rallentamento dell’economia americana sta proseguendo anche nel secondo trimestre, che verosimilmente chiuderà con dati non positivi.
Slalom parallelo
Intanto, Trump prosegue nel suo andamento a zig-zag. Da un lato tratta con i Paesi europei e – dopo un confronto basato su dazi e controdazi a tre cifre – cerca di negoziare con la Cina. Che a sua volta auspica di raggiungere un accordo ma nel contempo mostra i muscoli (“per oltre 70 anni”, ha dichiarato Xi Jinping, “lo sviluppo della Cina si è fondato sull’autosufficienza e sul duro lavoro”, e mai sugli altri). D’altro canto, nonostante i negoziati con l’Unione Europea e gli abboccamenti con Pechino, l’inquilino della Casa Bianca rilancia sul fronte delle tariffe doganali, annunciandole per i prodotti farmaceutici. Come sembra evidente, Trump ha fatto dei dazi un azzardo da cui partire per negoziare accordi commerciali più favorevoli agli Stati Uniti, ma la situazione gli è sfuggita di mano. E ora cerca in modo confuso di fermare una guerra commerciale senza esclusione di colpi, anche se non rinuncia a nuovi annunci a effetto.
Washington contro Pechino
Sullo sfondo c’è comunque il fil rouge delle sue presidenze, che vede la Cina come nemico numero uno. Washington rimprovera a Pechino di essersi espansa fino a minacciare lo strapotere Usa, e di averlo fatto anche violando regole di mercato e appropriandosi di brevetti e marchi non sempre nel pieno rispetto delle regole Wto. Trump deve quindi muoversi tra questi due fuochi: il rischio di escalation della guerra commerciale e la rivalità sino-americana. Il presidente degli Stati Uniti pensava di avere un’arma per togliere potere al gigante asiatico: il raggiungimento di un accordo fra Russia e Ucraina, che avrebbe potuto spezzare l’abbraccio tra Mosca e Pechino favorito dalle sanzioni occidentali. Tuttavia, Putin, Zelensky e la posizione inflessibile di Gran Bretagna e Ue hanno sabotato i suoi sforzi, portando l’inquilino della Casa Bianca (almeno secondo le sue ultime dichiarazioni) a un passo dalla bandiera bianca. Lo stop sul fronte ex sovietico ha reso più urgente un disgelo tra Washington e Pechino, i cui dispetti reciproci non sono certo una cosa nuova: già la prima amministrazione Trump aveva bloccato gli investimenti nuovi in Cina (politica confermata poi da Joe Biden) spingendo poco a poco le aziende americane a delocalizzare in altri Paesi.
Le critiche di Buffett
I dazi di Trump hanno incassato dure critiche anche da parte di Warren Buffett, nel corso dell’annuncio con cui l’imprenditore ha comunicato il proprio pensionamento (a 94 anni) e il conseguente addio a Berkshire Hathaway. “Il commercio può essere un atto di guerra”, ha tuonato l’oracolo di Omaha, integrando una precedente dichiarazione anti-dazi (“le tariffe sono una tassa sulle merci”). La ricetta di Buffett è, diciamo così, conservatrice: gli Stati Uniti devono continuare a scambiare merci con il resto del mondo. Che è poi, ha ricordato, “quello che sappiamo fare meglio”. Queste indicazioni si uniscono a varie altre frasi celebri di Buffett che nel tempo sono assurte quasi a consigli universali, con cui confrontarsi in momenti di crisi o di passaggio epocale. Una su tutte: occorre investire in società che fanno utili, ma soprattutto che esisteranno ancora fra 50 anni. Un aforisma particolarmente attuale, in epoca di fintech che aprono e chiudono e di rischi di nuove bolle.
Petropolis
Mentre in Italia il risiko bancassicurativo è in pieno svolgimento, il palcoscenico dei merger è attivo anche a livello internazionale. Secondo Bloomberg, Shell sta valutando l’acquisto di Bp e avrebbe già commissionato un dossier ai suoi advisor. La maxi-operazione potrebbe essere agevolata da un ulteriore calo del prezzo del petrolio e dalla discesa del titolo della “preda”. Attualmente, Shell vale circa tre volte Bp (149 miliardi di sterline contro 56) e ha in corso un’operazione di riacquisto di azioni proprie. L’acquisizione sarebbe interessante, pur nella sua difficoltà, soprattutto in un periodo così particolare per gli asset petroliferi. Se l’unione si facesse, andrebbe a nascere un “campione inglese” in grado di competere con i maggiori concorrenti americani.
Lo storno di settembre
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo il balzo in avanti di fine agosto, con cui le Borse hanno recuperato le perdite di inizio mese, settembre si è aperto con una nuova fase orso. Non c’è, tuttavia, da preoccuparsi più di tanto, un po’ perché a stretto giro si è verificata una pur parziale rimonta, un po’ perché settembre e ottobre sono storicamente mesi non troppo brillanti. E un po’ perché, dopo il rimbalzo che ha portato i listini vicino ai massimi, uno storno era nell’aria. In ogni caso, a mitigare il passo indietro sono i dati americani sul lavoro, positivi anche se inferiori alle attese.
Tassi, si scende
Siamo quindi in una fase di trading range neanche tanto ampio, con un crescente peso degli avvenimenti geopolitici sull’andamento dei mercati. Oltre, naturalmente, all’imminente taglio dei tassi, che è dato per scontato. Anche se non è matematico che la sforbiciata di settembre avvii una tendenza all’insegna del rilassamento della stretta monetaria. Come ha affermato Piero Cipollone, membro del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, le decisioni saranno prese volta per volta. Anche se, ha proseguito, “i dati finora confermano la nostra direzione di marcia”, cioè l’ammorbidimento della politica monetaria, “e spero che ci consentiranno di continuare a essere meno restrittivi”. La sua posizione è condivisa da sempre più analisti: è vero che il rialzo dei tassi ha messo un freno (almeno in parte) all’inflazione, anche se fattori esogeni – come la crisi di Hormuz – ne rallentano la discesa; tuttavia, il costo del denaro ha bloccato molti investimenti. Creando difficoltà all’economia Ue, che ha portato tutti i dati di produzione al segno meno.
Il rapporto Draghi
A lanciare l’allarme è stato anche Mario Draghi in un rapporto che gli era stato commissionato dall’Unione Europea. Secondo l’ex presidente Bce ed ex premier, l’Ue ha davanti a sé una sfida cruciale, da cui dovrà uscire con una cura forte (un “doppio Piano Marshall”) per non scivolare in una lenta agonia. In cifre, ha spiegato Draghi, si tratta di una cifra compresa fra 750 e 800 miliardi l’anno, senza i quali – ha aggiunto – è a rischio l’esistenza e persino la libertà dell’Europa. Il nuovo bazooka – la cui proposta ha visto la contrarietà sia di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, sia della Germania – potrebbe avere un fondamento. Ma occorre rispondere a una domanda: dove si possono trovare tutti questi soldi? Soprattutto in un periodo storico che vede il ritorno del patto di stabilità.
Auto elettriche, una sfida persa in partenza?
Tra le sfide evidenziate da Draghi – dai costi elevati dell’energia alla necessità strutturale di importare materie prime, dalle maggiori spese per la difesa al calo della popolazione e del numero dei lavoratori – c’è anche la decarbonizzazione. Che in sé è un obiettivo legittimo, ma che in pratica è stata gestita molto male. Perché uno dei settori più in crisi è quello dell’automotive, che una volta era il fiore all’occhiello di Paesi come Germania, Francia e Italia. Il disinteresse degli acquirenti per le vetture elettriche ha già costretto la Volkswagen ad annunciare la chiusura di uno stabilimento Audi di Bruxelles, adibito appunto alla produzione di macchine “adeguate” alla nuova situazione. E che sta mettendo a rischio anche una unità produttiva in Germania, sempre specializzata nell’elettrico.
Ma il target 2035 non si ferma
Ciò significa che l’Ue potrebbe considerare un passo indietro, o almeno un parziale ripensamento, della sua strategia di elettrificazione delle automobili entro il 2035? Sembra proprio di no. Anzi: tutto il contrario. Il commissario europeo per il mercato interno e i servizi, Thierry Breton, nel corso di una riunione con i produttori, li ha esortati a innescare la quinta e ad accelerare la transizione, per superare i ritardi del settore. Il rischio evidenziato da Breton è il prevalere della Cina, che quasi monopolizza questo mercato. Nel 2026, l’esecutivo comunitario potrebbe in ogni caso intervenire sul target 2035, rimandandone l’attuazione: lo prevede espressamente il regolamento europeo. Ma le posizioni di Ursula von der Leyen e delle forze politiche che formeranno la nuova commissione non lasciano troppo spazio a questa soluzione, a meno di forti pressioni in seno alla stessa maggioranza. O, in alternativa, di una forte presa di posizione di Germania e Italia, magari rinforzata dalle proteste sindacali tedesche già in corso.
Il paradosso del lusso
Un altro settore nell’occhio del ciclone è il comparto lusso. Ma qui non c’è nessuna crisi di produttività. La industry soffre invece di un paradosso: da un lato gli utili sono buoni, in alcuni casi a doppie cifre; dall’altro, i titoli in Borsa stanno evidenziando una performance scarsa. Qual è la ragione di questa apparente discrasia? Occorre fare presente che il lusso viaggia a multipli incomprensibili ed è spesso slegato dalle dinamiche alla base degli scambi borsistici. E’ infatti una categoria che resiste di più alle crisi perchè ha un parterre di compratori in grado di permettersi qualsiasi prezzo. Se però arrivano segnali di rallentamento dall’Asia e dagli Stati Uniti, il comparto può cedere alla paura e ottiene performance minori. Inoltre, il grande recupero di agosto ha coinvolto gli indici, ma non tutte le categorie: si è infatti manifestata una rotazione settoriale, con il recupero di titoli che erano rimasti indietro, come le utility. Vittime della dispersione dei rendimenti sono state, dunque, la tecnologia e, appunto, il lusso, mentre le banche hanno registrato prestazioni abbastanza anonime.
Azioni bancarie, quale futuro?
Già, i gruppi bancari, che potrebbero raggiungere i massimi nel corso di quest’anno e poi scollinare verso una lunga e inevitabile discesa. Con il calo dei tassi, le aziende di credito saranno costrette ad allentare i loro spread, e questo – insieme al maggior rischio di insolvenze – avrà una conseguenza negativa sugli utili. In termini ciclistici, il gran premio della montagna è in vista e l’arrivo è previsto a valle, dopo una lunga discesa pedalabile, non priva di pericoli. Anche se gli utili record riguardano soprattutto le banche europee, il calo dei tassi avverrà anche negli Stati Uniti, e le aziende di credito di oltre oceano dovranno giocoforza risentirne. Può essere uno dei motivi per cui Warren Buffett – un personaggio che difficilmente sbaglia le sue scelte di investimento – ha venduto una forte quantità di azioni di Bank of America, di cui la sua Berkshire Hathaway resta, peraltro, il primo azionista. Altre ragioni che avrebbero spinto Buffett a liberarsi di quasi 7 miliardi di dollari di partecipazioni Boa sono, secondo alcuni analisti, il sentore di un calo dei mercati o, in alternativa, l’accumulo di capitali per un acquisto di grande entità.
Foto di Mark Basarab su Unsplash
Borse, continua il recupero
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo il tonfo di inizio agosto, le Borse stanno recuperando. Soprattutto negli Stati Uniti, che, spinti dai titoli tecnologici, hanno già annullato le perdite. Promettente anche la ripresa dei listini europei, pur meno evidente rispetto alle performance di oltre oceano: il peso più lieve dei tecnologici nel nostro continente e la maggior presenza di titoli industriali rendono infatti la rimonta più lenta. Milano è tornata su quota 33.000, il 2,5% in meno rispetto ai livelli di luglio: Piazza Affari ha comunque tutti i numeri per poter raggiungere nuovamente le performance precedenti in tempi abbastanza contenuti.
Trading range
Per ora i livelli si sono assestati in un meccanismo di trading range: sono possibili rialzi e ribassi, e sui prossimi movimenti è possibile impostare la strategia di quest’ultimo scampolo di agosto: vendere qualcosa in caso di impennate del 2% o più oppure comprare se dovesse verificarsi una fase soft. A medio termine non è improbabile la ripresa della corsa verso nuovi record. Anche se nelle prossime ore i mercati eviteranno, probabilmente, troppi scossoni. Almeno fino alla chiusura dell’imminente simposio di Jackson Hole, previsto da domani al 24 agosto, che metterà a confronto, come da tradizione, vari banchieri centrali.
Taglio dei tassi, ora si fa sul serio?
Protagonista di Jackson Hole sarà, naturalmente, il dibattito sui tassi, che vedrà i maggiori istituti centrali del mondo confrontarsi e riorganizzare le loro strategie in vista di un settembre molto impegnativo. La Banca Centrale Europea, in particolare, sarà chiamata a decidere il prossimo 18 settembre; probabili due sforbiciate di 25 punti entro fine anno, la prima proprio in occasione del vertice del prossimo mese. La Federal Reserve, invece, potrebbe già anticipare in via informale l’annuncio del primo taglio proprio nel corso del simposio di Jackson Hole. Anche se la decisione è comunque in bilico: da un lato ci sono i timori di una recessione indotta dal rapporto sugli stipendi, che insieme alla crisi della Borsa giapponese è stata una delle cause scatenanti del tonfo di inizio mese; dall’altra influiranno i dati sull’inflazione e sulle vendite al dettaglio, che hanno controbilanciato le esigenze urgenti di diminuire il costo del denaro. Come trovare la quadra? Probabilmente rinunciando al maxi-taglio di emergenza da 50 punti e spalmando gli interventi al ribasso (forse tre, se non quattro fino a fine anno) da 25 punti l’uno. Dati l’interconnessione tra le economie e il rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro, Jackson Hole sarà, per le banche centrali, un’occasione per confrontarsi ed eventualmente coordinarsi prima di prendere una decisione.
Oro
E’ probabilmente l’aspettativa per il taglio dei tassi a raffreddare gli investimenti in titoli di stato a tre mesi e a un anno, che inevitabilmente rendono di meno quando la stretta monetaria si allenta. Il trend spinge, invece, i beni rifugio. A cominciare dall’oro, che inanella record su record: il re dei metalli ha superato per la prima volta la quotazione di 2.500 dollari l’oncia e sembra non volersi fermare. Il trend al rialzo coinvolge anche le altre materie prime, a partire dall’argento. Tuttavia, è bene ricordare il monito di Warren Buffett, secondo cui investire su un indice, alla lunga, dà risultati più soddisfacenti che non puntare sull’oro.
Franco svizzero
E’ ancora molto forte il franco svizzero, anche se ha leggermente perso rispetto al picco di 0.93 sull’euro raggiunto lo scorso 6 agosto, in piena bagarre borsistica. L’apprezzamento della valuta elvetica, considerata bene rifugio soprattutto in occasione di ribassi dei mercati, ha comunque molti nemici: primo tra tutti, la Banca Nazionale Svizzera, che in passato ha mantenuto a lungo a proprie (laute) spese il cambio a 1,20, prima di arrendersi all’insostenibilità dell’operazione. Le autorità elvetiche e la banca centrale vogliono evitare ulteriori apprezzamenti del franco per evitare due rischi: che siano danneggiate le esportazioni, assestando un colpo da ko all’economia, e che il fiorente turismo in Svizzera diventi un affare da ultraricchi.
Yen
Rimane elevato (anche se non come il 6 agosto) il valore dello , che guadagna soprattutto su un dollaro abbastanza debole. Il Nikkei, dopo il crollo e il successivo maxi-rimbalzo, si è invece riassestato, portandosi su valori non troppo distanti da quelli precedenti al tracollo. La presenza di compratori netti sui mercati azionari ha calmato il nervosismo; inoltre gli investitori hanno compreso che, nonostante l’inedita serie di rialzi da parte della banca centrale, i tassi in Giappone sono ancora molto bassi, e indebitarsi in yen non è diventato sconveniente.
Contante, mon amour
Sorprendente, ma neanche troppo, ciò che emerge da un’indagine del centro studi di Unimpresa, secondo cui in Italia si incrementa l’utilizzo dei contanti. I dati del 2023 evidenziano che il cash ritirato agli sportelli bancomat del Belpaese sale del 2% rispetto all’anno precedente. In soldoni, nel 2023 gli italiani hanno ritirato 360 miliardi di euro agli Atm, quasi un miliardo al giorno. Il contante è ancora re, dunque? Sembra di sì, anche se (sempre secondo Unimpresa) i pagamenti digitali se la passano comunque bene: le transazioni con carta hanno raggiunto, sempre nel 2023, 426 miliardi contro i 382 dell’anno prima. C’è dunque una compresenza tra i due metodi di pagamento, con prevalenza del contante – come del resto accade in Germania e in Svizzera – in opposizione al forte utilizzo di denaro elettronico che contraddistingue Gran Bretagna e Paesi nordici. Il ruolo del cash in una società che tende alla digitalizzazione non è assolutamente un fattore negativo, nonostante ciò che si usa dire. Perché la spesa elettronica non permette di percepire pienamente ciò che si sta spendendo e rende più difficile il controllo dei conti. Inoltre, il contante assicura più privacy alle famiglie, oltre che proteggere le regolari transazioni da panne informatiche o blocchi di qualsiasi tipo. L’avanzata dei pagamenti elettronici, insomma, potrà anche essere inesorabile, ma in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, non elimina il ruolo della vecchia carta moneta.
Foto di Gabriel Mihalcea su Unsplash
Un anno di guerra: ecco come sono cambiate le economie
A dodici mesi dallo scoppio del conflitto, la cessazione delle ostilità sembra un traguardo lontano e poco probabile. I mercati lo sanno e dopo il primo periodo di choc hanno provato ad adattarsi: raggiunti i minimi lo scorso ottobre, hanno fatto partire un rimbalzo che in Europa non si è ancora esaurito. E ora...
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
Il 24 febbraio 2022 le truppe russe varcavano il confine dell'Ucraina aprendo un conflitto dagli incerti esiti e dall'imprevedibile durata. Dopo un anno e poco più dall'escalation militare, la pace sembra irrealizzabile e molti osservatori ritengono che la vittoria di uno dei due contendenti sia un'ipotesi poco probabile. Sembra fondata l'ipotesi di Sergeij Radčenko, docente di relazioni internazionali alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, pubblicata sul New York Times e citata sul Corriere della Sera dal giornalista Federico Rampini. L'analisi ha opposto i due scenari secondo lui più probabili: o i combattimenti ad libitum o una “soluzione coreana” - cioè la cessazione delle ostilità e il congelamento de facto dei confini tra i due paesi belligeranti, con uno stato prolungato di “guerra non guerreggiata”. In Corea, la situazione (tecnicamente ancora provvisoria) si è in realtà consolidata: dal 1953 in avanti, i due stati si sono sviluppati in maniera autonoma e Seul ha “vinto la pace”, affrancandosi da un'atavica povertà, scalando le gerarchie e superando recentemente persino il PIL dell'Italia.
Sanzioni, che flop
Intanto, però, la guerra russo-ucraina è più che mai in corso. E a un anno di distanza è lecito abbozzare qualche bilancio riguardante i suoi impatti sull'economia mondiale. In primo luogo, le vicende belliche hanno scatenato una reazione delle potenze occidentali (in primis Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea), che hanno cercato di colpire Mosca con vari pacchetti di sanzioni approvati in sequenza – l'ultimo, il decimo, è stato introdotto qualche giorno fa. Molte le conseguenze di queste misure. In primo luogo, la minore dipendenza dell'Europa dal petrolio e soprattutto dal gas russo, che andrà a ridursi ulteriormente nei prossimi due anni, fino quasi ad annullarsi. In un primo tempo, le sanzioni avevano fatto schizzare in alto proprio il metano e il greggio; se il secondo è poi tornato rapidamente su livelli accettabili, il primo – il cui costo era raddoppiato a causa della ripresa post-restrizioni Covid, ma anche per le conseguenze della transizione all'elettrico - è stato oggetto di speculazioni molto robuste, superando la cifra folle di 300 euro al megawattora. Complice l'incapacità di reagire da parte delle autorità europee, il livello, pur calando sensibilmente, si è mantenuto a lungo a tre cifre; è poi sceso gradualmente sotto quota 50, a causa dell'inverno mite, che ha facilitato il completamento degli stoccaggi. Ora, nonostante i livelli più accettabili stabiliti dal Ttf di Amsterdam, l'economia europea soffre ancora per il prezzo del gas e per le conseguenze dei suoi picchi del 2022. Come facilmente prevedibile, dunque, l'apparato sanzionatorio ha fatto male all'Ue, molto meno alla Russia: tutte le previsioni che avevano dato per certo il collasso di Mosca in tre mesi, il default della sua economia e il rapido deprezzamento del rublo hanno dimostrato la loro inconsistenza. Al contrario, Mosca ha semplicemente cambiato “cavallo” e ha stretto rapporti politici e commerciali con la Cina. La diffidenza nata tra le due potenze ai tempi del XX Congresso delCina Pcus – degenerata con la guerra di confine sino-sovietica del 1969 – si è dunque trasformata in collaborazione politica ed economica. È di non molti giorni fa la foto del grande gasdotto in costruzione, che porterà il gas russo, precedentemente destinato a Germania, Italia ed Europa, nelle aziende e nelle abitazioni dei cinesi. Tutto questo mentre la maggior parte dei paesi del mondo non ha aderito alle sanzioni, lasciandone il peso sulle fragili spalle dell'Europa.
Inflazione, quanto ci costi
Un'Europa che ora, proprio a causa delle montagne russe delle materie prime, non sa come fermare l'inflazione: come avevamo ampiamente previsto in tempi non sospetti, il rialzo graduale e insistente dei tassi non è stato in grado di intaccarla, agitando nel contempo lo spettro della recessione. E favorendo l'iniziale depressione dei mercati finanziari, con la corsa verso il basso che si è fermata con minimi dello scorso 6 ottobre. Poi, soprattutto in Europa, è avvenuto il grande rimbalzo, che ha riportato l'azionario, in alcuni mercati, a livelli prebellici. La fase virtuosa è proseguita ben più a lungo rispetto alle più rosee previsioni. L'inflazione è rimasta in sella, ma i mercati finanziari sembrano essersi dimenticati della guerra, smentendo le previsioni pessimistiche di alcuni mesi fa. Sembra quindi corretta la recente affermazione di Warren Buffett: nella lettera che ha comunicato agli azionisti di Berkshire Hathaway la chiusura del 2022 con 22,82 miliardi di dollari di perdite nette, l'oracolo di Omaha ha sostenuto che “spesso le azioni scambiano a prezzi davvero folli, in alto o in basso. Il mercato efficiente esiste solo nei libri di testo”. Nella lettera, Buffett è anche tornato su un vecchio cavallo di battaglia: l'investimento a lungo termine. “Facciamo affidamento sulla forza di fondo dell’economia americana che, anche se di tanto in tanto evidenzia rallentamenti, ha sempre confermato la sua capacità propulsiva”, ha affermato, in una dichiarazione che può essere estesa anche all'economia europea.
Ping-pong sui tassi
E in questi giorni, i mercati del nostro continente hanno registrato performance migliori di quelli americani, influenzati anche dai verbali Fomc (il Federal Open Market Committee della banca centrale americana): il documento ha ribadito l'avanti tutta sui tassi, sottolineando che l'obiettivo resta l'inflazione al 2% e che, per arrivarci, “ci vorrà un po' di tempo”. Bce e Fed restano quindi allineate nel loro ping-pong al rialzo: le aspettative prevedono tassi al 3,75% nell'Eurozona e al 5,5% negli Stati Uniti. A rischiare, nel secondo semestre, potrebbe essere soprattutto l'azionario, alle prese con ritocchi dell’inflazione molto forti verso l'alto ed effetti negativi sull'economia. Con alcune eccezioni: il mercato italiano ha tutti i numeri per contenere eventuali danni perché sbilanciato sui titoli bancari, strutturalmente favoriti da un costo alto del denaro. Punto di domanda, invece, sull'obbligazionario, che forse (ma non è detto) potrebbe rivelarsi in grado di prendere la parte positiva del rialzo e rilanciarsi ulteriormente.
Image by rawpixel.com




