Accordo dazi, vittoria schiacciante degli Usa

Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.

L’accordo tra Stati Uniti e Unione Europea sui dazi è stato raggiunto con un margine di pochi giorni rispetto alla scadenza del 1 agosto. Come tutti sanno l’intesa, a cui si è pervenuti dopo un vertice nel resort di Donald Trump a Turnberry (Scozia), prevede una tariffa base al 15% per vari settori merceologici. In teoria, le tassazioni sono reciproche, ma in realtà la bilancia dei dazi pende nettamente in favore degli Usa, mentre per l’Ue il compromesso raggiunto suona quasi come una resa. Anche perché alcune aree produttive sono state escluse dal trattato (acciaio e alluminio sono ancora tassati al 50%, il che favorisce i produttori americani). E’ pur vero che ci sono alcuni beni, definiti “strategici”, con una tariffa dello 0% (aerei, compresa la componentistica, alcuni farmaci generici e prodotti agricoli e chimici, risorse naturali, materie prime essenziali e apparecchi a semiconduttori), ed è altresì positivo che anche l’automotive sia stato inserito nel gruppo del 15%, contro il precedente 27,50%; tuttavia, a pagare saranno solo gli importatori americani, mentre le imprese dello Zio Sam potranno vendere veicoli nell’Ue senza alcun aggravio (prima, l’Europa imponeva un dazio del 10%). Inoltre, l’Unione Europea investirà la cifra-monstre di 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e inoltre acquisterà oltre oceano 750 miliardi in energia (250 l’anno, per tre anni). Un impegno che peraltro è difficile da rispettare, anche perché gli Usa non arrivano a questi volumi di produzione. Infine, non potevano mancare le “solite” armi, di cui – ça va sans dire – l’Ue ha promesso di approvvigionarsi in grandi quantità nei magazzini di Washington.

Piuttosto che niente…

Le aziende europee sono sicuramente in bilico tra un sospiro di sollievo – poiché poteva andare anche peggio – e preoccupazioni per le difficoltà che inevitabilmente sorgeranno, oltre che per la concorrenza asimmetrica che – carta canta – le aziende americane faranno a quelle europee. Per questo risultato, che sancisce la netta vittoria di Trump, Ursula von der Leyen è criticata da destra a sinistra; alcuni ravvisano nel suo atteggiamento un approccio “fantozziano”, anche nei piccoli particolari (come il luogo scelto per le trattative, cioè il resort di Trump). Persino l’opposizione italiana, che in passato caldeggiava il negoziato comune europeo rifiutando iniziative personali, ora sembra criticare il governo per non aver provato la trattativa diretta con il presidente americano. Una scelta che, a posteriori, avrebbe forse dato risultati migliori per molti Paesi, dato che altri Stati extra Ue che hanno trattato singolarmente (come la Gran Bretagna e persino San Marino) si sono trovati a ottenere condizioni migliori rispetto al “gigante dai piedi di argilla” rappresentato dall’Ue. Nell’ambito dell’Unione, il Paese che ne esce meglio è probabilmente la Germania, per il calo dei dazi sulle automobili – anche se i problemi del settore dipendono anche da altre ragioni, prima fra tutte il green deal.

Vittoria di Pirro?

Trump canta comprensibilmente vittoria. Ma fino a che punto sarà in grado di gestirla senza contraccolpi? La “curva di Laffer” – secondo cui una pressione fiscale eccessiva può contribuire al calo delle entrate, distruggendo gettito invece che crearlo – è applicabile anche ai dazi doganali. Che quasi sicuramente comporteranno un maggiore onere anche per il consumatore americano. Così, se i ricchi statunitensi continueranno a comprare prodotti di eccellenza europei, le classi meno abbienti dovranno necessariamente tagliare i loro acquisti. Mentre dal nostro lato dell’oceano la concorrenza asimmetrica delle aziende americane può anche far paura agli esportatori, ma difficilmente causerà un maggior interesse verso prodotti Usa che non siano quelli tecnologici.

Borse soddisfatte. Ma per quanto?

Nonostante i vari punti critici dell’accordo, i mercati hanno espresso un certo entusiasmo, premiando le certezze e lo scampato pericolo di maxi-tariffe. In fondo le Borse hanno evidenziato un comportamento da manuale: “compra le aspettative e vendi i fatti”. Occorre però capire quanto l’euforia (o pseudo tale) dei listini possa durare. Nel medio termine, le conseguenze dei dazi potrebbero causare un rallentamento della crescita globale, portando l’economia (e, di conseguenza, i listini) a fare i conti con la realtà. Milano, come spesso è accaduto, ha performato in modo eccellente, ribadendo la sua posizione nel gruppo di testa. Piazza Affari è naturalmente influenzata anche dal risiko bancario, data la forte presenza di titoli del settore nel suo paniere. Un risiko che attualmente diffonde messaggi “misti”, ma si mostra in continuo movimento. Nel dettaglio, Bper è riuscita ad acquisire la Popolare di Sondrio, mentre Unicredit si è ritirata da Banco Bpm. Difficile capire se lo stop sia definitivo o se Piazza Gae Aulenti abbia optato per una ritirata tattica, in attesa di sciogliere definitivamente il nodo dei golden power; non è escluso che, una volta appurato lo stop al veto governativo, il gruppo possa tornare alla carica con una nuova offerta di scambio. Intanto, la stessa Unicredit è tornata all’assalto di Commerzbank, con la probabile conversione in azioni dell’ultimo pacchetto di derivati (8%) entro l’anno. Andrea Orcel cerca anche la mediazione con il governo tedesco, che però gli ha intimato un raus inequivocabile. Nessun golden power, invece, per Mps – mossa scontata, dato l’appoggio del governo Meloni all’operazione.

Ciclismo, sport ricco

Si è concluso a Parigi il Tour de France, che ha visto il quarto successo di Tadej Pogačar. L’entusiasmo suscitato dallo sport delle due ruote è rimasto inalterato negli anni, ma ora le sue strade sono ancora più gremite. Lo si è visto sui Pirenei, sulle Alpi e anche nella tappa conclusiva, che per la prima volta ha portato i corridori ad affrontare lo strappo di Montmartre. Il ciclismo è ancora, e più che mai, uno sport di popolo, anche se da vari anni ha iniziato ad attrarre sponsor mondiali ben più ricchi di quelli che finanziavano le imprese di Fausto Coppi, Eddy Merckx e Bernard Hinault. Oggi come oggi, le più importanti squadre Pro Tour hanno budget che vanno fino ai 40-50 milioni di euro, e i campioni più importanti (ma anche i loro gregari top) intascano guadagni che li avvicinano a quelli delle star del calcio. Il fenomeno è legato all’assalto dei super ricchi allo sport, che porta anche a chiare distorsioni. L’assegnazione dei Giochi Asiatici invernali 2029 a Trojena (Arabia Saudita), per esempio, stupisce non poco, date le temperature del Paese. Ma i soldi fanno molto: sarà costruito un resort con montagne artificiali (e temperature indotte) per un costo pari a 500 miliardi di dollari. La rassegna asiatica è propedeutica a una candidatura di Riad ai Giochi Olimpici invernali che, se davvero diventasse realtà, mostrerebbe quanto ormai i maxi-investimenti possano dirigere le scelte delle istituzioni sportive mondiali anche contro ogni ostacolo climatico e geografico.

Foto www.rawpixel.com


Federal Reserve: improbabile un taglio dei tassi a marzo

Jerome Powell ha messo le cose in chiaro: a meno di clamorose sorprese, la prossima riunione della Fed lascerà invariato il costo del denaro. L'annuncio ha contribuito all'apertura di una settimana fiacca per le Borse europee. Con l'eccezione di Milano, che ha approfittato dei risultati eccellenti di Unicredit per chiudere in rialzo

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Continua la telenovela sul taglio dei tassi. Ora è la volta della Federal Reserve: il suo presidente Jerome Powell, confermando le indicazioni del Fomc, ha definito improbabile un calo delle percentuali già alla prossima riunione di marzo. L'inflazione sta scendendo, ha ricordato, ma occorre evitare il rischio di agire troppo presto (o troppo tardi, ha aggiunto). Per avviare l'allentamento delle condizioni monetarie il calo dell'inflazione dovrà dunque essere duraturo. In parole povere, negli Usa il taglio dei tassi può attendere.

Unicredit allunga

Le parole di Powell hanno influito sulle Borse europee, che hanno aperto questa settimana con ritmi molto fiacchi. Unica eccezione, Piazza Affari, che ha chiuso un lunedì brillante, a +1%. Tuttavia, il merito è quasi esclusivamente di Unicredit, schizzato a +8,2%. Il gruppo creditizio ha trainato il settore bancario e l'intero listino: senza Piazza Gae Aulenti, anche Milano si sarebbe allineata all'andamento degli altri listini europei. Il balzo in avanti di Unicredit dipende dai dati di bilancio, in special modo dall'utile raggiunto (decisamente superiore alle aspettative) e dai dividendi succulenti offerti agli azionisti. Nessuna novità, invece, sul fronte del risiko bancario: il ceo Andrea Orcel ha per ora escluso nuove acquisizioni. Il rally di Unicredit dà ragione a chi ha avuto la forza di tenere il suo titolo in portafoglio, nonostante le forti progressioni dell'ultimo anno e più. Chi ha acquistato le azioni della banca quando valevano 15 euro e le ha mantenute ha davvero fatto un grande affare. Che potrebbe rivelarsi ancora più proficuo in caso di un'ulteriore crescita – possibilissima, dato che i margini ci sono ancora.

Ferrari in pole position

La forza del settore bancario in un'epoca di tassi alti è strutturale e ampiamente spiegabile. Diversamente dalle “fiammate” contingenti, come lo sprint della Ferrari, salita del 10% dopo l'ingaggio a sorpresa di Lewis Hamilton. Un colpo che ha influito sulla Borsa più per l'approdo di sponsor e di attenzione sul Cavallino piuttosto che per ragioni più strettamente sportive, data anche l'età avanzata del fuoriclasse inglese. Non per niente, dopo l'allungo iniziale, i titoli della Rossa di Maranello hanno subito un riposizionamento.

Il punto sul petrolio

Tra i protagonisti di questi ultimi giorni il petrolio, che ha subito un calo sia nell'indice Brent, sia nel Wti, ma sempre all'interno della forbice tra i 70 e gli 80 dollari al barile. Tra i motivi dell'arretramento, il cauto ottimismo sulla crisi del Mar Rosso e le incertezze sul settore dei servizi in Cina. Cina che intanto ha registrato un cambio di gerarchia tra i suoi fornitori top: ora la leadership è stata conquistata dalla Russia, che con 107,02 milioni di tonnellate (+24%) ha superato l'Arabia Saudita. Mentre in India il greggio di Mosca è passato, dal 2021 a oggi, da quote trascurabili al 40% del petrolio importato, e in Brasile il gasolio russo ha superato quello americano. Petrolio e gas di Mosca sono stati dunque semplicemente dirottati dal mondo occidentale ad altri mercati, attutendo l'effetto delle sanzioni e creando problemi in una sola area geografica: l'Europa, che sta ancora arrancando a causa della ridotta fornitura a basso costo di gas russo. Unica eccezione, la Norvegia, Paese ricco di petrolio e gas naturale, che non aderisce né all'Unione Europea, né all'Opec ed è l'unico Stato europeo che, proprio per il greggio, ha i conti in attivo. Grazie anche alle massicce esportazioni di petrolio, Oslo ha visto il suo fondo sovrano battere tutti i record. Una strada che in futuro potrebbe essere percorsa anche dal Canada. Ottawa ha raddoppiato il Trans Mountain Pipeline, infrastruttura forse in grado di lanciare la Foglia d'Acero come Paese esportatore di petrolio. Potrebbe invece cavalcare la diversificazione energetica ed economica l'Arabia Saudita che, secondo rumours insistenti, starebbe esaminando la possibilità di vendere azioni di Aramco (la società petrolifera nazionale, maggiore esportatrice al mondo e quotata alla Borsa di Riad) per 10 miliardi di dollari. Un'operazione che comunque non intaccherebbe il controllo dell'azienda da parte dello stato (che ora, direttamente o indirettamente, si attesta sul 98%) e libererebbe una somma molto grande per i progetti sauditi, dal tentativo di conquistarsi uno spazio in ambito sportivo alla nuova città in progetto sul Mar Rosso.

La liquidazione Evergrande

In Cina è l'ora della liquidazione di Evergrande, sancita dall'alta corte di Hong Kong, che ha ufficializzato il fallimento gigantesco del colosso immobiliare. In realtà, però, il gruppo è in bancarotta da tre anni: nessuna sorpresa, dunque, nonostante le proteste dell'organizzazione di Shenzen, che ha conquistato il non invidiabile primato di gruppo real estate più indebitato al mondo, con un passivo-monstre di 350 miliardi di dollari. Di questi, 150 sono obbligazioni, contratte in giro per il mondo e ormai carta straccia. Piuttosto, la domanda d'obbligo è: lo stato si farà carico di completare i lavori edili già iniziati dalla società? Oppure sorgeranno “cattedrali nel deserto” e cantieri lasciati a metà e abbandonati? Difficile rispondere, anche perché a causa della crisi, molti cinesi inurbati in tempi recenti stanno tornando nelle campagne.

La protesta degli agricoltori

Prosegue la protesta degli agricoltori europei, spinti da una serie di motivazioni che, in alcuni casi, differiscono da Paese a Paese. In Francia, gli assembramenti di trattori hanno ottenuto un primo punto a favore, con il pronunciamento, da parte dell'intera classe politica, contro l'accordo di libero scambio Ue-Mercosur. In Italia, la protesta si concentra soprattutto sul contrasto alla diminuzione dei sussidi. Ma anche alla sostituzione di terreni agricoli con impianti fotovoltaici e al calo obbligatorio di aree coltivabili, sostenuti dalla commissione europea. Eventualità che, se davvero applicate, rischierebbero di far naufragare un settore di eccellenza come l'agricoltura del nostro continente, aprendo massicciamente i mercati a Paesi che non offrono la stessa qualità, né la stessa sicurezza su ogm, diserbanti e altre sostanze proibite in Europa. Ci perderebbero, dunque, sia gli imprenditori del settore (molti dei quali hanno aree dalle dimensioni non superiori a due ettari), sia i consumatori. A vantaggio delle grandi multinazionali. Proprio per la specificità dei prodotti della terra e la loro centralità nelle tavole delle persone, il settore agricolo dovrebbe essere l'unico da sussidiare in maniera continua e organica. A differenza del comparto automotive, che in Italia è stato aiutato in maniera massiccia nel corso degli anni. Non per niente, il diktat di Carlos Tavares – che ha affermato chiaro e tondo la possibile chiusura della produzione Stellantis in Italia in assenza di aiuti – ha suscitato reazioni irritate da governo, opposizioni e sindacati, mai così uniti come in questo frangente. Piuttosto, se si dovessero destinare sussidi all'industria, sarebbe preferibile dirottarli su Taranto, considerata l'attività strategica dell'Ilva. Mentre un aiuto alla ricerca sull'elettrico rischierebbe di creare un buco nell'acqua, dato che i consumatori italiani (e non solo) sono molto freddi nei confronti di queste vetture.

Foto di Dan Schiumarini su Unsplash


Borse in attesa delle banche centrali

I mercati hanno aperto il 2024 con uno storno, che però è stato recuperato totalmente all'inizio della seconda settimana di contrattazioni. Tra i motivi dell'incertezza, la cautela di Fed, Bce e Boe sui tempi e le modalità del taglio dei tassi. Su cui, tuttavia, ci sono motivi fondati di ottimismo

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Dopo due mesi scoppiettanti e un dicembre ancora molto brillante, le Borse hanno aperto il 2024 con calma e cautela. A imporre un certo rallentamento, i noti problemi geopolitici e l'incertezza sui tempi e le strategie delle banche centrali. C'è inoltre chi afferma che, dopo un periodo positivo così prolungato, un certo storno era da attendersi; qualcuno ha invece dato un'interpretazione più ottimista, derubricando la flessione a un normale periodo di trading range. La settimana in corso ha fornito le prime risposte: nel primo giorno della seconda settimana di contrattazioni, i mercati si sono già riportati ai livelli di fine anno. Lo hanno fatto persino i tecnologici americani, che dopo un breve ritracciamento hanno recuperato velocemente il terreno perduto, trainando anche il Nikkei. A mostrare un andamento più virtuoso, la Borsa di Milano, spinta – come succede ormai da tempo – dalla folta presenza dei titoli finanziari nell'indice. Senz'altro positiva, per Piazza Affari, anche la discesa dell'inflazione italiana, in controtendenza rispetto a quanto accade nel resto d'Europa, specialmente in Francia e Germania.

La “locomotiva” arranca

Il vortice inflattivo non è l'unica notizia negativa per Berlino, che ha archiviato, per il sesto mese consecutivo, un calo della produzione industriale manifatturiera (-0,7%, con un -4,8% dallo scorso novembre). Attualmente, a tenere in pista il Pil tedesco è solo il settore dei servizi. I motivi sono sotto gli occhi di tutti. Da una parte, la Germania è il Paese più penalizzato dalla situazione ucraina, poiché ha dovuto giocoforza rinunciare alla gran parte delle forniture di gas russo a basso costo, che favoriva un export molto competitivo. A questo, si aggiungeva la possibilità di potersi finanziare a livelli più bassi di altri paesi europei, grazie al differenziale favorevole. Alla crisi tedesca si aggiungono le manifestazioni degli agricoltori, che si sono uniti nella protesta ai colleghi olandesi e stanno bloccando le principali arterie viarie e autostradali del Paese con trattori e camion. Due i principali motivi del disagio: da una parte, l'abolizione dei benefici sul diesel 2 e di altre agevolazioni per il settore voluta dal governo Scholz; dall'altra, la programmata eliminazione, decisa dalle istituzioni europee, di una parte di produzione agricola e allevamento per restituire terreni alla natura. Un'operazione che, se realizzata, rischierebbe di causare alla Germania e all'Europa una drammatica perdita di produttività e, naturalmente, anche di posti di lavoro. Solo considerando le esportazioni, l'agricoltura tedesca vale circa 50 miliardi di euro: questo dato è sufficiente per comprendere quando gli interventi nazionali e comunitari potrebbero spedire nel baratro la prima economia europea. E, di rimando, l'intero continente, che già nel secondo semestre dell'anno ha evidenziato un problema di crescita rallentata.

Tassi, pensieri e parole

L'incertezza sul comportamento delle banche centrali dipende dall'atteggiamento dei loro dirigenti, che continuano a concentrarsi su una lotta senza quartiere all'inflazione (ormai sotto controllo) più che sul rallentamento delle economie. La Federal Reserve ha raffreddato gli entusiasmi, esprimendosi all'insegna della massima cautela. La Banca d'Inghilterra tace, nonostante gli appelli dei manager aziendali (“un taglio anticipato dei tassi”, ha detto a questo proposito Roger Barker, direttore delle politiche e della corporate governance dell'Institute of directors, potrebbe “aiutare a rilanciare la fiducia nel settore aziendale”). La Banca Centrale Europea, da parte sua, è stata molto chiara: il suo consigliere Boris Vujčić, governatore dell'istituto centrale croato, ha affermato che non si verificheranno tagli di tassi prima dell'estate. Le posizioni di Fed, Bce e Boe sono, tuttavia, mitigate da una certa fiducia indotta dalla logica, che suggerisce un ammorbidimento della stretta monetaria di qui a qualche mese. Soprattutto in considerazione delle scadenze elettorali in programma nel 2024. In un anno caratterizzato dal rinnovo dei parlamenti di Bruxelles e di Londra e della presidenza Usa, le banche centrali saranno costrette a impostare le loro strategie in un’ottica pro mercati. Specialmente negli Stati Uniti, dove la consultazione è vissuta in maniera particolarmente tesa. Tuttavia, dopo essersi impegnate in una folle gara a inseguimento per oltre un anno, le banche centrali non possono smentirsi in modo così palese, percorrendo il cammino inverso in fretta e furia e con uguale velocità, e soprattutto preannunciandolo apertamente. Nella migliore delle ipotesi, quindi, il cambio di rotta inizierà ad aprile o maggio. Ad aprire le danze sarà, molto probabilmente, la Federal Reserve. Non è escluso che la banca centrale americana prosegua nelle dichiarazioni all'insegna della cautela e cambi rotta a sorpresa, con pochi giorni di preavviso. A differenza della Bce, che proverà a “tenere duro” il più possibile.

Petrolio, il dietrofront saudita abbassa i prezzi

Se l'inflazione è sotto controllo, contribuisce anche il rallentamento delle materie prime, causato anche dal calo di domanda da parte della Cina. Il petrolio, in particolare, è sceso sotto quota 80 dollari al barile (il Wti si avvicina addirittura a 70). Il calo del prezzo del greggio, che avviene nonostante i noti problemi in Medio Oriente e sul Mar Rosso e malgrado le previsioni di segno opposto da parte degli esperti, dipende soprattutto dai tagli delle tariffe decisi dall'Arabia Saudita e dal contemporaneo aumento della produzione da parte dell'Opec. Una situazione abbastanza strana, se pensiamo che, fino a poco tempo fa, Riyad puntava a un calo della produzione, con un contestuale aumento dei prezzi. Questa posizione aveva convinto l'Angola a lasciare l'Opec, rischiando anche di portarsi dietro anche la Nigeria.

Cina, respiro dalla banca centrale?

Pechino sta invece cercando una riscossa, dopo il profondo rosso causato dalla bolla immobiliare e dal calo della domanda. A dare respiro a un'economia in sofferenza potrebbe essere la Banca Popolare Cinese, da cui ci si aspetta un calo degli accantonamenti obbligatori a cui le aziende di credito locali sono tenute. Un provvedimento che, se adottato, avrebbe un potenziale molto forte sul supporto all'economia in un momento di stagnazione. A questo si aggiunge che le aziende cinesi, essendo sussidiate dallo Stato, hanno la possibilità di mettere in atto politiche aggressive in termine di prezzo. Non per niente, Pechino è diventato il primo esportatore al mondo di automobili, superando il Giappone che da molto tempo dominava la classifica.

Foto di Mark König su Unsplash


Guerra in Medio Oriente: la reazione delle Borse

L'attacco di Hamas a Israele ha innescato timori nei mercati europei, che hanno reagito con una flessione. Ma il recupero non si è fatto attendere, spinto probabilmente dalla consapevolezza che questo nuovo conflitto obbligherà le banche centrali a fermare definitivamente la stretta monetaria. E, forse, a pianificare una riduzione dei tassi in tempi più rapidi rispetto alle previsioni

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Le drammatiche notizie provenienti dal Medio Oriente hanno spinto in negativo le Borse europee, che già si trovavano in un contesto di ribasso. Ieri, tuttavia, i mercati hanno recuperato ampiamente le perdite di lunedì, allineandosi con i valori di New York, che lunedì scorso non avevano risentito degli echi provenienti dal teatro mediorientale. Sembra quindi che l'escalation provocata dall'attacco di Hamas a Israele non abbia influito più di tanto sull'andamento dei listini. Forse perché, in presenza di una crisi così grave in Medio Oriente (e di rischi di future ripercussioni sul prezzo del petrolio), la Banca Centrale Europea non potrà più alzare i tassi, pena il crollo dell'economia. Anzi: è più probabile che lo “scollinamento”, inizialmente previsto per fine 2024, venga anticipato.

Le preoccupazioni all'orizzonte

I timori provenienti dallo scenario mediorientale sono dunque di carattere prima di tutto umanitario e poi geopolitico, ma molto meno di tipo economico. Da un lato, come detto, la Bce dovrà probabilmente rivedere in fretta la ormai atavica politica di rialzi continui; dall'altra, le preoccupazioni su un possibile stop al dialogo tra Israele e i Paesi arabi sono forse esagerati: l'accordo tra Tel Aviv e l'Arabia Saudita, con la partecipazione, pur sfumata, delle autorità di Ramallah (nemiche giurate di Hamas) potrebbe subire una sospensione temporanea, ma riprendere in un secondo tempo. Rimangono i rischi di una destabilizzazione di tutta l'area mediorientale, dato che Hamas è un chiaro problema per l'intero mondo arabo. Tuttavia, finora il prezzo del petrolio si mantiene sotto controllo, con valori inferiori ai 90 dollari al barile.

Sale lo spread

E lo spread? Lo spread resta oltre quota 200, che ha raggiunto dopo essere rapidamente balzato in alto dagli originari 170. Perché sarà anche vero che, molto probabilmente, non ci sarà un ulteriore rialzo dei tassi, ma è anche incontestabile che gli effetti della stretta monetaria si sentono da parecchi mesi: l'Italia, come le altre economie dell'area euro con debito pubblico alto, sta già pagando da tempo l'inasprimento deciso dalla Banca Centrale Europea. Più il costo del denaro è alto, più i Paesi indebitati devono pagare, e meno possono investire. Finché, dunque, la Bce non riporterà i valori su livelli accettabili, sarà allarme spread, aggravato anche dalle “scommesse” delle grandi banche d'affari, che hanno puntato con decisione contro l'Italia.

Il successo dei Btp Valore

In questo scenario non confortante, si è registrato il successo ottenuto dal collocamento dei Btp Valore: la nuova emissione ha infatti chiuso a quota 17,2 miliardi, di poco sotto la prima tranche. Il risultato è decisamente apprezzabile e si allinea con una tendenza mondiale che vede i cittadini investire massicciamente sui titoli di stato (un trend analogo si riscontra in Francia, in Germania e negli Usa). Tuttavia, è difficile che il successo dei Btp Valore influisca sugli spread, perché l'importo è determinato sul decennale. Nonostante tutto, occorrerebbe effettuare ancora 250 miliardi di emissioni: per questo motivo, un terzo collocamento, fra un anno o magari tra alcuni mesi, è altamente probabile.

Dollaro sovrastimato

Frattanto, il dollaro ha “bucato” quota 1,05, ma fatica a rimanere su questi livelli. Per il biglietto verde, infatti, il cambio attuale è al di sopra del proprio standard; si prevede, dunque, un arretramento. Anche perché il dollaro non è più considerato un bene rifugio, soprattutto alla luce della guerra in Medio Oriente, che può far male all'economia americana molto più che a quella europea. Perché negli Stati Uniti è vicino l'anno elettorale, che obbligherà l'amministrazione democratica a lavorare per attutire gli impatti della crisi economica, proprio mentre non sembra prossima la fine per la guerra russo-ucraina: per gli Usa, il coinvolgimento, pur dall'esterno, in due conflitti potrebbe rivelarsi impossibile proprio dal lato finanziario – che è solitamente decisivo per l'esito delle presidenziali. Per questo motivo, necessariamente, Washington dovrà decidere chi sostenere, anche a causa della spada di Damocle che pende su una terza area calda: Taiwan.

Scioperi negli Stati Uniti

A complicare le cose, ecco il ritorno degli scioperi negli Stati Uniti. Un fenomeno che finora è sotto controllo, ma sta comunque aumentando in varie parti del Paese. I sindacati, la cui forza era stata dimezzata dai duri confronti con l'amministrazione Reagan negli anni Ottanta, stanno tornando a riscuotere sempre più fiducia e consenso tra i lavoratori americani. Varie le ragioni di questo cambiamento di prospettiva. Hanno certamente influito gli utili ottenuti dalle grandi aziende (soprattutto big tech) in tempo di coronavirus, che non si sono tradotti in adeguamenti salariali per i dipendenti. L'aumento dei tassi, ancora una volta, ha acuito questo senso di disagio: la stretta monetaria ha offerto ai cittadini abbienti la possibilità di investire ottenendo interessi più alti, mentre ha costretto la classe medio-bassa a stringere i cordoni della borsa a causa degli aumenti dei prezzi. Un altro fattore ha favorito il ritorno degli scioperi: il calo della disoccupazione, che ha accresciuto il potere contrattuale dei dipendenti, fornendo loro il coraggio necessario per aderire alle azioni sindacali. L'ondata di astensioni dal lavoro potrebbe anche suonare come un campanello d'allarme nei confronti dei Democratici, che da tempo hanno allentato la presa sui diritti sociali. Un campanello d'allarme che arriva, ancora una volta, alla vigilia di un delicatissimo anno elettorale.

Foto di Jeff Kingma su Unsplash


Politica monetaria, le banche centrali si dividono

Federal Reserve, Bank of England e Banca Nazionale Svizzera hanno deciso di tenere fermi i tassi, concedendo un respiro all'economia e distanziandosi dalla Bce, che sembra non volersi arrestare. Mentre in Giappone le percentuali restano ferme, in territorio negativo. Preoccupa però l'intenzione della Fed di lasciare alte a lungo le percentuali: si teme che poco cambierà prima di fine 2024

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Dopo la Banca Centrale Europea, anche la Federal Reserve ha comunicato la sua decisione mensile sulla politica monetaria. Washington, a differenza di Francoforte, ha deciso di fermare la crescita dei tassi (è il secondo stop, in una manovra che ha finora fatto registrare 11 rialzi), mantenendo così la forbice fra il 5,25% e il 5,5%. Le parole con cui Jerome Powell ha spiegato la sua decisione, però, non sono state troppo confortanti. Il presidente della Fed ha infatti affermato da un lato che prossimamente potrebbero essere necessari altri aumenti, dall'altro che i tassi rimarranno alti per lungo tempo. A preoccupare i mercati è soprattutto la seconda affermazione: negli Usa, il costo del denaro rischia di rimanere alto per tutto il 2024 e forse oltre, con evidenti ripercussioni sull'economia.

Politiche divergenti

Insieme alla Fed, hanno optato per una pausa altri due importanti istituti centrali del mondo occidentale: la Banca d'Inghilterra e la Banca Nazionale Svizzera. Più in particolare, Big Ben ha detto stop dopo 15 interventi consecutivi, fermando la percentuale di riferimento a 5,25%, mentre Berna ha mantenuto costante il tasso all'1,75%, smentendo le previsioni degli analisti che ritenevano probabile un nuovo ritocco verso l'alto dello 0,25%. Tutte e tre le banche centrali potrebbero, in futuro, decidere per nuovi interventi, ma hanno preferito lasciar rifiatare le rispettive economie. Cosa che, come è ben noto, non ha fatto la Bce, il cui ritmo serrato rischia di portare al disastro economia, potere di spesa delle famiglie e Stati con debito pubblico alto. Sembra di assistere alle stesse scene del 2007, quando l'allora presidente dell'Eurotower Jean-Claude Trichet alzò i tassi, ma fu costretto a tornare precipitosamente indietro dopo la crisi Lehman. Una situazione simile potrebbe riproporsi: non per niente, Goldman Sachs ha già accennato a una possibile impennata degli spread – e quando le grandi banche d'affari iniziano ad affrontare questi argomenti, significa che hanno già posizioni short sui debiti dei paesi più in difficoltà. Sembra che attualmente la Bce sia intenzionata a fare qualsiasi cosa per raggiungere l'obiettivo del 2%. Quando, lo ripetiamo per l'ennesima volta, l'inflazione europea è una questione soprattutto di materie prime: finché queste non calano, la spirale inflattiva non può scendere troppo. Tassi o non tassi. E, da questo punto di vista, le cose non sono certo rassicuranti, a causa della nuova ascesa del petrolio che, a causa dell'asse fra Arabia Saudita e Russia, sta galoppando pericolosamente verso il valore di 100 dollari al barile. Invece che insistere fideisticamente in una monolitica strategia di rialzi in loop, la Bce dovrebbe accettare di mettersi in discussione, studiando gli esempi delle altre banche centrali occidentali. Quelle americana, inglese e svizzera, appena citate. E quella giapponese, che rappresenta la scelta diametralmente opposta: dallo scoppio della crisi in poi, Tokyo non ha abbandonato la tradizionale politica di tassi fermi, confermandosi l'unico paese del G7 a mantenere il costo del credito in territorio negativo. Anche l'avvicendamento, avvenuto alcuni mesi fa, del governatore della banca centrale (Kazuo Ueda al posto di Haruhiko Kuroda) ha lasciato invariato il piano operativo nipponico. Risultato? L'inflazione resta inferiore a quella di Eurolandia.

Vie alternative

Del resto, l'economia dell'Unione Europea, insieme a quella britannica, è la meno brillante nel mondo occidentale. Vale a dire che oltre oceano le condizioni sono migliori: l'economia statunitense è molto più vicina all'equilibrio rispetto alla nostra, con un'inflazione che arretra gradualmente. Sicuramente, alla crisi europea contribuisce anche lo stop della Germania, di cui per anni ha tratto beneficio l'intero continente. Berlino ha vissuto per più di 20 anni su tre cardini: l'assenza di svalutazioni competitive, che ha favorito una crescita di salari reali, il gas russo a basso prezzo e un export in Cina praticamente illimitato. Oggi, con il metano di Mosca ridotto ai minimi termini e i problemi geopolitici che riguardano Pechino, si manifestano tutti i limiti dell'espansione economica della Germania che, come si è visto dagli ultimi accadimenti, non dipende da buone politiche di bilancio. Non potendo più beneficiare del “traino” tedesco, i paesi del centro e sud Europa dovrebbero cercare alternative. L'Italia, per esempio, ha una strada obbligata: quella di ritagliarsi un ruolo in Africa con il “piano Mattei” di cui si sta insistentemente parlando.

Sofferenze bancarie al minimo dal 2006

L'aumento dei tassi, come è ampiamente risaputo, ha dato una grossa spinta alle banche, contribuendo ai loro utili record. Anche se in futuro, il possibile rovescio della medaglia potrebbe vedere i loro bilanci indeboliti proprio da un’altra conseguenza della stretta creditizia: la recessione che incombe e che, giocoforza, minerà la capacità di spesa degli italiani. Intanto, però, le aziende bancarie si godono un altro successo, evidenziato dal Market Watch Npl, inchiesta realizzata dall’ufficio studi di Banca Ifis e presentato nel corso del Npl Meeting di Cernobbio. Dalla ricerca emerge infatti che il tasso di deterioramento del credito delle banche italiane dovrebbe chiudere l'anno all'1,2%, minimo storico dal 2006. Inoltre, prosegue lo studio, negli ultimi otto anni lo stock Npe si è ridotto di 55 miliardi, scendendo dai 361 di inizio 2015 ai 306 di fine 2022. Nello stesso periodo, gli operatori del mercato Npl hanno favorito il processo di derisking delle banche italiane, con 352 miliardi di euro in crediti deteriorati transati - di cui 42 sono stati ceduti nel 2022. Questo risultato dipende sicuramente dalle regolamentazioni Eba e dal lavoro dei player specializzati nella gestione dei non performing loans, ma anche dalla stretta creditizia che le banche hanno applicato dopo la crisi Lehman. Un trend che è stato rinforzato dalla rimozione di autonomia decisionale un tempo concessa alle filiali e ai loro direttori: oggi al contrario anche per concedere piccoli crediti si inizia a utilizzare l'intelligenza artificiale. Il che, ovviamente, svilisce la professionalità e gli skill di chi in banca ci lavora, oltre che accordare meno finanziamenti alla clientela.

Meglio aspettare

Sicuramente, l'andamento delle banche sarà determinante per i prossimi risultati della Borsa di Milano. Che al momento percorre una linea ribassista (Piazza Affari ha già fatto registrare quattro sedure negative) ma non abbastanza per effettuare movimenti drastici sul mercato. In un momento di incertezza come quello attuale, è probabilmente saggio rimanere in una situazione di attesa: il mercato non è ancora bene intonato, ma la discesa è ancora marginale, e non si vedono ancora grandi opportunità per gli investitori.

Foto di Brendan Church su Unsplash


I tassi sempre più su

Le speranze di uno stop alla stretta monetaria sono state vanificate dai nuovi rialzi decisi dalla Banca Centrale Europea. “Ora non possiamo dire di essere al picco”, ha dichiarato apertamente la presidente Christine Lagarde, ma la recessione dilagante fa pensare che alla prossima riunione si deciderà la fine degli aumenti o almeno uno stop.

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Il nodo è stato sciolto: la Banca Centrale Europea ha nuovamente alzato (con decisione non unanime) i tassi di interesse degli ormai consueti 25 punti, segnando il decimo aumento consecutivo e stabilendo il record del 4,50%. Vane tutte le speranze in senso contrario: la maggioranza dei “falchi”, lungi dall’assottigliarsi in maniera determinante, ha nuovamente tirato fuori gli artigli. E questo nonostante la Germania sia già in recessione. Il motivo del rialzo è sempre lo stesso: “l’inflazione”, ha detto Christine Lagarde, presidente della Bce, “continua a diminuire, ma ci si attende tuttora che rimanga troppo elevata per un periodo di tempo troppo prolungato”. Il solito mantra è l’obiettivo del2% nel medio termine”. La presidente Bce non ha escluso una pausa, ma ha lasciato le porte aperte anche a un nuovo rialzo: “ora non possiamo dire di essere al picco dei tassi", come dichiarato senza mezzi termini, rispondendo a una domanda in conferenza stampa.

Crescono i malumori

La decisione della Banca Centrale Europea ha lasciato scontenti molti esponenti del mondo economico e politico. Tra gli addetti ai lavori sta girando una battuta sarcastica: “la Bce ha rivisto al ribasso le previsioni sull'economia e per essere sicura di centrare le previsioni ha alzato ancora i tassi”. Scherzi a parte, il consiglio dell'istituto centrale è composto da persone competenti: per questo motivo, è più che lecito chiedersi perché, pur conoscendo bene la stagnazione attuale dell'economia europea, prosegua imperterrito ad avvitare i bulloni della stretta monetaria. La prosecuzione dei rialzi mette in difficoltà tutti i paesi, in particolare quelli più indebitati, creando nuovi rischi di tenuta (e, forse, persino di sopravvivenza) per l'euro. All'Italia, in particolare, la stretta monetaria costerà 12 miliardi nel 2023, e 18 l'anno prossimo. Grandi società internazionali, come Goldman Sachs e Morgan Stanley, iniziano già a prevedere una salita dello spread, resa ancora più probabile dallo stop all'acquisto di titoli di stato italiani da parte della Bce.

Tassa sulla povertà

Oltre a questo, gli interessi alti sono anche una tassa sulla povertà: i più abbienti possono permettersi di investire il loro denaro ricevendo interessi sicuri da conti deposito, titoli di stato o obbligazioni, mentre quelli con difficoltà economiche non ne hanno l'opportunità. In compenso, questi ultimi devono fronteggiare un'inflazione sferzante, acuita dal recente rialzo del petrolio. Il greggio, anche per l'accordo tra Russia e Arabia Saudita in ambito Opec+, sta ormai galoppando verso quota 100, portando nuovi aumenti su molti prodotti al dettaglio, oltre che sul costo dei trasporti su gomma. E mettendo a serio rischio-crollo la produzione industriale europea. Nonostante i dieci rialzi consecutivi dei tassi, l'euro flette sul biglietto verde. L'incremento del valore del dollaro sulla nostra moneta dipende anche dalla crescita della ricchezza di famiglie e privati americani, nonostante l'esplosione del debito che ha recentemente portato al rischio di blocco di tutte le attività pubbliche. In aggiunta, gli Usa possono sopravvivere con il solo mercato interno, dispongono di materie prime e battono la valuta di riferimento per il mercato mondiale. Un vantaggio non da ridere, anche in presenza di un debito molto alto.

Forse non sarà domani. O forse sì

Considerata la posizione di Christine Lagarde e l'insistenza del consiglio su una linea incapace di cambiare strategie in corsa, è lecito domandarsi quando la Banca Centrale avrà il coraggio di invertire la marcia. Tutto è possibile, soprattutto esaminando la rigidità dei “falchi”. Tuttavia, è sensato pensare che questo aumento dovrebbe essere l'ultimo. O, almeno, che la Bce segua l'esempio della Fed e conceda un po' di respiro all'economia, optando per una pausa. Le pressioni in questo senso sono sempre più frequenti. Non per niente, rumours ricorrenti parlano di un ritorno di Mario Draghi in un ruolo europeo. L'ex presidente Bce, ricordiamolo, è l'uomo del whatever it takes, strategia del tutto opposta a quella attuale, che sembra disinteressata ai paesi con debito pubblico alto e, di riflesso, ai destini dell'euro.

Patto di stabilità: l'urgenza di una riforma

La crisi che morde rende oltremodo necessario che le trattative per la riforma del Patto di Stabilità vadano avanti spedite, accantonando le rigidità degli anni passati. I paesi membri dell'Ue hanno espresso il proposito di cambiare le regole entro fine anno, mentre gli ottimisti sperano di chiudere la partita già a fine ottobre (“il 70% del testo della nuova regolamentazione è più meno accordato”, ha detto Nadia Calviño, ministro dell'Economia e dell'Industria del governo spagnolo). Tutti sembrano voler evitare il ritorno alle vecchie regole, che con l'economia in recessione, l'inflazione e i paesi indebitati a rischio potrebbero avere conseguenze devastanti. E anche influire sulle elezioni europee, aprendo a uno scenario che sicuramente non piace agli attuali membri della Commissione.

Sorpresa Borse

In tutta questa situazione come hanno reagito le Borse? Sorprendentemente bene. Nonostante il rialzo dei tassi, infatti, i listini europei sono saliti; in particolare, Piazza Affari ha chiuso la scorsa settimana con una crescita di oltre il 2%. La riapertura di lunedì scorso ha poi evidenziato un arretramento, ma i mercati tutto sommato tengono, anche se quelli americani sembrano attualmente più resistenti. In ogni caso - nonostante la recessione, la scarsità di idee che emerge in questo periodo e l'atavica tendenza all'arretramento di settembre e ottobre - il mercato sembra non aver voglia di scendere. A questi prezzi, è quindi consigliato mantenere le posizioni, puntando soprattutto sui petroliferi come titoli difensivi, su qualche farmaceutico e ancora sulle banche. Il motto è: non mettere e non togliere: al limite, spostare, ma non di molto.Dal lato obbligazionario sono invece interessanti, nonostante il rialzo dei tassi, i bond a cinque anni di durata, che restituiscono più dell'inflazione attesa.

Euro digitale

Nel mentre, la Commissione Europea sta preparando l'introduzione dell'euro digitale, che non è altro che la versione virtuale dei contanti, garantita dall'Eurotower e scambiabile con il cash a valore nominale, senza commissioni (il che lo differenzia dalle carte di pagamento). Il progetto, che potrebbe essere operativo entro cinque anni, divide le banche europee, ma è talmente sentito da convincere la Bce a nominare, come membro italiano proprio un superesperto in valuta digitale, Pietro Cipollone, al posto di Fabio Panetta, che dal prossimo 1 novembre si insedierà a Palazzo Koch come governatore della Banca d'Italia. Il progetto non è una grande rivoluzione, avendo comunque dinamiche simili a quelli delle carte di pagamento; tuttavia c'è spazio anche per preoccupazioni legate alla privacy dei dati e alla possibilità, da parte delle autorità, di controllare i comportamenti dei cittadini o addirittura di bloccare la possibilità di utilizzare il denaro. Certamente, l'euro digitale è un alleato per prevenire le frodi, ma a condizione che si eviti la perdita di libertà e di privacy per i cittadini.

Foto di Ihor Malytskyi su Unsplash


Allargamento dei Brics: che cosa cambia?

Dal prossimo anno, sei nuovi Paesi entreranno a far parte del raggruppamento attualmente composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Tra i programmi dell'alleanza economica, una spinta alla de-dollarizzazione e all'utilizzo delle valute locali per gli scambi. Ma l'idea di una valuta comune è praticamente un'utopia...

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

L'allargamento dei Brics – che dal prossimo 1 gennaio porterà nel raggruppamento economico composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica sei nuovi Paesi (Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto e Argentina) – ha scatenato previsioni e commenti assortiti. Qualche osservatore ha puntato sul ruolo geopolitico di questa operazione, che ha luogo proprio mentre Russia e Cina stanno cercando di allargare la loro sfera di influenza in Africa. Qualcun altro ha sottolineato la crescita di un gruppo di Stati che si propone come alternativa al mondo occidentale, anche a costo di mettere insieme Paesi fino a ieri nemici (come Arabia Saudita e Iran).

Addio al biglietto verde?

Non sono mancate le analisi economiche, per la verità molto variegate. C'è, per esempio, chi prende molto sul serio la tendenza, espressa da vari leader politici, a commerciare in valute Brics piuttosto che in dollari, contribuendo a diminuire l'importanza del biglietto verde. “Valute Brics”, tradotto, significherebbe “yuan”, dato che le voci sulla creazione di una moneta unica del raggruppamento guidato da Pechino sono poco meno di un'utopia. Una chimera, almeno nella situazione attuale, è anche il tentativo di indebolire in maniera incisiva il ruolo del dollaro: gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza mondiale e reagirebbero in maniera attiva se Bretton Woods fosse messa in discussione con fatti concreti (e non a parole, come è avvenuto finora). Basti pensare all'accordo trilaterale Usa-Giappone-Corea del Sud, che ha contenuti politici e militari, ma anche economici (i tre Paesi, si legge nel testo dell'intesa, "rafforzeranno la loro cooperazione per attivare finanziamenti per infrastrutture di qualità" – probabile risposta al progetto cinese di “Via della Seta”). Fino a quando gli Usa saranno la prima potenza mondiale, insomma, il dollaro rimarrà la moneta di riferimento. Anche se i paesi emergenti dovessero rinunciare a utilizzarlo per gli scambi. Oltre a queste considerazioni, è facile osservare la distanza geografica fra i Paesi Brics, ma anche la loro diversità istituzionale: alcuni membri sono democrazie, altri sono regimi autocratici. Il che renderebbe più difficile la creazione di una banca centrale comune (controllata da chi?) e ancora di più un progetto di unificazione fiscale, che non si riesce a completare persino nell'Unione Europea. Infine, più che un meccanismo di scambi “a raggera”, il sistema Brics ha più le parvenze di una struttura sinocentrica, dove gli scambi tra Pechino e “gli altri” assumono un ruolo preminente.

La Cina si accaparra microchip

Per intaccare la centralità del dollaro, la Cina dovrebbe inoltre imporre pagamenti in yuan anche ai Paesi europei (e occidentali) con cui commercia. Ma questa sarebbe un'eventualità fantascientifica. A Pechino interessa, prima di tutto, vendere la propria merce e i propri servizi, e certamente non si assumerebbe il rischio di perdere mercati redditizi per questioni valutarie. Soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, colmo di tensioni di carattere geopolitico che, inevitabilmente, si riverberano sull'economia. Come sta accadendo con il tentativo, da parte dell'amministrazione americana, di frenare l'innovazione tecnologica cinese, anche attraverso il mancato invio di microchip di fabbricazione occidentale. A questa strategia, che alcuni mesi fa ha visto Olanda e Giappone annunciare l'adesione alla campagna di restrizioni tecnologiche nei confronti di Pechino, è seguita una rapida contromossa da parte della Cina, che a giugno e luglio ha aumentato del 70% su base annua proprio l'acquisto di microchip. Gran parte dei quali – guarda caso – proviene proprio da Olanda e Giappone, alla vigilia della stretta alle forniture. Occorre poi aggiungere che, nonostante la chiusura dei rubinetti da parte degli Usa, la Cina continua ad acquistare tecnologia americana, “triangolata”, come sempre accade, su un paese terzo e redistribuita per via indiretta sulla strada per Pechino.

Jackson Hole, tanto rumore per nulla

Al simposio di Jackson Hole, che riunisce i banchieri centrali di tutto il mondo, non sono invece uscite molte indicazioni. Leitmotiv della riunione, la lotta all'inflazione che – si è detto e ridetto nella località del Wyoming – è ancora troppo alta ed è lungi dall'essere stata sconfitta (“ci voleva l'esperto americano”, recitava una pubblicità televisiva degli anni Novanta). In particolare, Christine Lagarde ha sottolineato che la lotta contro l'inflazione sarà ancora lunga, e che i tassi resteranno alti fino a quando servirà; tuttavia, la presidente Bce non ha fornito anticipazioni sull'agenda della riunione che il prossimo settembre definirà le nuove strategie dell'Eurotower. Un po' meno scontato l'intervento di Jerome Powell: il numero uno della Fed è apparso più “falco” di Christine Lagarde, aprendo a nuovi rialzi dei tassi negli Stati Uniti. Sembra però che la posizione di Powell sia difficilmente sostenibile, almeno a lungo termine: la Fed, è vero, potrebbe scegliere di operare un nuovo, ultimo rialzo da 25 punti, ma fra pochi mesi sarà costretta ad ammorbidire la stretta monetaria. Nel 2024 gli Usa voteranno il nuovo presidente, ed è praticamente impossibile che la banca centrale prosegua una politica restrittiva in un anno elettorale. Al contrario, Powell riceverà sicuramente pressioni politiche per avviare una fase espansiva, almeno da febbraio in poi. In ogni caso, le dichiarazioni raccolte al simposio non hanno influito sulle Borse, che hanno anzi chiuso la settimana in positivo.

Milano-Cortina, l'Olimpiade mutilata

Mancano ormai due anni e mezzo circa ai Giochi Olimpici Invernali di Milano-Cortina, che si apriranno allo stadio Meazza il 6 febbraio 2026. La kermesse a cinque cerchi è, però, in bilico fra opportunità e rischi. Se infatti il premier Giorgia Meloni li ha definiti una “grande occasione”, con un possibile impatto di 4,5 miliardi di euro sul prodotto interno lordo, il progetto iniziale in termini di infrastrutture e impianti è già stato modificato. Non per scelta, ma per necessità. A Milano, l'ex Palasharp di Lampugnano non sarà della partita: impossibile renderlo disponibile in tempo utile per l'accensione della fiamma. Il palazzetto, designato come sede dell'hockey femminile, sarà sostituito dai padiglioni 22 e 24 di Rho Fiera, che a loro volta erano subentrati a Baselga di Piné per ospitare il pattinaggio di velocità. Lo stop dell'ex Palasharp dipende soprattutto dalla crescita del prezzo dei materiali, che – anche a causa dell'emergenza bellica – è arrivato a +155%. Tra le infrastrutture (utilissime) che non si faranno, la nuova metrotramvia Rogoredo-Repetti e la superstrada veloce verso Chiavenna. Sembrerebbe invece sventata (il condizionale è d'obbligo) una figuraccia forse ancora più plateale: i ritardi nella costruzione dell'anello di bob, slittino e skeleton di Cortina d'Ampezzo. Fino a pochi giorni fa, sembrava che queste discipline dovessero migrare nella vicina Innsbruck, o addirittura a St Moritz, a causa della mancata partecipazione di concorrenti al bando d'asta; ora una trattativa d'emergenza potrebbe finalmente sbloccare i cantieri e aprirli entro settembre, mese limite per poter ancora sperare di veder sfrecciare bob e slittini a Cortina. L'intervento in extremis di Simico, società pubblica che cura le infrastrutture, dimostra ancora una volta che esiste un'Italia a più velocità, con la solita iperburocrazia che grava come una cappa sul Paese, rallentando qualsiasi progetto. Proprio per questo, nei lavori pubblici l'unico modello che funziona è, quello emergenziale, come è emerso anche dalla ricostruzione veloce del ponte San Giorgio di Genova, inaugurato in piena epoca Covid con un ritardo tutto sommato accettabile.

Foto di Laura Ockel su Unsplash


Petrolio, nessun cambiamento in sede Opec

I paesi esportatori di greggio hanno esteso i tagli attuali alla produzione a tutto il 2024, mentre l'Arabia Saudita proseguirà autonomamente l'estrazione di 500.000 barili in meno al giorno. Il punto sulle considerazioni finali di Ignazio Visco

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

L'ok definitivo del Congresso americano all'innalzamento al tetto del debito ha dato respiro ai mercati, che la scorsa settimana erano partiti con una flessione e hanno poi chiuso in crescita. La dinamica dei listini, però, non dipende solo dalle notizie giunte da Washington – dato che il compromesso era già stato raggiunto e comunque scontato – ma anche dalla dinamica che da tre mesi guida i mercati: quando la settimana parte male, chiude bene, e viceversa. Un ping pong che, come accade al gioco dell'oca, riporta le pedine alla situazione di partenza. La scorsa settimana, se si escludono l'ottima performance dell'intelligenza artificiale e il rafforzamento del settore bancario (ma sempre in un andamento di piccolo cabotaggio), le Borse non hanno abbandonato la loro ormai consueta posizione di attesa.

L'Arabia va da sola

Qualche novità giunge invece sul fronte petrolio, che nell'ultima riunione dell'Opec+ ha visto l'Arabia Saudita isolata sulla proposta di ulteriori riduzioni. L'organizzazione dei paesi esportatori di greggio ha mantenuto lo status quo, estendendo i tagli attuali a tutto il 2024 e stabilendo a 40,46 milioni di barili al giorno il target per l'anno prossimo. Riad, da parte sua, ha invece deciso di proseguire una politica autonoma, confermando il taglio di 500.000 barili al giorno. La divergenza (che, assicurano in sede Opec, è stata comunque soft) non ha avuto troppe conseguenze: pur cresciuto, il prezzo del petrolio è rimasto sotto gli 80 dollari al barile, nella comfort zone in cui risiede da un po' di tempo. Ad abbandonare, invece, le quotazioni degli ultimi tempi è stato l'euro, che è sceso rispetto al dollaro. Si tratta però di una normale fluttuazione, che lo mantiene in fascia neutrale.

Stretta monetaria, la (larvata) critica di Visco

L'opinione pubblica italiana ha, invece, seguito con molta attenzione le consuete considerazioni finali del governatore di Bankitalia, pronunciate da un Ignazio Visco giunto all'ultimo mandato. Attenzione particolare sull'inflazione, il cui ritorno su livelli più bassi “sarà più rapido e meno costoso se tutti – imprese, lavoratori e governi – contribuiranno a questo fine, rafforzando l’efficacia dell’indispensabile ancorché equilibrata normalizzazione monetaria. Le strategie di prezzo delle imprese giocheranno un ruolo fondamentale”. Si rivelerà importante, ha proseguito Visco, “tenere dritta la barra della risposta monetaria, ma con la gradualità necessaria per l’incertezza ancora non dissipata”. Una larvata critica, quella del governatore, alla velocità con cui la Bce ha alzato i tassi. Pur molto moderato e istituzionale, il messaggio è chiaro: occorre evitare salti nel buio, come più esplicitamente aveva ricordato, lo scorso febbraio, Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo Bce. Stiamo attendendo la recessione più prevista della storia. Ce lo dicono i dati economici, anche se la Banca Centrale Europea sembra voler proseguire nella politica di inasprimento. Mostrandosi più radicale rispetto alla Fed, dubbiosa sulla prosecuzione della stretta.

Tassazione, la progressività è imprescindibile

Visco è intervenuto anche sulla riforma del fisco, ritenendo “necessario” agire per “superare gli ostacoli e i disincentivi alla crescita dimensionale ancora presenti, spesso impliciti nelle norme amministrative e tributarie”, ma senza “prescindere dai vincoli posti dal nostro elevato debito pubblico, né dai principi di progressività e capacità contributiva sanciti dalla Costituzione”. Qualcuno, in queste parole, ha visto uno scetticismo nei confronti dei sistemi di tassazione ad aliquota fissa, che periodicamente si presentano nel dibattito politico italiano, ma che nella loro versione più ortodossa appaiono inattuabili. Mentre sembra più fattibile la versione light della flat tax, quella che consentirebbe alle partite iva con fatturato fino a 80.000 euro lordi una tassazione “piatta”. Si tratterebbe di una perequazione con il lavoro dipendente: i professionisti non hanno ferie pagate, malattia, né un datore di lavoro che paga loro i contributi. Questo intervento consentirebbe proprio di equilibrare queste differenze. Senza intaccare i principi di “progressività e capacità contributiva” sottolineati dal governatore.

Crescita sopra le attese

Tra i protagonisti delle considerazioni finali anche l'economia, la cui crescita, nel primo trimestre 2023, “ha di nuovo superato le attese”, con una previsione attuale di oltre l'1% a fine anno. La situazione evidenziata dal governatore ispira ottimismo anche in caso di recessione, dato che il prodotto interno lordo italiano continua a mostrarsi superiore a quello di Germania e Francia. Anche per la capacità di reazione dimostrata di fronte a pandemia e guerra russo-ucraina, con annessa crisi energetica. Le ristrettezze economiche in cui da tempo versa l'Italia, hanno fatto sì che le aziende che sono riuscite a sopravvivere, nonostante l'atavica burocrazia che frena il paese, abbiano sviluppato una sorta di sistema immunitario. E siano più sane e forti rispetto a imprese abituate a procedere su rassicuranti rettilinei, meno avvezze a difficoltà.

Salario minimo

Il governatore si è anche dedicato ai troppi giovani (ma non solo) che “non hanno un’occupazione regolare o, pur avendola, non si vedono riconosciute condizioni contrattuali adeguate; come negli altri principali paesi europei, l’introduzione di un salario minimo, definito con il necessario equilibrio, può rispondere a non trascurabili esigenze di giustizia sociale”. In molti casi, ha proseguito, “il lavoro a termine si associa a condizioni di precarietà molto prolungate: la quota di giovani che dopo cinque anni ancora si trova in condizioni di impiego a tempo determinato resta prossima al 20%”. Il salario minimo caldeggiato da Visco è possibile da introdurre? E in che termini? Prima di affrontare il problema, occorre ricordare che, da questo discorso, occorre escludere la maggior parte dei dipendenti, che uno stipendio minimo ce l'ha già. Si tratta dei lavoratori coperti dai contratti collettivi nazionali, i cui livelli retributivi sono sicuramente superiori a un importo base stabilito per legge. Il salario minimo, insomma, andrebbe a tutelare le fasce di popolazione più deboli, sottopagate. Quelle, per intenderci, che sono retribuite 5 euro all'ora o addirittura meno. Naturalmente, anche qui occorrono i dovuti distinguo: per esempio, prevedendo condizioni ad hoc per alcuni settori, come quello delle badanti, in cui la quantificazione oraria non è così immediata. Insomma: prima o poi, al salario minimo ci si dovrà arrivare, come auspicato da Visco. Occorrerà però individuare il giusto percorso e le corrette applicazioni di questo istituto. E considerare anche l'altro tema – correlato e altrettanto importante – relativo al livello di retribuzione dei giovani, soprattutto negli stipendi di ingresso. Magari superiori a qualsiasi salario minimo venga identificato, ma comunque molto bassi.

Debito pubblico

Tra le altre cose, le considerazioni finali si sono concentrate anche sul debito pubblico. Ridurne la dimensione, ha detto Visco, “è una priorità della politica economica, indipendentemente dalle regole europee. Un alto debito impone che una quota elevata delle entrate pubbliche sia destinata al pagamento di interessi invece che a impieghi produttivi; pone seri problemi di equità tra le generazioni; rende più difficile l’adozione di misure anticicliche; genera incertezza per gli operatori economici”. Considerazioni che non fanno una piega. Ma che, purtroppo, sono di difficile applicazione. Perché nella realtà, ridurre il debito è molto arduo, se non impossibile. Prendiamo l'Italia: negli ultimi 30 anni ha registrato un avanzo primario, ma ciò non ha impedito all'indebitamento di crescere. Prendiamo gli Stati Uniti, dove il debito è molto maggiore del nostro, e dove, nonostante questo, si è reso necessario un ampliamento del tetto, senza il quale il paese sarebbe andato in default. Piuttosto, sarebbe più fattibile cercare di eliminare il debito “cattivo” e mantenere quello “buono”, cioè gli investimenti che poi creano lavoro, denaro ed espansione dell'economia. A questo proposito, sarebbe importante ricalibrare gli obiettivi del Pnrr. Occorrerebbe, cioè, cambiare le politiche di investimento, dato che in poco tempo le priorità si sono trasformate in maniera radicale, ed evitare di spendere tutto il tesoretto entro il 2026. Perché, ricordiamolo, quasi tre quarti della somma disponibile è a debito: impiegarla tutta rischierebbe di creare problemi soprattutto a famiglie e aziende, che un giorno saranno chiamate a ripagare gli investimenti effettuati.

Image by rawpixel.com


Investire in tempo di inflazione

La recessione sembra vicina: ormai non ci si chiede più se ci colpirà, ma quanto durerà. Proviamo a dare indicazioni su come navigare i mercati finanziari in questi tempi difficili

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

Sono bastati i dati di settembre sull'occupazione negli Stati Uniti, diffusi venerdì scorso, per mandare in tilt le Borse Usa. L'incremento dei posti di lavoro, anche se leggermente più basso rispetto alle attese, è stato valutato dai mercati come un'approvazione (non gradita) del rialzo dei tassi da parte della Fed. Il dato ha dunque provocato un calo di Dow Jones (-2,10%), Nasdaq (-3,80%) e S&P 500 (-2,80%), trascinando con sé anche le Borse asiatiche.

Europa più resistente

Attualmente, i mercati europei sembrano più resistenti rispetto a quelli americani: in settembre l'Euro Stoxx 50 ha perso il 4,6% contro il 9% dell’indice S&P americano. È pur vero che l'andamento delle economie Usa e Eu è molto divergente, dato che la prima subisce un rallentamento, la seconda è decisamente malata. Ma negli Stati Uniti l'inflazione tocca tutto: case, salari, prezzi al consumo. Quella europea è invece dipendente dalle materie prime, maggiori responsabili dell'inflazione galoppante. Il consiglio è sempre lo stesso: è ormai tardi per vendere, tutti gli indici mondiali perdono almeno il 25% da inizio anno e vale la pena di ricordare che, nella storia, dopo i ribassi, gli indici hanno sempre recuperato e conseguito nuovi massimi. Qui di seguito riportiamo un grafico esplicativo di quanto detto:

La logica ci porta dunque a dire che, con un po’ di cautela e con un orizzonte temporale di medio periodo, vale la pena cominciare a investire. È così che si comportano gli smart investor, a cominciare da Warren Buffet, che ha costruito parte della sua fortuna comprando azioni durante il crollo del mercato nel famoso “lunedì nero” del 1987. Oggi un investitore ha la possibilità di entrare in un mercato sofferente per poi approfittare dei futuri rialzi. I settori più consigliati sono il bancario e l'energetico. Attualmente, gli istituti di credito valgono il 40% del loro book value, e saranno probabilmente i primi a riprendersi, anche in virtù del rialzo dei tassi e del fatto che, una volta finita la recessione, saranno tra le prime società a beneficiare in termini di maggiori utili

Petrolio ancora su

I titoli energy potrebbero invece rivelarsi un buon affare soprattutto a causa dei nuovi rialzi del petrolio, spinto dal taglio della produzione del 2% (2 milioni di barili al giorno) da parte dell'Opec+. Una decisione caldeggiata soprattutto dall'Arabia Saudita, che ha convinto il presidente americano Joe Biden a cercare di correre ai ripari, per evitare aumenti alla pompa e conseguenti malumori dei cittadini, in vista delle imminenti elezioni di mid term. L'amministrazione Usa si è convinta ad intervenire sulle riserve strategiche americane, ma anche ad ammorbidire i rapporti con paesi da tempo considerati ostili, come l'Iran e il Venezuela di Nicolás Maduro. È la classica situazione di un paese che si scopre debole e che è obbligato a rimuovere le sanzioni a un paese quando le applica a un altro. L'Europa cerca invece di stabilire un tetto al prezzo del greggio, ma solo a quello russo, lasciando tutto il resto alla mercé della speculazione. La sanzione potrebbe venire applicata mediante una proibizione alle compagnie Ue di assicurare le petroliere se trasportano greggio russo venduto ad un prezzo più alto rispetto al cap. Questa norma sarebbe, tuttavia, facilmente aggirabile. Anche perché la Russia prosegue a vendere le sue materie prime ai molti Stati che non applicano le sanzioni, e non è escluso che questi le possano rivendere all'Europa a prezzi maggiori. Ricordiamolo: paesi importanti come Cina, India e Brasile non applicano le sanzioni contro la Russia, rafforzando il loro atteggiamento con un'astensione alle risoluzioni prese in sede Onu. Un atteggiamento di benevola neutralità che non è in discussione da nessuna parte. Neppure in Brasile, dato che l'unico punto di contatto tra Luiz Lula e Jair Bolsonaro, acerrimi avversari al ballottaggio presidenziale, è un atteggiamento critico nei confronti dell'amministrazione americana.

Il trionfo dell'inerzia

In una situazione così magmatica, prosegue l'azione confusa e inconcludente dei leader europei per affrontare l'emergenza gas. Un'urgenza che avrebbe dovuto essere risolta già a fine 2021. E invece ha subito rinvii su rinvii, per poi rimanere intatta dopo il vertice di Praga. Ancora una volta in Europa non è servito a niente il famoso motto latino: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”. Anzi, a peggiorare le cose, in un sovranismo che pervade, ogni Paese fa da sé (altro che Orban) e la Germania, come già detto la settimana scorsa, ha approvato sovvenzioni a famiglie e imprese per 200 miliardi di euro, un fatto gravissimo che metterà fuori gioco la filiera industriale italiana che sta affrontando una crisi devastante. Il timore è che nei mesi a venire le tensioni sociali esploderanno pressoché ovunque in un’Europa solidale a parole, ma individualista, totalmente egoista nei fatti e suicida nelle decisioni strategiche di politica economica. Anche perché i segnali negativi si moltiplicano. Ultimo allarme, il dato sulle vendite al dettaglio in Italia nel mese di agosto, calato dello 0,4%. Lo “zero virgola” che non deve ingannare, dato che nei mesi estivi è sempre prevista una forte crescita per il forte afflusso di turisti. Facile comprendere che gli italiani stanno già tagliando (e di molto) la spesa a causa del caro bollette.

Euro, la debolezza è temporanea

La crisi del gas sta anche affossando l'euro, che continua a far registrare minimi storici. Almeno in questo caso, tuttavia, la nostra moneta dovrebbe tornare in tempi non esageratamente lunghi sopra la parità con il dollaro: la forza attuale del biglietto verde non ha molta logica, in presenza di una bilancia dei pagamenti fortemente negativa negli Stati Uniti. La ragione della forza momentanea del dollaro è dovuta in gran parte alle tensioni geopolitiche in Europa e al forte divario che si registra oggi fra gli Stati Uniti - dove i tassi a breve hanno raggiunto ormai il 4% - e l’Europa che, giustamente, li mantiene appena sopra l’1%. Sul versante asiatico, visto che quest’anno non ci si fa mancare niente, è Pechino ora ad avere grossi problemi. L'economia cinese ha in corso una devastante crisi immobiliare seguita al fallimento di Evergrande (ma non solo), una crescita decisamente inferiore al previsto legata all’assurda politica di continui lockdown per contenere il coronavirus, una potenziale crisi di relazioni internazionali legate alle continue rivendicazioni su Taiwan e un accentramento di poteri su Xi Jinping. Poteri che, se confermati nell’ormai prossimo congresso del partito comunista, gli conferirebbero una carica a vita. Tutto questo ha da tempo spaventato gli investitori, principalmente americani, che da un lato stanno spostando gli insediamenti industriali di loro aziende dalla Cina all’India e al Vietnam, dall’altro hanno azzerato nuovi possibili investimenti su Pechino.

 

Image by rawpixel.com


Recessione alle porte

Secondo alcuni analisti finanziari, il 2023 potrebbe rivelarsi l'anno peggiore per l'economia dalla crisi del 2009. L'economista Nouriel Roubini calca la mano e prevede che la depressione sarà lunga e dolorosa per famiglie e aziende. Tuttavia, le Banche centrali non hanno cambiato strategia rispetto a 14 anni fa, limitandosi a uno scontato rialzo dei tassi

Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.

La recessione mondiale sembra ormai alle porte. Per l'economia globale il 2023 rischia di essere l'anno peggiore dal 2009. E, tra i paesi occidentali, la Gran Bretagna sembra essere l'apripista verso questo scenario da incubo.

Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti ad avere previsto la crisi del 2008, ha persino rincarato la dose: secondo il professore della New York University, la recessione che sta per arrivare sarà molto brutta, potrebbe durare anni e farà soffrire molto famiglie e imprese, mentre i governi non saranno nelle condizioni di introdurre adeguate facilitazioni fiscali per la mancanza di margini.

I dati sull'aumento delle spese confermano i primi segnali di tempesta. Un esempio su tutti: in Germania, i prezzi alla produzione di agosto sono saliti del 45,6% annuo, mentre il costo dell'energia ha registrato un aumento del 20,4% su base mensile e del 139% a livello tendenziale. Si tratta dei rincari più alti mai registrati dall'inizio dell'indagine statistica nel 1949.

Vecchi rimedi

La storia, si dice, è maestra di vita: per affrontare questa tempesta incombente dovremmo imparare da quanto è accaduto in passato, e possibilmente evitare gli errori commessi.

E invece no: le banche centrali si comportano come fecero nel biennio 2008-09. E cioè, si limitano ad alzare i tassi. Mentre le poche misure (comunitarie e nazionali) introdotte in Europa contro il caro-energia e i costi folli del gas si rivelano inefficaci e confuse – con l'eccezione del tetto introdotto autonomamente in Spagna e Portogallo.

In Spagna e Portogallo. Non in Italia, dove si è puntato sui crediti di imposta per aiutare le aziende a pagare le bollette. Va da sé che la misura è monca: aiuterà infatti alcune imprese e ne escluderà altre, dato che per godere di un credito di imposta occorre avere utili. Paradossalmente, saranno lasciate fuori le aziende con più necessità di sostegno, che dovranno fronteggiare senza alcun aiuto il pagamento di bollette aumentate di sei-sette volte.

Ma se Roma piange, Bruxelles non ride. La proposta del tetto al prezzo del gas è ferma su una scrivania perché non trova l'unanimità dei paesi membri, e neppure il disaccoppiamento tra le tariffe del gas e quelle dell'energia è scontato. Unica certezza è che il prossimo 30 settembre, data in cui i ministri dell'energia si troveranno di nuovo, saranno introdotti razionamenti e limitazioni per il cittadino. Per dirla con il cantautore milanese Walter Valdi, semper mì. Cioè: le situazioni scomode vengono scaricate regolarmente sul consumatore, che alla fine è costretto a pagare per errori altrui.

Aria di bonaccia

In questa calma innaturale, che sembra tanto la quiete prima della tempesta, una cosa è chiara: che la questione energetica e le sue variabili rendono la situazione attuale potenzialmente più grave rispetto a quella del 2008. Con conseguenze imprevedibili: solo una (probabile) contrazione del Pil pari al 2,5% equivale a mezzo milione di posti di lavoro in meno. Davvero una patata bollente per chiunque vinca le prossime elezioni.

Nel mentre, è passata praticamente sotto silenzio la violazione dei confini armeni da parte delle truppe azere. Avvenuta, fra l'altro, a poche ore di distanza dall'accordo di fornitura del gas fra Unione Europea e Azerbaigian.

Ciò conferma inequivocabilmente quanto si diceva all'inizio della crisi ucraina: misure come le sanzioni possono essere coerenti con un'idea di pace, democrazia e rispetto delle leggi internazionali solo se sono comminate a tutti i paesi che non rispettano i diritti umani. Indistintamente. Un'impresa impossibile, dato che la maggioranza di chi ci fornisce materie prime non brilla certo sotto questo aspetto. La non reazione dell'Ue alla crisi armeno-azera non fa che confermare, ancora una volta, questa incoerenza.

Federer, fine di un'era

Se la nuova crisi ci fa tornare indietro di 14 anni, l'annuncio di Roger Federer, che ha comunicato il suo ritiro dal tennis dopo la Laver Cup, ci riporta al 2001 - anno in cui il fuoriclasse basilese vinse il suo primo torneo Atp, a Milano.

L'inizio dell'era-Federer coincide con gli anni dell'euromania: nel 2002 la moneta unica fu accolta con entusiasmo ai quattro angoli d'Europa e nel 2003 - anno in cui il tennista renano conquistò il suo primo slam, sull'erba amica di Wimbledon - la nostra valuta cavalcava l'onda della grande rivalutazione sul dollaro. Mentre cresceva il boom dell'europeismo, favorito anche dai voli low cost e dal crescente scambio di esperienze tra cittadini dell'Unione (soprattutto giovani).

Oggi, l'euro è sotto la parità con il dollaro, e ancor più sotto nel rapporto con il franco svizzero, l'economia ha subito una serie di crisi devastanti e l'euroscetticismo è ai massimi. Il nostro continente ha abbandonato il suo ruolo di “gigante economico” e si è impoverito, mentre il resto del mondo si è arricchito.

Dove abbiamo sbagliato? È mancata del tutto la coesione. Pensavamo di entrare in una nuova era, ma purtroppo non abbiamo sviluppato quell'unione politica e fiscale che si sarebbe dimostrata necessaria per competere con Stati Uniti e Far East.

Il passo non è stato compiuto, e ciò ha reso impossibile la fase successiva, e cioè la progettazione di un debito pubblico comune, vero scudo contro ogni possibile attacco all'euro e alla nostra leadership economica.

Trent'anni dal “mercoledì nero”

Si parlava del primo torneo vinto da Federer da professionista, all'ombra del biscione visconteo di Milano. Alcuni anni prima, il tennista svizzero ancora bambino aveva dominato un altro torneo, questa volta da junior, sotto un altro biscione visconteo, quello di Bellinzona. Correva l'anno 1992. Quello del “mercoledì nero”, che vide affossare la lira e la sterlina sotto i colpi di un attacco speculativo, e il cui trentennale è stato ricordato alcuni giorni fa.

L'euro non c'era ancora e i paesi Ue avevano la possibilità di svalutare. Però, Italia e Gran Bretagna erano state costrette uscire dal sistema di cambi dello Sme, con gravi ripercussioni sull’economia.

Il “mercoledì nero” ha rappresentato la prima “scommessa” contro l'Italia da parte della finanza speculativa – libera, ora come allora, di mettere in ginocchio intere economie.

Sempre nel 1992, alcuni mesi prima, il governo italiano aveva inaugurato la stagione di privatizzazioni e di dismissione del patrimonio dello stato. Da allora, si è pian piano ridotta la classe media. Oggi, per la prima volta nella storia, i figli stanno peggio dei propri genitori, e i ragazzi non riescono più a farsi una famiglia, braccati da crisi, disoccupazione e dumping salariale, innescato anche dalla concorrenza della crescente manodopera straniera.

Petrolio, la grande incognita

C'è tranquillità, invece, sul fronte del petrolio, che si sta deprezzando. Il trend sta creando malumori nell'Opec+: i produttori, guidati dall'Arabia Saudita, sono intenzionati a fermare la discesa delle quotazioni.

Sembra che il decremento del greggio sia stato influenzato da un'operazione dell'amministrazione Biden, che in vista delle elezioni di mid term, sta ricorrendo alle riserve strategiche per evitare rincari della benzina. Per motivi essenzialmente elettoralistici.

Dopo il rinnovo delle camere – o comunque all'esaurimento delle riserve – gli Stati Uniti dovranno però ricostituire il magazzino. E in quel momento, è prevedibile che il prezzo del greggio torni a salire. Senza che sia necessario l'intervento dell'Opec+.

Scende, invece, l'oro. Il trend è l'ulteriore dimostrazione di quanto siano confusi oggi i mercati: il metallo giallo non protegge più dall'inflazione. Il dato potrebbe anche essere condizionato dalla vendita di oro da parte della Russia, per finanziare la guerra in Ucraina.

Le Borse, da parte loro, sono nervose e volatili per il nuovo, possibile rialzo dei tassi negli Stati Uniti, oltre che per la crisi incombente. Per questo, sono ancora consigliati i titoli difensivi, come le utility e i petroliferi. Disco rosso, invece, per le azioni industriali: su questo fronte è meglio aspettare di capire come sarà affrontata la tempesta-bollette.

Il merge di Ethereum

Soffrono i mercati e soffrono le criptovalute, influenzate anche dal nuovo decremento dei titoli tecnologici e del Nasdaq. A questa discesa non si sottrae neppure Ethereum, nonostante la grande operazione (il merge) che ha portato la moneta virtuale dall'inquinante ed energivoro proof of work al più sostenibile proof of stake.

Per ora, la scelta non ha premiato le quotazioni, mantenendo Ethereum in linea con le altre crypto. Un domani, però, questa divisa virtuale potrebbe invertire la tendenza generale, premiata da una scelta all'insegna della sostenibilità.

In futuro, la vendita di Bitcoin e il contestuale acquisto di Ethereum potrebbe rivelarsi una strategia tutt'altro che remota – perché si avveri, però, è necessario che qualche grande investitore rompa l'attesa e traini il mercato verso questa scelta. Una mossa che, naturalmente, al momento non può essere prevista.

Image by rawpixel.com


Privacy PolicyCookie PolicyTermini e Condizioni

CONTROVERSIEDISCLAIMERWHISTLEBLOWING

CHI SIAMONEWSPREMI

Società con azionista unico – Soggetta all’attività di direzione e coordinamento di Finsolari S.r.l.
Capitale Soc. €1.040.000 int. Versato.CF 11416170154 – P.IVA 01867650028
R.I. Milano Monza Brianza Lodi n. 11416170154 REA MI – 2022469
La SGR aderisce al Fondo nazionale di Garanzia

Milano

Via Agnello, 5 - 20121


Tel. +39 02 863571
Fax +39 02 86357300

Biella

Via Italia, 64 - 13900


Tel. +39 015 9760097
Fax +39 015 9760098

© 2024 Alicanto Capital SGR S.p.A. | All Rights Reserved

Privacy Preference Center