Allargamento dei Brics: che cosa cambia?
Dal prossimo anno, sei nuovi Paesi entreranno a far parte del raggruppamento attualmente composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Tra i programmi dell'alleanza economica, una spinta alla de-dollarizzazione e all'utilizzo delle valute locali per gli scambi. Ma l'idea di una valuta comune è praticamente un'utopia...
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
L'allargamento dei Brics – che dal prossimo 1 gennaio porterà nel raggruppamento economico composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica sei nuovi Paesi (Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Egitto e Argentina) – ha scatenato previsioni e commenti assortiti. Qualche osservatore ha puntato sul ruolo geopolitico di questa operazione, che ha luogo proprio mentre Russia e Cina stanno cercando di allargare la loro sfera di influenza in Africa. Qualcun altro ha sottolineato la crescita di un gruppo di Stati che si propone come alternativa al mondo occidentale, anche a costo di mettere insieme Paesi fino a ieri nemici (come Arabia Saudita e Iran).
Addio al biglietto verde?
Non sono mancate le analisi economiche, per la verità molto variegate. C'è, per esempio, chi prende molto sul serio la tendenza, espressa da vari leader politici, a commerciare in valute Brics piuttosto che in dollari, contribuendo a diminuire l'importanza del biglietto verde. “Valute Brics”, tradotto, significherebbe “yuan”, dato che le voci sulla creazione di una moneta unica del raggruppamento guidato da Pechino sono poco meno di un'utopia. Una chimera, almeno nella situazione attuale, è anche il tentativo di indebolire in maniera incisiva il ruolo del dollaro: gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza mondiale e reagirebbero in maniera attiva se Bretton Woods fosse messa in discussione con fatti concreti (e non a parole, come è avvenuto finora). Basti pensare all'accordo trilaterale Usa-Giappone-Corea del Sud, che ha contenuti politici e militari, ma anche economici (i tre Paesi, si legge nel testo dell'intesa, "rafforzeranno la loro cooperazione per attivare finanziamenti per infrastrutture di qualità" – probabile risposta al progetto cinese di “Via della Seta”). Fino a quando gli Usa saranno la prima potenza mondiale, insomma, il dollaro rimarrà la moneta di riferimento. Anche se i paesi emergenti dovessero rinunciare a utilizzarlo per gli scambi. Oltre a queste considerazioni, è facile osservare la distanza geografica fra i Paesi Brics, ma anche la loro diversità istituzionale: alcuni membri sono democrazie, altri sono regimi autocratici. Il che renderebbe più difficile la creazione di una banca centrale comune (controllata da chi?) e ancora di più un progetto di unificazione fiscale, che non si riesce a completare persino nell'Unione Europea. Infine, più che un meccanismo di scambi “a raggera”, il sistema Brics ha più le parvenze di una struttura sinocentrica, dove gli scambi tra Pechino e “gli altri” assumono un ruolo preminente.
La Cina si accaparra microchip
Per intaccare la centralità del dollaro, la Cina dovrebbe inoltre imporre pagamenti in yuan anche ai Paesi europei (e occidentali) con cui commercia. Ma questa sarebbe un'eventualità fantascientifica. A Pechino interessa, prima di tutto, vendere la propria merce e i propri servizi, e certamente non si assumerebbe il rischio di perdere mercati redditizi per questioni valutarie. Soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, colmo di tensioni di carattere geopolitico che, inevitabilmente, si riverberano sull'economia. Come sta accadendo con il tentativo, da parte dell'amministrazione americana, di frenare l'innovazione tecnologica cinese, anche attraverso il mancato invio di microchip di fabbricazione occidentale. A questa strategia, che alcuni mesi fa ha visto Olanda e Giappone annunciare l'adesione alla campagna di restrizioni tecnologiche nei confronti di Pechino, è seguita una rapida contromossa da parte della Cina, che a giugno e luglio ha aumentato del 70% su base annua proprio l'acquisto di microchip. Gran parte dei quali – guarda caso – proviene proprio da Olanda e Giappone, alla vigilia della stretta alle forniture. Occorre poi aggiungere che, nonostante la chiusura dei rubinetti da parte degli Usa, la Cina continua ad acquistare tecnologia americana, “triangolata”, come sempre accade, su un paese terzo e redistribuita per via indiretta sulla strada per Pechino.
Jackson Hole, tanto rumore per nulla
Al simposio di Jackson Hole, che riunisce i banchieri centrali di tutto il mondo, non sono invece uscite molte indicazioni. Leitmotiv della riunione, la lotta all'inflazione che – si è detto e ridetto nella località del Wyoming – è ancora troppo alta ed è lungi dall'essere stata sconfitta (“ci voleva l'esperto americano”, recitava una pubblicità televisiva degli anni Novanta). In particolare, Christine Lagarde ha sottolineato che la lotta contro l'inflazione sarà ancora lunga, e che i tassi resteranno alti fino a quando servirà; tuttavia, la presidente Bce non ha fornito anticipazioni sull'agenda della riunione che il prossimo settembre definirà le nuove strategie dell'Eurotower. Un po' meno scontato l'intervento di Jerome Powell: il numero uno della Fed è apparso più “falco” di Christine Lagarde, aprendo a nuovi rialzi dei tassi negli Stati Uniti. Sembra però che la posizione di Powell sia difficilmente sostenibile, almeno a lungo termine: la Fed, è vero, potrebbe scegliere di operare un nuovo, ultimo rialzo da 25 punti, ma fra pochi mesi sarà costretta ad ammorbidire la stretta monetaria. Nel 2024 gli Usa voteranno il nuovo presidente, ed è praticamente impossibile che la banca centrale prosegua una politica restrittiva in un anno elettorale. Al contrario, Powell riceverà sicuramente pressioni politiche per avviare una fase espansiva, almeno da febbraio in poi. In ogni caso, le dichiarazioni raccolte al simposio non hanno influito sulle Borse, che hanno anzi chiuso la settimana in positivo.
Milano-Cortina, l'Olimpiade mutilata
Mancano ormai due anni e mezzo circa ai Giochi Olimpici Invernali di Milano-Cortina, che si apriranno allo stadio Meazza il 6 febbraio 2026. La kermesse a cinque cerchi è, però, in bilico fra opportunità e rischi. Se infatti il premier Giorgia Meloni li ha definiti una “grande occasione”, con un possibile impatto di 4,5 miliardi di euro sul prodotto interno lordo, il progetto iniziale in termini di infrastrutture e impianti è già stato modificato. Non per scelta, ma per necessità. A Milano, l'ex Palasharp di Lampugnano non sarà della partita: impossibile renderlo disponibile in tempo utile per l'accensione della fiamma. Il palazzetto, designato come sede dell'hockey femminile, sarà sostituito dai padiglioni 22 e 24 di Rho Fiera, che a loro volta erano subentrati a Baselga di Piné per ospitare il pattinaggio di velocità. Lo stop dell'ex Palasharp dipende soprattutto dalla crescita del prezzo dei materiali, che – anche a causa dell'emergenza bellica – è arrivato a +155%. Tra le infrastrutture (utilissime) che non si faranno, la nuova metrotramvia Rogoredo-Repetti e la superstrada veloce verso Chiavenna. Sembrerebbe invece sventata (il condizionale è d'obbligo) una figuraccia forse ancora più plateale: i ritardi nella costruzione dell'anello di bob, slittino e skeleton di Cortina d'Ampezzo. Fino a pochi giorni fa, sembrava che queste discipline dovessero migrare nella vicina Innsbruck, o addirittura a St Moritz, a causa della mancata partecipazione di concorrenti al bando d'asta; ora una trattativa d'emergenza potrebbe finalmente sbloccare i cantieri e aprirli entro settembre, mese limite per poter ancora sperare di veder sfrecciare bob e slittini a Cortina. L'intervento in extremis di Simico, società pubblica che cura le infrastrutture, dimostra ancora una volta che esiste un'Italia a più velocità, con la solita iperburocrazia che grava come una cappa sul Paese, rallentando qualsiasi progetto. Proprio per questo, nei lavori pubblici l'unico modello che funziona è, quello emergenziale, come è emerso anche dalla ricostruzione veloce del ponte San Giorgio di Genova, inaugurato in piena epoca Covid con un ritardo tutto sommato accettabile.
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Attacco hacker, quale impatto sui mercati?
L'aggressione informatica che ha coinvolto soprattutto alcuni paesi occidentali lo scorso fine settimana non ha influito sull'andamento delle Borse. Intanto, i listini hanno ancora una volta ignorato il rialzo dei tassi di Bce e Fed, mostrandosi più preoccupati per le tensioni Usa-Cina e per i dati “troppo” positivi del mercato del lavoro americano
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Il clamoroso attacco ransomware che si è palesato lo scorso 5 febbraio ha colpito migliaia di server in varie parti del mondo. Anche in Italia, ma – ha assicurato il governo – non sono state coinvolte né istituzioni, né imprese impegnate in settori critici per la sicurezza dello stato.
L’aggressione informatica, ha puntualizzato l'esecutivo in una nota, era emersa già lo scorso 3 febbraio ma era stata identificata dall'Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale “come ipoteticamente possibile fin dal febbraio 2021”; per questo motivo, la stessa Acn aveva invitato le organizzazioni sensibili a prendere le contromisure. Risultato: alcuni si sono premuniti, altri no. Questi ultimi, precisa la nota “oggi ne pagano le conseguenze”.
In un'analogia con l’ambito sanitario, ha proseguito la nota del governo, “è accaduto come se a febbraio 2021 un virus particolarmente aggressivo avesse iniziato a circolare, le autorità sanitarie avessero sollecitato le persone fragili a una opportuna prevenzione e a distanza di tempo siano emersi i danni alla salute per chi a quella prevenzione non avesse ottemperato”.
Nessun “cigno nero”
In sintesi, dunque, le patch per difendersi erano disponibili, ma non tutti le hanno installate. Che si tratti di sbadataggine o di miope tentativo di risparmiare, le conseguenze per queste organizzazioni saranno catastrofiche. Come ha affermato a Sky Tg24 Andrea Rigoni, partner di Deloitte per Difesa e Sicurezza, è ancora difficilissimo calcolare l'entità dei danni, anche perché varie imprese non hanno denunciato di essere state vittima dell'aggressione hacker. Secondo i dati in possesso del gruppo di consulenza, l'attacco potrebbe costare vari miliardi di euro.
Nel fine settimana si sono anche palesate preoccupazioni che il disastro informatico potesse trasformarsi in un “cigno nero” per i mercati internazionali. Tuttavia, le Borse hanno ignorato l'attacco hacker. I listini osservano le dinamiche dell'economia e l'andamento degli utili: potrebbero dunque risentirne “a scoppio ritardato” se i dati trimestrali dovessero evidenziare cali dovuti proprio al massiccio assalto ransomware. Fino ad allora i mercati proseguiranno con il loro dinamismo, in un semestre in cui le Borse hanno avuto un avvio mediamente positivo e sono capaci di assorbire notizie negative.
Ignorato il nuovo aumento dei tassi
Attualmente, a innervosire i mercati sono stati soltanto il caso del pallone-sonda cinese - che ha causato l'annullamento del viaggio del segretario di stato americano Anthony Blinken a Pechino e acuito le tensioni fra i due paesi – e i dati “troppo” positivi del lavoro Usa, con cui l'economia reale americana ha dato ancora una volta il “via libera” alla politica della Federal Reserve.
Per il resto, nessuna reazione. Neppure per l'aumento dei tassi da parte di Bce (altri 50 punti base, con replica a marzo) e Fed, né per le nuove esternazioni di Christine Lagarde, ancora una volta poco prudenti: la numero uno della Banca Centrale Europea ha affermato che neppure il mese prossimo arriveremo al picco di inflazione (preannunciando, quindi, nuovi ritocchi) e che da questo punto di vista c'è "tanta strada da fare".
Queste posizioni, oltre che rappresentare un cliché a cui siamo ormai abituati, sono anche imprecise. Si parla di un'inflazione oltre il 10%, ma quella tendenziale è già sotto il 4%. Le banche centrali – soprattutto la Bce – stanno compiendo gli stessi errori del 2008: il rialzo dei tassi deciso in contemporanea con vari segnali di rallentamento.
Discutibile anche la tempistica dell'operazione: se i ritocchi fossero stati decisi sei o sette mesi prima, l'inflazione sarebbe stata bloccata sul nascere e ora non saremmo a questo punto. Come al solito, a pagare il conto saranno famiglie e aziende: le banche centrali sono per definizione organi autoreferenziali, che non pagano mai per i loro errori strategici.
Timori dal petrolio
Intanto, il prezzo del gas sembra stabilizzato. Se le prossime bollette, come si spera, torneranno a livelli accettabili, potremo finalmente vedere una luce in fondo al tunnel. Anche se, ricordiamolo, la tariffa del metano è ancora due volte e mezzo più alta rispetto a quella del 2020.
A preoccupare e, invece, un possibile rimbalzo del petrolio. Una delle possibili cause del rincaro è il drammatico e catastrofico terremoto in Turchia e Siria, che tra le altre cose ha causato la sospensione di un oleodotto e dell'attività di un impianto petrolifero.
Potrebbe pesare anche l'entrata in vigore, lo scorso 5 febbraio, dell'embargo sui prodotti russi raffinati, che rischia di privarci di un milione di barili al giorno, soprattutto di diesel leggero. Anche se, molto probabilmente, almeno una parte del greggio di Mosca ci arriverà “per vie traverse” - cioè con l'intermediazione di paesi terzi e un conseguente rebranding.
A preoccupare maggiormente è la speculazione che rischia di svilupparsi a partire dall'embargo: approfittando della mancanza del calmiere russo, i gruppi specializzati nella raffinazione potrebbero ritoccare al rialzo i loro prezzi. Anzi: forse lo hanno già fatto.
Tutto questo mentre i produttori europei di automobili stanno iniziando a prepararsi per la scadenza del 2035, anno in cui il prezzo del petrolio non sarà più centrale per i trasporti pubblici e privati. Rispondono a questa esigenza i nuovi progetti per il rilancio dell'alleanza franco-giapponese tra Renault, Nissan e Mitsubishi. Le tre case automobilistiche stanno sviluppando un approccio comune all'innovazione ibrida e soprattutto elettrica. Obiettivo, tenere il passo dei cinesi, che attualmente hanno un vantaggio competitivo molto forte in questo ambito, e creare economie di scala per affrontare le nuove sfide della mobilità.
L'allungo di Meta
Dati positivi sono arrivati da Meta, i cui risultati del quarto trimestre hanno nettamente superato le attese. La società di Facebook ha archiviato il periodo con ricavi pari a 32,17 miliardi di dollari, contro i 31,6 previsti. Il dato si è aggiunto alla performance eccezionale che l'azienda di Marc Zuckerberg ha registrato da inizio anno, un +50% che fa di Meta uno dei migliori titoli tecnologici.
Occorrerà però capire se il momento d'oro del gruppo potrà durare. Il vero banco di prova saranno il primo trimestre e la semestrale di quest'anno. A porre un freno al recupero prodigioso dell'azienda potrebbe essere lo scetticismo sul progetto-metaverso, che dopo le fiammate iniziali sembra relegato un po' in second'ordine. Questa novità (che novità non è, dato che un progetto simile era esploso, e poi imploso, con Second Life) resta una scommessa. A questa sfida saranno legati i prossimi risultati delle aziende che ne hanno fatto uno dei core business.
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La folle corsa del gas
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Il prezzo del gas continua a salire vertiginosamente, inanellando record su record. Dopo il nuovo stop a Nord Stream, l'oro blu ha sfiorato quota 300 euro a megawattora, per poi attestarsi nell’intorno dei 270 euro.
Il rischio è ormai noto: se non si dovesse trovare una soluzione, l'economia europea potrebbe crollare, con scenari da incubo. Vale a dire: imprese che chiudono, forte aumento della disoccupazione e cittadini sull'orlo della povertà.
L’impatto delle sanzioni su Mosca
Per capire il trend è sufficiente esaminare la differenza tra le bollette di agosto 2021 e quelle attuali, che in alcuni casi arrivano a costare sei volte tanto. Finora, in Italia si è cercato di turare la falla con sconti sull'imposizione fiscale in bolletta, che sono costati circa 30 miliardi di euro, pari a 2 punti di Pil. E le nuove, inevitabili riduzioni per i prossimi mesi costeranno altrettanto.
La corsa del gas dimostra ancora una volta quanto i sei pacchetti di sanzioni introdotte dall'Ue contro la Russia abbiano avuto un impatto non del tutto atteso. Soprattutto in paesi come Germania e Italia, legati mani e piedi alle forniture di Mosca. Non è un caso che a Berlino l'asse pro-embargo inizi a incrinarsi; il liberale Wolfgang Kubicki, vicepresidente del Bundestag, ha proposto senza mezzi termini l'apertura del Nord Stream 2, la cui inaugurazione è stata bloccata su pressioni americane, per poter salvare l'economia tedesca. Una posizione singolare per un dirigente di un partito particolarmente severo nei confronti della Russia e della sua aggressione all'Ucraina.
Se la Germania invertisse la rotta, respirerebbe un po' anche l'economia italiana, già duramente colpita dallo stop ai commerci con Mosca. Solo le mancate esportazioni costano al nostro paese un punto di pil – e l'impatto potrebbe essere persino maggiore se non ci fossero le “triangolazioni”, cioè la presenza di alcuni paesi che accettano di fare da intermediari tra l'Italia e la Russia, permettendo alle aziende di aggirare l'embargo.
Le sanzioni – lo avevamo previsto fin da febbraio – non riescono a generare l’impatto atteso sull’economia russa, che finora, è stata colpita solo marginalmente in alcuni ambiti, ma favorita in modo massiccio in altri. Con un saldo positivo. Un esempio su tutti: Gazprom ha chiuso il 2021 con un utile netto pari a poco meno di 28 miliardi di euro, in forte crescita rispetto ai 2 miliardi dell’anno precedente – e prevede di raddoppiarlo con riferimento al 2022.
Non era questo l'obiettivo delle misure europee, ma un'eventualità simile era facilmente pronosticabile.
Il delisting cinese
La reazione occidentale ha anche compattato Russia e Cina, come ha ricordato in un'intervista Henry Kissinger. In particolare, l'ex segretario di stato americano – a suo tempo fautore della distensione con Mao - ha puntato il dito contro la politica miope dell'amministrazione a stelle e strisce, anche in relazione alle tensioni su Taiwan.
E proprio nel momento più critico delle relazioni tra Washington e Pechino arriva un annuncio: cinque colossi cinesi hanno deciso il delisting dal Nyse, che avverrà probabilmente il prossimo mese. La capitalizzazione di mercato di queste società è enorme: 370 miliardi di dollari, più della metà, ricordiamolo, di quella della Borsa di Milano.
Sullo sfondo c'è la proposta, avanzata lo scorso giugno, di una nuova moneta unica globale istituita dai Brics, che potrebbe essere istituita per rappresentare un'alternativa al dollaro statunitense negli scambi internazionali. Un'idea sul tappeto da molti anni, ma tornata alla ribalta con la crisi fra Stati Uniti, con l'occidente a ruota, e l'asse russo-cinese. Se le cinque potenze emergenti mettessero in atto questo proposito, in futuro gli stati occidentali vedrebbero ridimensionata l’efficacia di sanzioni come quelle inflitte all'economia russa.
Inflazione alle stelle
Mentre, è persino inutile ripeterlo, l’effetto boomerang di queste misure sta creando criticità sempre pià acute all'Europa, che grazie al caro-gas sta subendo impotente il galoppo dell'inflazione. A luglio 2022, il dato ha raggiunto l'9,8% per l'Ue (era 2,2% nello stesso periodo dell'anno precedente) e l’8,9% per l'eurozona. Percentuali che avrebbero potuto essere persino più elevate se il petrolio non avesse fermato la sua corsa, attestandosi su un più ragionevole prezzo di 90 dollari al barile.
Si prevede che l'inflazione continui a salire fino a gennaio, per poi stabilizzarsi. A meno che il caro-gas prosegua in questi termini, provocando la chiusura di molte aziende e la distruzione della florida economia europea.
Finora, a calmierare gli aumenti ci sono gli sconti decisi dal governo e le formule, offerte a suo tempo dai fornitori di energia, di gas bloccato per uno o più anni. A loro volta, queste società si coprono dai minori introiti con l'acquisto di contratti derivati sulla Borsa di Amsterdam, per assicurare il prezzo ai consumatori e alle aziende senza perdere profitto.
Borse, tornano le difficoltà
Il pessimismo sull'inflazione e il timore di un nuovo rialzo dei tassi hanno influito anche sui mercati. Le Borse hanno esaurito la loro spinta propulsiva che durava da luglio. Milano, in particolare, ha raggiunto i minimi del mese.
Lo stop è meno preoccupante per i mercati americani, che erano rimbalzati molto, portando l’indice S&P500 a dimezzare le perdite annue. Per gli indici made in Usa si tratta, finora, di una normale fase di trading range – in attesa, naturalmente, di capire le reazioni al delisting cinese.
Situazione diversa, invece, per l'Europa, il cui rimbalzo si era dimostrato di minore portata. Il nostro continente è sotto la doppia minaccia della recessione e dell'esplosione dei costi industriali, che hanno rallentato la fase positiva. Proprio lo scenario a tinte fosche per il prossimo inverno ha colpito, in particolare, i titoli industriali tedeschi, e ha messo sotto pressione quelli finanziari italiani.
Attenti allo spread
Le sfide del prossimo ottobre sembrano preoccupare tutti. Quasi tutti. Perché la campagna elettorale continua a concentrarsi su temi di vario tipo, senza però sfiorare quelli più importanti: la crisi del gas e l'inflazione galoppante.
Nessuno parla, perché tutti i politici in competizione hanno paura di aprire il sipario e mostrare agli elettori uno spettro che aleggia sul paese: l'ingresso della troika in Italia, che potrebbe ridimensionare la capacità di movimento dello schieramento vincitore alla prossima tornata elettorale.
Ora lo spread è salito a 230, e lo scudo europeo non è una protezione incondizionata. Lo ha ricordato anche Joachim Nagel, presidente della Bundesbank, sottolineando che questo meccanismo non è automatico, che ci sono condizioni da rispettare. Il timore diffuso è che il prossimo governo, qualunque esso sia, non possa evitare di confrontarsi con i paletti posti nel suo cammino da regole europee e banchieri centrali. E di varare misure impopolari per aziende e famiglie italiane.
Certo è che, qualunque cosa accada, la finanziaria del prossimo esecutivo non potrà essere troppo diversa da quella varata dal governo uscente.
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Gas, nulla di deciso sul taglio del prezzo
L'Europa ha provato a stabilire un tetto al prezzo del gas, ma invano: in aggiunta alle difficoltà tecniche di una misura così complessa, ancora una volta gli interessi particolari si sono dimostrati troppo forti. Intanto, la richiesta russa di saldare i conti in rubli ha creato difficoltà all'Occidente, che annaspa alla ricerca di alternative.
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Dopo il taglio delle accise da parte del governo italiano anche l'Europa ha provato a fare qualcosa, cercando di trovare un accordo per stabilire un tetto al prezzo del gas. Ma finora le trattative non hanno portato risultati. E non c'è troppo da stupirsi.
Il motivo è semplice: una parte del rincaro è imputabile al prezzo che si forma a Chicago, mentre tutto il resto – lo avevamo già sottolineato nell’articolo della scorsa settimana – è prodotto in Olanda, al Title Transfer Facility di Amsterdam.
E qual è il paese che più si è opposto a fissare un tetto al prezzo del gas? Avete indovinato: proprio l'Olanda, preoccupata di non ledere interessi economici nazionali.
Come al solito, si è dovuto osservare che in sede europea non esiste una grande solidarietà e neanche una leadership chiara: la Germania, interessata come e più dell'Italia a porre un limite al caro-gas, non è riuscita a imporsi, nonostante il sostegno di vari paesi.
Una volta tanto sono state le istituzioni italiane a indicare la via possibile: il taglio (provvisorio) delle accise ha abbassato il prezzo della benzina alla pompa, rimarginando l'allarme rosso per cittadini e imprese. Il decreto è persino stato in grado di invertire un fenomeno storico: ora sono gli svizzeri a sconfinare in Italia per rifornirsi – un'eventualità che solo pochi giorni fa sarebbe stata definita fantascientifica.
Ancora una volta è evidente quanto sia corretta la teoria di Laffer, secondo cui la tassazione, quando supera un certo livello, distrugge reddito e diminuisce il gettito fiscale. Ne è la dimostrazione la tassa introdotta da Monti sui porti, che a suo tempo ha devastato un settore, influendo negativamente anche sulle entrate. Mentre, d'altra parte, l'Irlanda ha scelto la detassazione per uscire dalla crisi. E lo ha fatto in scioltezza.
La chimera del gas liquefatto
Se il costo della benzina è tornato a livelli accettabili (per il taglio delle accise, ma anche per il calo del prezzo del petrolio, dopo il lockdown di Shanghai), la questione-gas è dunque più che mai aperta. Anzi: il quadro peggiora dopo la richiesta, avanzata da Mosca, di saldare i conti in rubli - una proposta che gli europei hanno rinviato al mittente.
Difficile intravedere se questo problema porterà una rottura – complicato anche comprenderne i motivi, dato che la mossa russa non ha apparentemente impatti di tipo monetario, a parte un temporaneo rimbalzo del rublo.
Forse il tentativo punta a scongiurare nuove sanzioni sul lato Swift, o riattivare le attività bancarie sotto embargo.
Non è facile, comunque, prevedere se la nuova querelle troverà risoluzione. Certo è che una rottura definitiva porterebbe alla luce il problema della sostituzione del gas russo (che peraltro sta pompando regolarmente in Europa occidentale) con rifornimenti da altri paesi. Un'operazione che ha del proibitivo.
Prima di tutto perché le alternative – Azerbaijan, Qatar, Algeria, Turchia, Arabia Saudita – non sono così attraenti considerandone lo Stato di diritto.
E poi perché il possibile acquisto di gas liquefatto dagli Stati Uniti sa molto di presa in giro. Per attivare questo nuovo meccanismo e portarlo a soddisfare il fabbisogno europeo, infatti, non ci vorrebbero mesi, ma anni. Oltre a ciò, il gas a stelle e strisce coprirebbe non più del 10% delle necessità odierne e dovrebbe essere stoccato in apposite piattaforme. Che non sono pronte.
In più, gli Stati Uniti sono autosufficienti in termini di produzione energetica e alle loro aziende e famiglie oggi il gas costa 15 euro/Mwh contro i 100 che si pagano in Europa in questo momento.
Per non parlare della pericolosità dell'operazione: il gas viaggerebbe su navi e basterebbe una scintilla per provocare un disastro.
Quel default impossibile
Tutto questo mentre l'idea dominante del mondo occidentale è portare al limite del default la Russia – impresa quasi impossibile, dato che Mosca incassa fra i 30 e i 40 miliardi al mese per la vendita di gas e petrolio, è leader nell'esportazione di palladio e nichel e ha varie alternative in caso di disimpegno occidentale, oltre che un debito gestibile verso l'estero. Senza trascurare un dato storico: nessun embargo ha mai fatto fallire un paese – né Cuba, né l’Iran, né il Venezuela, eccetera.
Insomma: alla fine il conto non lo pagherebbe il Cremlino, ma l'Europa. E neppure tutta, dato che qualche azienda inizia a fare distinguo e non ne vuole sapere di lasciare il mercato russo.
Proteggersi con le azioni
La situazione contiene un paradosso: i mercati, nonostante tutto, hanno trovato una certa stabilità. Anche se è pur vero che siamo alla chiusura del trimestre – periodo in cui, nei periodi difficili,si tendono ad abbellire i conti e a non accentuare le perdite.
Occorre anche ricordare che siamo in un forte contesto inflattivo; quando i rendimenti reali nei confronti dell'inflazione sono negativi, anche i prezzi delle azioni tendono ad apprezzarsi. Quindi, in un momento in cui tutte le asset class hanno perso terreno da inizio anno, non è errato evidenziare come un po’ di protezione possa essere fornita proprio dall'azionario. E, entro fine anno, ci si può aspettare una stabilizzazione, seguita da un recupero che riporti indici in parità, o quasi.
Difficile, però, suggerire quando entrare sul mercato. È consigliabile frazionare nel tempo gli investimenti oppure aspettare un po', dato che il secondo trimestre potrebbe iniziare con una certa sofferenza: occorrerà attendere le prime trimestrali (che tradizionalmente sono diffuse dalle società finanziarie americane) per averne una conferma.
Per il rilancio potremmo dover aspettare, ma non molto: è sperabile aspettarsi un maggio all'insegna del recupero e del contenimento della volatilità.
Una Macedonia molto cara
In un'epoca di crisi economica e finanziaria si è innestata l'eliminazione della nazionale italiana dai prossimi Mondiali di calcio a opera della modesta Macedonia del Nord, poi regolarmente fermata dal Portogallo. Oltre alla débâcle sportiva, si sono sottolineati gli impatti che la mancata partecipazione al massimo torneo calcistico avrà sull'indotto-calcio, che copre qualche punto di pil: a soffrirne saranno soprattutto bar, ristoranti e settore food già colpiti da Covid e caro-energia.
Qualcuno ha anche ricordato che i paesi vincitori dei Mondiali innescano un aumento medio degli indici pari al 3% circa. Dimenticando, però, che l'impulso positivo si applica a chi si aggiudica la vittoria finale, non a tutte le 32 squadre che semplicemente partecipano.
L'impatto dell'eliminazione sull'economia ci sarà, sia chiaro, ma sarà minore rispetto a quanto si dica. Anche perché i Mondiali 2022 si svolgeranno nell'inedito periodo di novembre-dicembre, stagione in cui la gente esce meno di casa rispetto alla tradizionale collocazione estiva.




