Acque tranquille in Borsa
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Questa regoletta, che ci porta ai primi anni di scuola, potrebbe più o meno adattarsi al momento attuale delle Borse europee, che da un po’ di tempo procedono all’insegna del trading range e della rotazione settoriale. Vale a dire: su un comparto, giù un altro e il risultato non cambia (come da proprietà commutativa – vi ricordavate questa definizione?). O almeno cambia poco, in funzione dei titoli che compongono il listino. Un esempio su tutti: il settore bancario, che aveva sottoperformato nei 15 giorni precedenti, è stato protagonista di una buona performance la scorsa settimana. Questo ha spinto moderatamente in alto le Borse, specialmente quelle in cui il banking è particolarmente presente, senza però intaccare la sostanziale stabilità degli indici. Poi, il comparto ha rifiatato, portando invece in alto comparti diversi e indebolendo un po’ l’inizio settimana dei listini. Un “su e giù” che, appunto, sa molto di stabilità: dopo tre anni di rialzo e nove mesi di buone prestazioni, un po’ di mare calmo è assolutamente fisiologico.
Nvidia… fa invidia
A Wall Street, a sostenere i listini sono invece i tecnologici, soprattutto Nvidia, reduce dalla maxi-operazione con Intel. Alcuni sostengono che il gruppo di semiconduttori sia ancora all’inizio: la sua capitalizzazione è titanica – 4.000 miliardi di dollari, 25% superiore al pil italiano e oltre il 13% di quello americano. Il quadro sembra suggerire che la crescita non possa che andare avanti. Ma a una condizione: che la valutazione in progressione geometrica sia supportata dagli utili.
Tre incognite
Una calma fisiologica, quella delle Borse, o la quiete prima della tempesta? Dipenderà dal comportamento della Federal Reserve (non troppo), dai dazi (poco) e dalla situazione geopolitica (molto). Sfide molto importanti, che finora le Borse hanno vinto, dimostrandosi vaccinate contro eventi avversi. Per quanto riguarda la Fed, i mercati hanno già scontato il prossimo taglio, mentre un altro intervento entro fine anno (tutt’altro che certo) sarebbe abbastanza ininfluente. Discorso diverso sono le proiezioni sul 2026, su cui le opinioni sono discordanti: si passa dalla previsione di due o tre nuove sforbiciate all’ipotesi di una sostanziale stabilità del tasso guida,
La Bns resta a zero
Chi invece ha tenuto le bocce ferme è la Banca Nazionale Svizzera. Che però aveva già raggiunto lo 0,0%: la decisione di non muoversi significa evitare lo scivolamento in territorio negativo. Con le difficili decisioni sul costo del denaro, la Bns cerca di fermare la corsa del franco, che prosegue a marciare a passi da gigante. Influisce il ruolo di bene rifugio che, in tempo di crisi geopolitica mondiale e difficoltà economiche di “colossi” come Germania e Francia, ricopre la valuta confederata. Stessa logica per i continui record dell’oro, favoriti dal blocco dei patrimoni russi e dalla minaccia occidentale di utilizzare il denaro sotto sequestro. Il petrolio resta invece fermo sotto i 70 dollari al barile, in “zona Trump” – vale a dire in una fascia bassa di prezzo bene accetta dal presidente degli Stati Uniti e non sgradita a India, Cina e a vari Paesi Opec+ (Russia esclusa).
Soia, la Cina cambia fornitore
Da un po’ di tempo, le notizie sulle conseguenze dei dazi americani passano sotto traccia. Non ha dunque ricevuto molta attenzione l’ennesimo appello della Cina agli Stati Uniti di cancellare quelle tariffe definite “irragionevoli” da Pechino, rilanciando invece gli scambi fra i due colossi. La Cina è anche passata al contrattacco, bloccando gli approvvigionamenti di soia dagli Stati Uniti, per acquistarla invece in Brasile, Argentina e in altri mercati sudamericani. Un bel problema per lo Zio Sam, dato che la Cina è il maggior importatore di soia al mondo e che la prosecuzione di questa politica rischierebbe di creare problemi per l’agricoltura americana. Il nuovo “duello della soia” potrebbe dare fastidio all’economia reale, ma difficilmente influirà sulle Borse, che sembrano aver già archiviato il capitolo dazi e le sue conseguenze. A meno che avvenga qualcosa di davvero importante.
Timori dalle guerre
Se l’onda lunga delle tariffe difficilmente potrà scuotere le Borse, i problemi geopolitici rappresentano forse il maggior rischio per la tenuta dei mercati. Perché se è vero che gli indici hanno “digerito” gli avvenimenti accaduti in questi ultimi mesi, non è detto che lo possano fare pienamente anche in futuro. Le crisi in atto a Gaza e in Medio Oriente e quelle relative alla guerra russo-ucraina con i suoi de cuius (il caso-droni e gli sconfinamenti di aerei in Polonia) potrebbero, alla lunga, buttare pessimismo tra gli investitori e mettere a dura prova la proverbiale forza delle Borse, che finora le ha protette.
It’s time for Africa
Si sono da poco conclusi con il poderoso assolo del “solito” Tadej Pogačar i campionati del mondo di ciclismo su strada, che per la prima volta nella storia si sono corsi nel continente africano, più precisamente a Kigali (Ruanda). La rassegna iridata si è dimostrata un successo, sia per la qualità delle strade, sia per la partecipazione record dei cittadini locali alle gesta dei corridori sui “muri” in pavé ispirati agli ex colonizzatori belgi. Lo sbarco della carovana in Africa ha motivazioni chiare. Di tipo sportivo (lanciare il ciclismo nel continente e atleti locali – mai se n’erano visti così tanti alla partenza), ma non solo. Alla base della designazione ci sono anche – e forse soprattutto – ragioni di tipo economico: l’Africa sta vivendo un ottimo momento, caratterizzato da uno sviluppo imprevisto, e marcia a una velocità maggiore rispetto all’Asia, impostando un graduale piano di recupero. Nonostante le molte persone sotto la soglia di povertà, le condizioni di vita stanno gradualmente migliorando, facendo sperare nell’inserimento di un nuovo player nella competizione dell’economia mondiale. Certo. Ma perché proprio il Ruanda? Probabilmente per l’interessante tasso di crescita, che ha portato l’economia locale a un +8,9% nel 2024 (con un+7% previsto alla fine di quest’anno) e il Pil al +9% (con un balzo in avanti di servizi, agricoltura e industria). Sicuramente ha pesato anche l’abbondanza di terre rare, che fa di Kigali un leader nell’estrazione di tantalio. Inoltre, il Ruanda si sta lanciando come destinazione turistica – a dimostrarlo, i molti cartelloni pubblicitari a bordo strada che invitavano a visitare il Paese. Possono aver pesato nella scelta dell’Uci anche le garanzie di sicurezza che il Paese sembra aver conquistato, 30 anni dopo una delle guerre più sanguinose mai combattute nella storia. Sicurezza, abbiamo detto, ma con un rovescio della medaglia: la leadership ruandese è accusata di violazioni dei diritti umani, e questo pone il Paese fra gli ultimi nella classifica del World Press Freedom Index. La situazione ha indotto varie associazioni per i diritti umani a definire la kermesse iridata di Kigali come l’ennesimo episodio di sportswashing. E’ anche vero, però, che puntare i riflettori su un Paese con gravi problemi relativi ai diritti umani può smuovere le acque e contribuire – insieme alla crescita economica – a un cammino verso il miglioramento delle garanzie di libertà personale ed equità fra le varie etnie presenti sul territorio.
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Borse, faro su debito francese e dazi
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Il debito pubblico francese e i dazi americani sono ancora protagonisti nella cronaca economica di questi giorni e influenzano l’andamento delle Borse. Proprio mentre Russia, Cina e India, al vertice di Tianjin tra i leader dello Sco, rinsaldano la loro alleanza economica, che mina le certezze dell’Occidente sulla propria centralità nel contesto mondiale e lancia un modello multipolare.
Bayrou in bilico
A Parigi è partito il conto alla rovescia per il voto di fiducia, che il prossimo 8 settembre deciderà le sorti del governo Bayrou. Se l’esecutivo dovesse incassare la fiducia – al momento molto difficile, data la posizione dei socialisti – sarebbe introdotta una manovra finanziaria da 44mila miliardi, con un aumento delle tasse e tagli a spesa pubblica e pensioni. Una riforma difficile da digerire per i cittadini e foriera di possibili proteste di piazza. Che sono già in calendario, dato che il 10 dicembre il collettivo popolare Bloquons tout ha proclamato uno sciopero generale, con l’obiettivo di fermare il Paese. Nel caso in cui invece il governo dovesse cadere, tornerà tutto nelle mani del presidente Emmanuel Macron, ormai inviso alla maggior parte dei francesi. La caduta di Bayrou implicherebbe la mancata approvazione delle riforme: in questo caso, il rischio di vedere la troika a Parigi non sarebbe così eccessivo come è apparso finora.
La posizione di Christine Lagarde
Sui pericoli corsi dalla Francia, Christine Lagarde ha buttato acqua sul fuoco. Il sistema bancario transalpino, ha detto la presidente della Bce, “non è una fonte di rischio; è in una situazione migliore di quella in cui si trovava nella crisi del 2008. Stiamo tenendo sotto controllo con attenzione lo spread dei titoli francesi con quelli del resto d’Europa”. In quanto alla possibile bocciatura del governo Bayrou, Christine Lagarde ha affermato che “tutti i rischi di caduta di governo in tutti i Paesi della zona euro sono preoccupanti”. Tuttavia, ha proseguito, “la Francia non è attualmente in una situazione che richiede l’intervento del Fondo monetario internazionale, ma la disciplina fiscale deve essere imperativa”.
La “scommessa” di Macron
Resta però ben chiaro che oggi Parigi non è in grado di ripagare il proprio debito pubblico, che oggi ha raggiunto il 114% del pil. Una situazione che rischia di trasformarsi in un bubbone in grado di travolgere l’Ue e l’euro. E che, nel caso peggiore, potrebbe essere affrontata solo con un whatever it takes di draghiana memoria, per scongiurare un effetto domino. Se la crisi politica dipende in gran parte dalla “scommessa” dell’Eliseo – che ha proclamato le elezioni anticipate del 2024, innescando una prevedibile instabilità – la situazione economica ha radici molto più lontane. I problemi del debito d’Oltralpe erano noti da anni, ma per molto tempo sono stati nascosti sotto il tappeto. Oggi, lo spread fra i buoni del tesoro italiani e francesi è ormai abbastanza simile, anche se ancora molto contenuto. I Btp hanno comunque compiuto un passo da gigante, dal 7% del 2011 a meno dell’1%. I valori ormai simili mostrano che il debito pubblico francese è considerato come quello italiano. In un quadro, però, in cui Parigi è in continuo peggioramento, come evidenziato anche dagli allarmi di Bayrou. La Borsa di Parigi è, da parte sua, la più zoppicante d’Europa: da inizio anno rende tra il 17% e il 20% in meno degli indici tedesco e italiano.
Tariffe doganali a rischio
Le Borse seguono con molta attenzione anche la telenovela-dazi, che si è arricchita di un nuovo capitolo. Una corte d’appello federale ha infatti sentenziato che gran parte delle tariffe doganali imposte da Donald Trump sono illegali. In effetti, il presidente americano ha esautorato il Congresso, avvalendosi di una legge speciale che, però, è riservata alle emergenze (ed è difficile, evidentemente, spacciare normali dinamiche commerciali per un allarme rosso). Il tribunale d’appello ha comunque deciso che la sua sentenza sarà valida dal 14 ottobre, per consentire alla Corte Suprema di pronunciarsi e mettere finalmente una parola definitiva sull’intera questione. Vari commentatori scommettono che la Scotus dia ragione a Trump, per la presenza al suo interno di una maggioranza conservatrice. Ma questo non è detto. Un po’ perché una convinzione di questo tipo getterebbe ombra sull’indipendenza dei giudici. E un po’ perché i membri della Corte Suprema hanno già contraddetto Trump su questioni di tipo economico. Se i giurati dovessero confermare lo stop ai dazi, si innescherebbe però un rischio di ricorsi delle varie aziende penalizzate in questi mesi dalle tariffe. A meno che riescano a trovare la formula per resettare tutto e tornare alla situazione pre-2 aprile a decorrere dal momento della sentenza.
I Brics sfidano l’Occidente
Le scadenze di questi due mesi rendono interlocutorio il periodo delle Borse, in un mese, come settembre, che di solito è difficile per gli indici. Una crisi del governo Bayrou potrebbe aggiungere tensione, ma un eventuale annullamento dei dazi avrebbe la possibilità di dare un po’ di fiato ai listini, anche se finirebbe di creare incertezza politica.
Per la verità, Trump dovrebbe comunque preoccuparsi maggiormente dei nuovi legami tra Russia, Cina e India piuttosto che di una sentenza sfavorevole della Corte Suprema. Paesi che una volta erano nemici tra di loro stanno rinsaldando un’alleanza economica, che rende meno impattanti le sanzioni e la centralità dell’Occidente, degli Usa e del dollaro. La strada verso i negoziati bilaterali Putin-Zelensky e la pace sul fronte russo-ucraino – che era vista dall’inquilino della Casabianca come una leva per sottrarre Mosca dall’abbraccio con Pechino – si è fatta ardua e piena di ostacoli. Mentre, d’altro canto, le storiche inimicizie tra India e Cina sembrano sparire. In particolare, i dazi non hanno bloccato Delhi che, come ha riconosciuto lo stesso Trump, “acquista la maggior parte del suo petrolio e dei suoi prodotti militari dalla Russia, molto poco dagli Stati Uniti”.
Piazza Affari e il risiko
La Borsa di Milano potrebbe dimostrare più resistenza rispetto ad altri listini europei, anche per il rilancio di Mps su Mediobanca: Siena ha alzato il premio per gli aderenti alla sua offerta, aggiungendo una componente cash di 0,90 euro ad azione. Per il resto, non ci sono grossi spunti da segnalare. Il mercato ha la possibilità di rimanere tonico almeno fino a metà ottobre. Ciò suggerisce una strategia di mantenimento; nel caso in cui affiorassero segnali di cedimento, sarebbe però utile alleggerire il portafoglio e portare a casa gli utili prima che sopraggiunga uno storno importante.
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Le Borse ignorano ancora le tariffe di Trump. Ma fino a quando?
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Il 1 agosto si avvicina e Donald Trump conferma i dazi del 30% per le merci provenienti dall’Unione Europea e dal Messico. Il presidente degli Stati Uniti, nello stesso tempo, minaccia nuove tariffe: il Congresso sta discutendo un disegno di legge che introdurrebbe dazi secondari fino al 500% contro chi acquista dalla Russia gas, petrolio e uranio; Trump ha annunciato l’appoggio alla misura, ma solo se gli sarà assicurata “flessibilità”. Il presidente, infatti, non vuole avere le “mani legate” nelle trattative con Mosca, mantenendo la “porta aperta” ai negoziati. Inoltre, ha minacciato l’inquilino della Casa Bianca, se la Russia non raggiungerà un accordo con l’Ucraina entro 50 giorni, chi commercia con Mosca sarà oggetto di dazi secondari al 100%. Le nuove misure colpirebbero molti Paesi, ma sarebbero rivolte soprattutto alla Cina e agli altri Brics. Trump, come detto, vuole però tenersi aperta una via di trattativa. Con la Russia. Ma, ça va sans dire, anche e soprattutto con Pechino, con cui Washington sta già trattando sul futuro dei dazi reciproci fra le due potenze, con colloqui a più livelli.
L’Europa protesta
E l’Europa? Esprime la sua delusione per il ritorno alla casella di partenza, lamentando che le trattative con gli Stati Uniti erano in atto e sembravano anche a buon punto. Maroš Šefčovič, commissario Ue per il Commercio, la Sicurezza economica, le Relazioni interistituzionali e la Trasparenza, ha detto chiaro e tondo che dopo cento ore di colloqui personali con gli americani e altre trattative a cui ha partecipato il suo team, le due delegazioni erano vicine a un accordo. Fino a quando Trump ha fatto saltare il banco. Per l’Ue, ha detto, Šefčovič, i dazi del 30% sono inaccettabili: se un accordo non sarà trovato, l’Unione sarà costretta a introdurre il suo bazooka, cioè misure di compensazione per circa 90 miliardi di euro. Si rischia una guerra commerciale, rinfocolata non solo dalle parole e dalle azioni aggressive di Trump, ma anche dai suoi toni, di molto sopra le righe. Il leader Usa sembra sottovalutare un rischio molto forte per l’economia americana, che in caso di dazi sarebbe colpita da impatti negativi, se non devastanti. A perderci sarebbero consumatori (leggi: elettori) e aziende statunitensi, con le facili conseguenze del caso.
Boe: “il protezionismo indebolisce il dollaro”
Non solo: come ha osservato il rapporto semestrale della Banca d’Inghilterra sulla stabilità del sistema finanziario, una conferma delle tariffe porterà il dollaro a indebolirsi ulteriormente. Trump, come si usa dire, sta tirando la corda, ma la sua amministrazione è sicuramente consapevole dei gravi rischi di questa politica per l’economia americana. Per questo motivo, si prevede che le “sparate” del presidente Usa rimarranno tali, e che il punto di caduta con l’Unione Europea sarà probabilmente al 10%, come nel caso dei rapporti commerciali Usa-Gran Bretagna. Se dovessimo arrivare a questo risultato, sarà sicuramente per una svolta di Trump – ormai compulsivo nell’annunciare una misura e smentirla a breve termine – più che per l’inesistente forza negoziale dell’Europa, che ha ceduto su tutta la linea agli americani sulla Digital tax, senza peraltro ottenere nulla in cambio. L’Ue, in altre parole, non cessa di dimostrare la sua inconsistenza: se il mercato unico funzionasse, i Paesi dell’Unione potrebbero anche scegliere di compattarsi e diminuire la loro presenza sul mercato americano, commerciando di più tra loro e aprendo nuovi canali con i Brics. Invece, ogni Stato membro va per la sua strada e i risultati si vedono.
Le Borse fanno ancora spallucce
Se molti investitori di tutto il mondo lasciano il dollaro perché non lo considerano sicuro come una volta, le Borse, soprattutto in Europa, rispondono alla nuova offensiva trumpiana con l’ormai usuale reazione: una moderata debolezza iniziale e un tranquillo recupero. La forza dei mercati è a suo modo sorprendente, come la scarsissima volatilità evidenziata dagli indici. Lo abbiamo ricordato più volte: dopo il tonfo dello scorso 2 aprile e il graduale recupero, le Borse hanno preso le misure e sembrano ignorare le devastanti sollecitazioni provenienti dall’amministrazione americana. Vedremo ora che cosa succederà il 1 agosto. Se un buon esito delle trattative eviterà una guerra commerciale – grazie a un ulteriore rinvio o al raggiungimento di accordi, anche provvisori – i listini non potranno che goderne. Nello sventurato caso in cui i dazi al 30% entrassero davvero in vigore, invece, i mercati rischierebbero due contraccolpi: uno diretto (a causa di uno stress degli indici dovuto alla definitiva introduzione delle misure tariffarie) e uno indiretto, proveniente dai primi effetti della telenovela-dazi sugli utili delle aziende quotate. Questo rischio è il più pericoloso: il calo degli indici, che le Borse “vaccinate” hanno tenuto a lungo fuori della porta, rischierebbe di rientrare dalla finestra, con la dinamica “i dazi abbassano gli utili; il calo degli utili provoca uno storno dei titoli in Borsa”. Trump afferma che gli Stati Uniti stanno guadagnando miliardi di dollari ogni giorno, ma che senso ha questo balzo in avanti se il denaro che entra viene poi perso per le contrazioni economiche causate dal protezionismo? Questi pericoli dovrebbero offrire ancora più motivazioni a Trump per fermare il giochino degli annunci e dei contro-annunci e iniziare ad affrontare in modo sistematico i vari nodi dell’economia americana e della politica interna ed estera statunitensi.
Il risiko tiene banco
Come detto, Piazza Affari, come gli altri mercati, ha praticamente ignorato il nuovo capitolo della soap opera dei dazi. Ma non si è mostrata indifferente alla settimana importante del risiko bancario. In primo luogo, il Tar del Lazio ha accolto le istanze di Unicredit, che considerava illegittimo il golden power sull’ops Banco Bpm. Tutto ciò mentre l’Ue ha espresso dubbi sulla luce rossa del governo italiano, che “potrebbe costituire una violazione” del diritto europeo. Poi, Crédit Agricole ha comunicato di aver chiesto il via libera alla Bce per salire oltre il 20% nell’azionariato Banco Bpm. La contendibilità di Piazza Meda è stata premiata con un rimbalzo del titolo dopo la sentenza del Tar. Ora Andrea Orcel dovrà decidere se riprendere l’attacco a Banco Bpm o lasciare un dossier su cui Unicredit rischia letteralmente di incartarsi. E’ invece riuscita l’offerta Biper sulla Popolare di Sondrio, anche se con circa il 58% delle adesioni e reazioni contrastanti, soprattutto in Valtellina. Continua infine l’opposizione di Mediobanca all’offerta Mps, che rende la complessa partita del risiko ancora imprevedibile.
Fondi di coesione, allarme per le regioni
Un nuovo allarme rosso scuote l’economia italiana. La Commissione Ue, fresca di voto di fiducia al Parlamento Europeo, sta pensando di riformare la gestione dei fondi di coesione, che sarebbero trasferiti non più alle regioni, ma direttamente allo Stato. L’operazione priverebbe la Lombardia di 4,4 miliardi di euro e costituirebbe un rischio per i benefici provenienti dalla gestione diretta delle risorse. La situazione rischia di peggiorare ulteriormente (e drammaticamente) per un’altra trovata dell’esecutivo di Ursula von der Leyen: tagliare gli stessi fondi di coesione del 30% per destinare questa percentuale al bilancio comunitario per la difesa. Se questa operazione andasse in porto, si rischierebbero conseguenze imprevedibili per l’intera gestione dei territori in Europa.
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Dazi: altro giro, altro “regalo”. Reazione moderata dalle Borse
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Ancora i dazi al centro dell’attenzione. Donald Trump ha scritto a 14 Paesi di tutto il mondo altrettante lettere per tracciare i contorni delle tariffe doganali annunciate per il 9 luglio, allo scadere cioè dei 90 giorni di sospensione decisi nei confronti di vari Stati. L’entrata in vigore dei balzelli contro i membri Ue è stata posticipata al 1 agosto, in omaggio a una dinamica di annunci e rinvii che abbiamo imparato a conoscere.
Niente panico
L’ennesimo capitolo della telenovela-dazi ha costretto le Borse, soprattutto quelle americane, a ripiegare, ma non eccessivamente. L’altrettanto consueto rinvio ha poi portato reazioni miste. Nulla di clamoroso, dunque: dopo il grande calo di inizio aprile e il recupero quasi completo delle posizioni precedenti ora le Borse sembrano essersi abituate ai vari salti in avanti e passi indietro di Trump, e reagiscono moderatamente agli stimoli negativi. E’ la classica reazione che si verifica quando si assiste a frequenti allarmi “Al lupo! Al lupo!”. Sperando, naturalmente, che il lupo non arrivi davvero. I mercati hanno imparato a concentrarsi più sui numeri che sulla schizofrenia, alimentata da alcuni titoli di giornali che, però, non spaventano più la maggior parte degli investitori. Preoccupa maggiormente la svalutazione del dollaro, che da inizio anno ha perso il 15%: un biglietto verde debole introduce un dazio de facto, che non fa bene alle aziende europee.
Wall Street rifiata
Le Borse americane hanno sofferto un po’ di più, ma sono state influenzate maggiormente dalla necessità fisiologica di fermarsi dopo la corsa travolgente degli ultimi 15 giorni, che ha riequilibrato il gap con i mercati europei, protagonisti di una sovraperformance nei primi sei mesi dell’anno. Non tutti gli investitori in Wall Street, però, hanno potuto approfittare di questo picco: si è infatti verificata una grande dispersione dei rendimenti, con alcuni settori che hanno evidenziato prestazioni molto deludenti (dallo “zero virgola” all’1,5%) e altri che hanno sfiorato le due cifre.
Dazi cinesi
Se gli indici hanno reagito moderatamente agli stimoli negativi dei dazi, non è così per l’economia, su cui le percentuali in vigore (e, come detto, il calo del dollaro) impattano in maniera molto pesante. Il settore del commercio è sicuramente spaventato anche dalle tariffe annunciate a sorpresa dai cinesi su grappe e brandy europei (che in pratica rispondono ai dazi Ue sulle auto elettriche). Le aziende del vecchio continente, inoltre, non potranno fornire dispositivi medici del governo di Pechino – decisione, quest’ultima, che controbilancia una misura simile già introdotta da Bruxelles.
Se c’è una cosa che occorre evitare è una guerra commerciale con la Cina. Anche perché la leadership di Pechino, diversamente da Trump, non è abituata ad annunciare misure per poi revocarle.
Mossa anti-Brics
A proposito di Cina, il presidente americano ha anche minacciato di applicare tariffe doganali supplementari del 10% ai Brics e a chi ne sostiene le politiche, puntualizzando che non ci sarà alcuna eccezione. Una mossa che, se attuata, potrebbe avere un impatto forte sull’economia mondiale, come hanno sottolineato i Paesi che potrebbero essere colpiti da questo nuovo balzello: i Brics rappresentano il 40% della produzione e la metà della popolazione del pianeta. Quali le ragioni di un affondo così significativo nei confronti dell’altra metà del mondo? Le ragioni principali sembrano due. Da un lato, agli Stati Uniti fa paura la dedollarizzazione che, soprattutto dopo le sanzioni alla Russia, i Brics hanno intrapreso, mettendo in discussione l’equilibrio di Bretton Woods. D’altro canto, Trump non vede tradizionalmente di buon occhio la delocalizzazione, che ha favorito il trasferimento della produzione oltre confine, con costi molto inferiori rispetto a quelli occidentali e la conseguente deindustrializzazione. Non per niente, il primo Trump aveva cercato di porre rimedio cercando di reimportare le produzioni strategiche, soprattutto nella tecnologia. Il sogno di un Occidente in grado di riprendersi l’industria, però, è poco più che un’utopia. Poniamo il caso di Apple: se la multinazionale di Cupertino dovesse portare nuovamente la produzione negli Stati Uniti, il prezzo al consumatore raddoppierebbe. Con un aumento molto forte dell’inflazione.
Le tariffe fermano il taglio dei tassi
I dazi di Trump hanno anche fermato i programmati tagli dei tassi da parte della Federal Reserve. Lo ha detto senza peli sulla lingua il presidente Fed Jerome Powell nel corso del simposio di Sintra, appuntamento annuale di confronto tra le banche centrali. Powell, applauditissimo dai colleghi, ha affermato che era prevista la possibilità di un taglio già il prossimo luglio, dato che l’economia Usa viaggia bene e l’inflazione non sta offrendo sorprese, ma che l’intervento sul costo del dollaro è stato sospeso a causa delle possibili conseguenze dei dazi. Quello opposto da Powell non è, dunque, un “no” definitivo ai tagli, ma una posizione di attesa e osservazione di ciò che potrebbe accadere in tema di tariffe doganali. La posizione del numero uno della Fed è, dal suo punto di vista, ampiamente giustificata. Il “tira e molla” non fa bene all’economia e l’introduzione dei dazi crea inflazione, anche se una tantum e temperata (per ora) dal prezzo basso del petrolio. La Fed, sembra di capire, resterà ferma finché la situazione non sarà più chiara, rivendicando ancora una volta autonomia nei confronti del potere politico.
Il partito di Musk
Non sono solo i dazi ad agitare la politica di oltre oceano: Elon Musk ha annunciato la fondazione dell’America Party, terzo polo che punta a superare il bipartitismo tipico delle dinamiche statunitensi. La comunicazione è stata ufficializzata dopo l’approvazione (a strettissimo margine) del Big Beautiful Bill, che nonostante i tagli al sistema sanitario porterà il debito pubblico a un aumento considerevole, grazie anche a sgravi fiscali e crescita delle spese militari. Musk ha affermato che il Bill rischia di portare gli Stati Uniti al fallimento, e gli ha contrapposto un programma da “Paese frugale”: riduzione del debito, solo spesa “responsabile”, modernizzazione dell’esercito con l’intelligenza artificiale, massiccio uso della tecnologia e della stessa IA, meno regolamentazione in generale, e specialmente nell’energia, libertà di parola, politiche per la natalità e, per il resto, politiche centriste. Nell’immediato, Musk cercherà di portare al suo nuovo movimento qualche parlamentare repubblicano deluso, per imporsi, almeno inizialmente, come ago della bilancia fra i due partiti rappresentati al Congresso. In prospettiva, il patron di Tesla vuole attaccare quello che ha definito “bipolarismo tossico” e che, a suo parere, è un monopartitismo mascherato. Che, però, è difficile scalzare, soprattutto se si parte da zero. Nella concezione anglosassone, un’operazione simile a quella che in pochi mesi portò Silvio Berlusconi al potere non è per niente facile. In passato, negli Stati Uniti si sono verificati esempi di “terzi candidati alla presidenza” che, però, hanno solamente sortito l’effetto di favorire uno dei due contendenti: il magnate Ross Perot, che nel 1992 ha eroso un ampio consenso ai repubblicani favorendo la sconfitta di George Bush senior, e Ralph Nader, che – pur ottenendo molti meno voti – ha fatto lo stesso nel 2000 con i democratici, danneggiando Al Gore. C’è da dire, però, che Musk ha a disposizione denaro quasi infinito, oltre che tecnologia come mai nessuno prima e la “corazzata” social X. Il primo test sarà costituito dalle elezioni di mid term, che sono più vicine di quanto si percepisca.
Mercati sotto controllo, nonostante la guerra
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
La nuova fase della guerra in Medio Oriente, con il coinvolgimento degli Stati Uniti, si è fatta sentire negli ambienti borsistici, ma tutto sommato moderatamente. Dopo l’attacco americano all’Iran si sono verificati arretramenti generalizzati, ma fisiologici e controllati, e dipendenti anche da altri fattori: Milano, che aveva già chiuso la settimana in ribasso a causa del conflitto, ha aperto il primo giorno post-bombardamento Usa lasciando sul terreno l’1% circa, ma sul calo ha inciso anche il maxi-stacco delle cedole; Madrid, unica in Europa, ha addirittura chiuso il primo giorno della settimana in positivo. Più che accusare il colpo i listini lo hanno assorbito, segno che sono ormai in grado di relazionarsi con gli effetti dell’instabilità geopolitica, cedendo il minimo indispensabile per poi provare un recupero. Almeno in Europa, la situazione dei mercati è improntata al sereno: anche dopo i passi indietro della scorsa settimana e di lunedì, Milano rimaneva oltre il 15% da inizio anno, contro lo zero degli indici americani. Quest’anno, insomma, è bastato avere la forza per investire molto sulle Borse europee e rinunciare a un’esposizione in dollari per portare a casa ottimi risultati: le previsioni che intravedevano un biglietto verde addirittura sotto la parità si sono dimostrate fallaci, in un quadro che ora vede la nostra moneta oltre quota 1.15.
Voglia di correre
La forza e la resistenza (e resilienza, come si direbbe oggi) dei listini è emersa chiaramente dopo l’annuncio di un pur instabile cessate il fuoco fra Israele e Iran: la notizia – nonostante l’altalena tra smentite e conferme, allarmi e contrordini e interventi anche duri di Donald Trump – ha innescato un recupero degli indici europei che, potremmo dire, hanno “voglia” di correre e hanno provato il rilancio. Wall Street, da parte sua, ha ceduto qualcosa dopo la risposta iraniana con il bombardamento missilistico alle basi americane in Qatar, ma ha subito invertito la rotta con guadagni generalizzati, che forse sono dipesi dal carattere poco più che simbolico del raid.
Petrolio su e giù
Il recupero delle Borse dipende anche dal prezzo del petrolio, la cui breve corsa, che aveva allarmato i mercati e l’opinione pubblica, si è fermata dopo l’annuncio della tregua: il greggio è tornato sotto quota 70 dollari al barile, facendo gongolare Trump, strenuo sostenitore dei prezzi soft. Il presidente americano, con il suo solito stile informale, ha anche pubblicato un post anti-speculazione sul social Truth, rivolto all’industria americana degli idrocarburi: “Tenete tutti i prezzi del petrolio bassi. Vi tengo d’occhio! State giocando dal lato del nemico, non fatelo”. Se il “combinato disposto” fra un raffreddamento della guerra in Medio Oriente, gli appelli di Trump per il calo del prezzo del greggio e la sovrapproduzione decisa dall’Arabia Saudita dovesse tenere, le Borse europee potranno concentrarsi su semestrali, outlook delle aziende e rischio nuovi dazi (il prossimo 9 luglio, lo stesso Trump dovrebbe annunciare ulteriori decisioni in questo senso).
Le due anime della Fed
I mercati sono anche molto attenti alle strategie delle banche centrali, che hanno scelto percorsi molto divergenti fra loro.
A lasciare i tassi invariati sono state Federal Reserve e Banca d’Inghilterra. L’istituto centrale americano, in realtà, ha espresso l’intenzione di apportare due interventi verso il basso entro fine 2025, facendo però attenzione a eventuali ulteriori effetti negativi dei dazi; tuttavia, Jerome Powell è stato esplicitamente insultato da Trump, che ha espresso il suo disappunto mentre la riunione del direttivo era in corso. L’inquilino della Casa Bianca non è l’unico a spingere per il calo dell’attuale forbice, ferma a 4,25%-4,50%: posizioni dovish si sono infatti registrate anche all’interno della banca centrale, pur con toni molto paludati. In questi giorni, due membri del board dei governatori non hanno escluso la possibilità di un taglio già nel corso della riunione in programma a luglio: prima Christopher Waller si è detto possibilista, poi Michelle Bowman si è dichiarata “favorevole”, sempre nel caso in cui l’inflazione restasse contenuta. Semplici opinioni o candidature alla successione di Powell?
Europa tra falchi e colombe
La Banca d’Inghilterra ha mantenuto i tassi al 4,25%, motivando la scelta con l’imprevedibilità della situazione geopolitica (guerra in Medio Oriente e dazi), mentre l’inflazione fa ancora paura. Oltre a questo, Londra sta ancora scontando le conseguenze della Brexit, che ha limitato la possibilità delle aziende di assumere personale dall’Unione Europea, incidendo sull’economia. La Banca Nazionale Svizzera, da parte sua, ha portato i tassi a zero, molto probabilmente per fermare la corsa del franco svizzero, il cui apprezzamento non piace alle autorità monetarie e politiche elvetiche. In mezzo al guado (anche se ormai più vicina al lato delle colombe) c’è la Banca Centrale Europea, che naviga sull’1,75% ed è ormai a target; nei prossimi mesi, la Bce potrebbe anche tagliare di mezzo punto le percentuali di riferimento, ma poco cambierebbe. Il vero problema dell’Eurozona non è la politica monetaria, ma l’economia diventata asfittica a causa del green deal radicale imposto dalla Commissione.
Risiko bancario
Sul fronte del risiko c’è una novità: il possibile passo indietro di Unicredit sul dossier Banco Bpm. Andrea Orcel, amministratore delegato di Piazza Gae Aulenti, ha fatto intendere che, se gli ostacoli non dovessero essere superabili, potrebbe rinunciare all’opa. A sollevare i dubbi di Unicredit, la difficoltà di convincere gli azionisti di Piazza Meda, arroccati in difesa, ad accettare un’operazione carta contro carta, ma anche il golden power governativo e le conseguenze della sorpresa suscitata dall’offerta Mps su Mediobanca. A proposito di golden power, l’utilizzo intensivo dello strumento è stato criticato da Paolo Savona, giunto all’ultima relazione come presidente della Consob. La facoltà del governo di porre il veto sull’acquisto di partecipazioni per tutelare interessi nazionali, ha detto, era stata pensata come norma extra-ordinem, ma si è trasformata in un esercizio multi-purpose. “L’interazione tra le regole del gioco di mercato e societarie stabilite dal Tuf e le norme sul golden power”, ha affermato il presidente della Consob, “presenta aspetti che richiedono di essere perfezionati e coordinati con le regole dei trattati europei”. Savona ha anche criticato i dazi (operazione che “riporta indietro le lancette della storia”) e le criptovalute, che ha paragonato ai subprime, evidenziando un rischio di bolla.
Musica, maestro
Una bolla di altra natura rischia di coinvolgere i concerti negli stadi, che evidenziano lo strano fenomeno del “tutto esaurito” artefatto.
In pratica, alcuni cantanti ricevono dai promoter prima della tournée un corposo anticipo economico. Nel caso in cui un numero alto di biglietti (carissimi) non venga piazzato, l’artista deve restituire la somma, spesso acquistando di tasca sua una parte dei tagliandi. In altri casi, molti ingressi vengono redistribuiti a prezzi irrisori, o addirittura gratuitamente, a organizzazioni o associazioni ricreative. Questo meccanismo curioso, insieme al costo troppo elevato dei biglietti, potrebbe mettere a rischio il futuro dei concerti, riservando Wembley o San Siro solo ad artisti di altissimo livello, o almeno in grado di riempire le gradinate “spontaneamente”. Il fenomeno della svendita dei molti biglietti invenduti sta anche contraddistinguendo i Mondiali di calcio per club, in corso negli Stati Uniti: secondo alcune testimonianze, i tagliandi vengono ormai abbinati a elettrodomestici o altri articoli venduti negli esercizi della città dove è prevista la partita, con buona pace di chi ha acquistato l’ingresso a 200 o 300 dollari. I Mondiali per club si svolgono in concomitanza non solo con il campionato americano di calcio, che non si è fermato, ma anche con la Gold Club della Concacaf (cioè i campionati per nazionali del Nord e Centro America), anch’essa organizzata dagli Usa e i cui stadi sono semivuoti. Ciò dimostra che l’inflazione di eventi sportivi e calcistici, oltretutto nello stesso Paese, non è il metodo migliore per ottenere ricavi economici.
Medio Oriente in fiamme. Ma le Borse tengono
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
L’attacco di Israele all’Iran e l’apertura di un nuovo conflitto in Medio Oriente hanno diffuso un senso di paura nelle Borse, intimorite soprattutto dal rischio di picchi del petrolio. Ma le perdite evidenziate dagli indici dopo le prime notizie dell’escalation militare sono almeno parzialmente rientrate; si registrano nuove turbolenze, che però sembrano rientrare nelle normali dinamiche di mercato. Nessun maxi-storno, dunque: le Borse dimostrano una resistenza paradossale ai nuovi problemi geopolitici, che piombano sull’economia mondiale in un periodo contraddistinto anche dalla lunga tiritera sui dazi, dalle incertezze sui tassi Fed e dalla crisi dell’automotive. Il petrolio, da parte sua, è stato inizialmente protagonista di un rialzo fortissimo, ma si è poi assestato sui livelli di inizio anno, cioè nella forbice fra i 70 e gli 80 dollari al barile. Occorre considerare che il nuovo conflitto è iniziato mentre in sede Opec+ era in corso un dibattito acceso sul prezzo del petrolio, con l’Arabia Saudita intenzionata a incrementare ulteriormente la produzione (e un conseguente calo dei prezzi) e la Russia strenuamente contraria a questa eventualità: a causa delle sanzioni Mosca sta vendendo sotto costo il suo greggio a India e Cina – che è anche il primo compratore (a sconto) di greggio iraniano.
Le apprensioni sul petrolio
Le Borse hanno dimostrato di non aver perso gli anticorpi per resistere, almeno fino a quando il prezzo del petrolio rimarrà a livelli comunque bassi. Diverso sarebbe se venissero colpiti i terminal petroliferi iraniani, oppure se Teheran decidesse il blocco dello stretto di Hormuz, snodo indispensabile per il passaggio del greggio. In questo caso, si rischierebbe un rincaro di Brent e Wti difficilmente controllabile. Ma l’eventualità è remota, un po’ per il rischio di un intervento militare americano, un po’ perché il blocco dello stretto danneggerebbe anche l’export della Cina, alleata dell’Iran, e gli interessi economici degli altri Paesi del Golfo. E’ quindi probabile che la situazione non si aggravi ulteriormente e che i mercati riescano a digerire anche questi stimoli negativi (come detto, hanno già inviato segnali in questo senso) e si concentrino sui dazi Usa-Cina.
Oro a go-go
Il dollaro, che ai primi attacchi israeliani aveva recuperato terreno, è poi tornato poco sopra le posizioni del giorno prima. L’euro, pur in miglior salute rispetto al biglietto verde, ha comunque perso nel confronto con varie altre monete. A guadagnare, come di consueto nelle crisi geopolitiche, è invece l’oro, che da tempo è tornato bene rifugio, spinto dalla voglia di sicurezza causata dalle sanzioni alla Russia. Il “re dei metalli” ondeggia sulla quota di 3.400 dollari l’oncia, e sembra avere le prerogative per salire stabilmente sopra i 3.500.
De Meo lascia il settore automobilistico
Hanno fatto scalpore le dimissioni di Luca de Meo dalla carica di ceo del gruppo Renault, che guidava da cinque anni. Il manager italiano, che lascerà la casa transalpina il prossimo 15 luglio, ha spiegato la sua scelta con il desiderio – spiega una nota di Renault – di “affrontare nuove sfide al di fuori del settore automobilistico”. Un settore in cui De Meo lavorava dal 1992, e che lo ha visto operare nei ranghi di varie case con ruoli crescenti. Dal prossimo 15 settembre, il top manager entrerà come amministratore delegato in Kering, la multinazionale del lusso di François-Henri Pinault che controlla marchi come Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Alexander McQueen, Boucheron, Pomellato, DoDo, Qeelin, Brioni, e Ginori 1735. Le dimissioni di De Meo e la sua separazione dal settore in cui aveva sempre militato preoccupa moltissimo: il dirigente era non solo un dirigente specializzato, ma anche un appassionato di motori fin da bambino. Il clamoroso saluto non solo a Renault, ma all’automotive, è stato interpretato come una manifestazione di pessimismo nel futuro del comparto in Europa, duramente messo alla prova dal green deal di Ursula von der Leyen. La reazione della Borsa alle clamorose dimissioni è stata molto forte: giù le azioni Renault, su i titoli Kering. Un atto di fiducia, quest’ultimo, un po’ troppo istintivo: il manager è certamente capace, ma è nuovo di un settore, come il lusso, che non sta attraversando i suoi giorni migliori, anche a causa della crescente concorrenza cinese.
Il caro-gas mette a rischio le fonderie
La crisi dell’automotive europeo contribuisce anche a crescenti difficoltà per acciaierie e ferriere di alluminio. Pochi veicoli immatricolati causano un calo di produzioni industrali e minori rottami a disposizione, con conseguente dumping: Cina, India e Stati Uniti stanno acquistando i detriti in Europa a prezzi che l’industria Ue non può sostenere. Tutto questo si unisce alla nuova impennata del gas, che potrebbe mettere in ginocchio le fonderie, industrie strutturalmente energivore. L’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Fabio Zanardi, presidente di Assofond, organismo di categoria che, in seno a Confindustria, rappresenta le fonderie italiane. Il settore, ha detto, è in bilico sia a causa dei dazi al 50% su acciaio e alluminio, sia per il rincaro dell’energia. Se i prezzi rimarranno questi, ha detto Zanardi, per le fonderie non ci sarà futuro.
Il mondo nel pallone
Sono intanto iniziati negli Stati Uniti i Mondiali di calcio per club, che alla vigilia del calcio d’inizio erano visti a rischio flop economico, anche a causa della vendita a prezzo di saldo dei molti (carissimi) biglietti non acquistati. In parte, però, la strategia ha limitato i danni: se per le partite con meno appeal gli stadi erano semivuoti, i match più interessanti hanno attirato numerosi tifosi, sfiorando il sold out. Questo fa sperare gli organizzatori in vista delle gare a eliminazione diretta, che vedranno prevedibilmente protagoniste squadre europee e sudamericane. La prima edizione allargata del massimo torneo per club serve comunque agli Stati Uniti per lanciare i prossimi Mondiali di calcio, previsti nel 2026 in Usa, Canada e Messico: se la manifestazione riuscisse nel suo intento, passerebbe in secondo piano anche un eventuale insuccesso economico della kermesse. Quali conseguenze economiche avrebbe, invece, un eventuale mancata qualificazione dell’Italia alla Coppa del Mondo per la terza volta consecutiva? La risposta non è così semplice come potrebbe sembrare. Perché da un lato, il calcio vale il 4% del pil italiano, e una qualificazione degli azzurri, con il conseguente maggior coinvolgimento degli appassionati, andrebbe a generare guadagni indiscutibili per bar, ristoranti e “indotto” pallonaro. Dall’altro, però, i fusi orari nordamericani rischierebbero di obbligare i sostenitori a levatacce o veglie notturne per poter assistere ai match, con la conseguente perdita di produttività, impossibile da quantificare, ma difficilmente confutabile.
Sorpresa: le Borse recuperano. Ma l'economia soffre ancora
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Pochi si erano spinti anche solo a pensarlo, ma è successo per davvero: le Borse hanno annullato con una velocità inaspettata gli storni dovuti alle tariffe doganali di Donald Trump. E si sono riassestate in breve tempo intorno ai livelli pre-dazi. Ciò che è accaduto è incredibile perché, dati i valori attuali degli indici, il 2 aprile è stato letteralmente cancellato dai mercati. Come se non fosse mai esistito. Ancora una volta, a vincere è stato chi ha mantenuto i nervi saldi: la storia insegna che, salvo pochi e circostanziati crack, è sempre meglio non reagire istintivamente ai crolli degli indici. Con l’aggancio si è tornati a un andamento normale dei trend. In questa logica si inserisce la flessione temporanea delle Borse europee di ieri mattina, dipesa soprattutto dal mancato insediamento del cancelliere tedesco Friedrich Merz, che per pochi voti non ha ottenuto la maggioranza in prima battuta. Tuttavia, nel pomeriggio il cancelliere ha ottenuto la fiducia in seconda votazione, e le Borse europee hanno completato una rimonta già in atto. Anche il Dax, indice europeo più penalizzato in mattinata, ha evidenziato segnali di recupero.
Anche New York riduce il divario
Anche la Borsa americana, contro il parere e il volere di tutti, è stata protagonista di una netta ripresa: Wall Street è salita al -4% da inizio anno mentre il Nasdaq è ancora un po’ sacrificato (intorno al -7%), ma il momento negativo del dollaro facilita l’investitore europeo nell’acquisto di azioni tecnologiche statunitensi. Attualmente, a fare la differenza fra i mercati Usa e Ue sono i tassi: la Bce li ha tagliati e la Fed no. E’ comunque indubbio che l’amministrazione Trump abbia portato a un riposizionamento di asset azionari sui mercati che trattavano a sconto. I dazi hanno fatto sì che grossi player con centinaia miliardi dollari in gestione abbiano spostato (e lo stiano facendo ancora) flussi continui di acquisti dal mercato americano a quelli europei. E l’Italia, mercato dai multipli bassi, ne ha particolarmente goduto.
La produzione non riparte
Se le Borse sono tornate alla normalità, l’economia reale non si è mossa di un centimetro e subisce un significativo blocco delle attività produttive legato all’effetto-annuncio dei dazi. Ciò colpisce in maniera generalizzata, ma ad accusare il colpo sono in maniera particolare gli Stati Uniti, dove il primo trimestre si è chiuso leggermente in negativo, mentre le materie prime e il petrolio sono in sofferenza perché quotate in dollari. Unica eccezione l’oro, che mantiene la sua posizione ben oltre i 3.000 dollari l’oncia. Il rallentamento dell’economia americana sta proseguendo anche nel secondo trimestre, che verosimilmente chiuderà con dati non positivi.
Slalom parallelo
Intanto, Trump prosegue nel suo andamento a zig-zag. Da un lato tratta con i Paesi europei e – dopo un confronto basato su dazi e controdazi a tre cifre – cerca di negoziare con la Cina. Che a sua volta auspica di raggiungere un accordo ma nel contempo mostra i muscoli (“per oltre 70 anni”, ha dichiarato Xi Jinping, “lo sviluppo della Cina si è fondato sull’autosufficienza e sul duro lavoro”, e mai sugli altri). D’altro canto, nonostante i negoziati con l’Unione Europea e gli abboccamenti con Pechino, l’inquilino della Casa Bianca rilancia sul fronte delle tariffe doganali, annunciandole per i prodotti farmaceutici. Come sembra evidente, Trump ha fatto dei dazi un azzardo da cui partire per negoziare accordi commerciali più favorevoli agli Stati Uniti, ma la situazione gli è sfuggita di mano. E ora cerca in modo confuso di fermare una guerra commerciale senza esclusione di colpi, anche se non rinuncia a nuovi annunci a effetto.
Washington contro Pechino
Sullo sfondo c’è comunque il fil rouge delle sue presidenze, che vede la Cina come nemico numero uno. Washington rimprovera a Pechino di essersi espansa fino a minacciare lo strapotere Usa, e di averlo fatto anche violando regole di mercato e appropriandosi di brevetti e marchi non sempre nel pieno rispetto delle regole Wto. Trump deve quindi muoversi tra questi due fuochi: il rischio di escalation della guerra commerciale e la rivalità sino-americana. Il presidente degli Stati Uniti pensava di avere un’arma per togliere potere al gigante asiatico: il raggiungimento di un accordo fra Russia e Ucraina, che avrebbe potuto spezzare l’abbraccio tra Mosca e Pechino favorito dalle sanzioni occidentali. Tuttavia, Putin, Zelensky e la posizione inflessibile di Gran Bretagna e Ue hanno sabotato i suoi sforzi, portando l’inquilino della Casa Bianca (almeno secondo le sue ultime dichiarazioni) a un passo dalla bandiera bianca. Lo stop sul fronte ex sovietico ha reso più urgente un disgelo tra Washington e Pechino, i cui dispetti reciproci non sono certo una cosa nuova: già la prima amministrazione Trump aveva bloccato gli investimenti nuovi in Cina (politica confermata poi da Joe Biden) spingendo poco a poco le aziende americane a delocalizzare in altri Paesi.
Le critiche di Buffett
I dazi di Trump hanno incassato dure critiche anche da parte di Warren Buffett, nel corso dell’annuncio con cui l’imprenditore ha comunicato il proprio pensionamento (a 94 anni) e il conseguente addio a Berkshire Hathaway. “Il commercio può essere un atto di guerra”, ha tuonato l’oracolo di Omaha, integrando una precedente dichiarazione anti-dazi (“le tariffe sono una tassa sulle merci”). La ricetta di Buffett è, diciamo così, conservatrice: gli Stati Uniti devono continuare a scambiare merci con il resto del mondo. Che è poi, ha ricordato, “quello che sappiamo fare meglio”. Queste indicazioni si uniscono a varie altre frasi celebri di Buffett che nel tempo sono assurte quasi a consigli universali, con cui confrontarsi in momenti di crisi o di passaggio epocale. Una su tutte: occorre investire in società che fanno utili, ma soprattutto che esisteranno ancora fra 50 anni. Un aforisma particolarmente attuale, in epoca di fintech che aprono e chiudono e di rischi di nuove bolle.
Petropolis
Mentre in Italia il risiko bancassicurativo è in pieno svolgimento, il palcoscenico dei merger è attivo anche a livello internazionale. Secondo Bloomberg, Shell sta valutando l’acquisto di Bp e avrebbe già commissionato un dossier ai suoi advisor. La maxi-operazione potrebbe essere agevolata da un ulteriore calo del prezzo del petrolio e dalla discesa del titolo della “preda”. Attualmente, Shell vale circa tre volte Bp (149 miliardi di sterline contro 56) e ha in corso un’operazione di riacquisto di azioni proprie. L’acquisizione sarebbe interessante, pur nella sua difficoltà, soprattutto in un periodo così particolare per gli asset petroliferi. Se l’unione si facesse, andrebbe a nascere un “campione inglese” in grado di competere con i maggiori concorrenti americani.
Generali dietro la collina
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
La nuova stagione del risiko bancario, improvvisamente rivitalizzato dalle offerte pubbliche di scambio protagoniste di questa stagione invernale, sembra aperta a colpi di scena di ogni genere. A cominciare dal rialzo, da parte di Banco Bpm, dei valori relativi all’opa su Anima – strategia che molti hanno visto come intervento difensivo nei confronti dell’ops di Unicredit.Non per niente Andrea Orcel ha minacciato di far saltare l’offerta, paventando “rischi patrimoniali”. E scatenando sua volta una risposta da Bpm, che ha espresso “preoccupazione in relazione ai contenuti del comunicato stampa diffuso da Unicredit”.
Tra i due litiganti…
Mentre sale il livello dello scontro fra Piazza Gae Aulenti e Piazza Meda, rumours insistenti parlano di un possibile ingresso in campo di Intesa Sanpaolo, finora rimasta fuori dai giochi. In questo caso, la partita sarebbe (il condizionale è d’obbligo) l’offerta Mps su Mediobanca: il gruppo bancario guidato da Carlo Messina potrebbe affiancarsi ai senesi per trasformare il classico “topolino che cerca di mangiare un elefante” in un’operazione molto più proporzionata. La vera preda (sempre secondo le voci) sarebbe Generali. Un gruppo particolarmente appetibile: un po’ perché, nel caso di unione tra Intesa e il Leone (già naufragata qualche anno fa), verrebbe a formarsi il conglomerato bancassicurativo più grande d’Europa; un po’ perché un’operazione di questo tipo ha molte probabilità di essere benvista dalla politica; un po’ ancora perché, per un istituto di credito, l’acquisto di un gruppo assicurativo è teoricamente più semplice, grazie al Danish Compromise (norma europea relativa alla vigilanza che permette una disciplina più favorevole delle partecipazioni assicurative nei requisiti patrimoniali di un istituto bancario). Le voci, ovviamente, restano tali: per capirne di più si dovrà attendere aprile, mese in cui saranno rinnovate le cariche di Intesa Sanpaolo. In ogni caso, è facile osservare quanto fosse strano il disimpegno di Messina dalle grandi manovre in atto nel sistema finanziario italiano. D’altro canto, Generali potrebbe diventare appetibile anche per Unicredit, soprattutto nel caso in cui i dossier relativi a Banco Bpm e Commerzbank si rivelassero troppo ardui.
I rischi del “carta contro carta”
Le difficoltà del risiko 2025 sono comunque sotto gli occhi di tutti. Perché le “grandi manovre” vengono condotte in un periodo che non è proprio così favorevole a questi tipi di operazioni, dato che ultimamente il valore dei titoli finanziari si è alzato, e di molto. Fino a un anno e mezzo fa, le banche costavano relativamente poco: era quindi possibile acquistarle pronta cassa. Oggi il loro valore è aumentato di molto, obbligando i “cacciatori” a ricorrere a una formula – quella del “carta contro carta” – ben più difficile da far accettare agli azionisti della “preda”. Perché un conto è aderire a un’offerta e portare a casa denaro liquido e certo, un altro è cedere azioni per trovarsi in mano altre azioni, con tutti i rischi del caso.
Borse in grande spolvero
Detto questo, Piazza Affari è sembrata ringalluzzita dalle nuove pagine del romanzo-risiko, raggiungendo i massimi dal 2008 e vestendo la maglia rosa. In un quadro di crescita che ha investito l’intera Europa, dove le Borse sono state spinte dai titoli del settore difesa. In un periodo in cui il nostro continente è investito da una improvvisa febbre bellicista, la sola ipotesi di rialzo degli investimenti in armi ha spinto le azioni del comparto talmente in alto da trainare interi indici.
L’indotto degli armamenti
Come interpretare un’escalation dei titoli defence europei mentre la pace in Ucraina sembra improvvisamente possibile? Sicuramente, qualche esponente politico può essere genuinamente mosso da pruriti guerreschi, ma è possibile anche dare una lettura un po’ più maliziosa a questo improvviso entusiasmo.
E attribuire un ruolo importante, se non decisivo, all’esclusione delle spese militari (e del loro impatto sul debito) dal patto di stabilità: spendendo denaro pubblico per armi, droni e carri armati, i Paesi avrebbero la possibilità di creare un indotto in grado di mandare in ricircolo nuovo denaro, senza dover sottostare alle strette maglie dei controlli comunitari. Se, per esempio, le spese militari italiane passassero dall’1,6% al 3% del pil, libererebbero quasi 23.000 miliardi di stanziamenti aggiuntivi, andando a toccare a cascata vari altri settori. E’ difficile trovare altre spiegazioni logiche, dato che – come ha affermato pochi giorni fa Carlo Cottarelli – già oggi le spese militari europee sono superiori del 50% rispetto a quelle dichiarate dalla Russia.
Il tavolo che conta
Oltre a questo, è bene ricordare che un esercito europeo non esiste e la sua formazione incontra molte difficoltà: il potere che i singoli Paesi Ue hanno sulle proprie truppe e la mancanza di un coordinamento che non sia quello Nato; le strategie (e le posizioni politiche) diversificate; la neutralità di alcuni Paesi Ue; la presenza di molte lingue nell’Unione e una mobilità minore di quella esistente negli Stati Uniti. La “disunione” europea è emersa chiaramente al confronto convocato all’Eliseo da Emmanuel Macron sull’Ucraina – riunione a cui, tra l’altro, sono stati invitati solo alcuni Paesi dell’Unione (e la Gran Bretagna, non si capisce a che titolo) e Ursula von der Leyen in rappresentanza dell’Ue: al termine del dibattito, ognuno è tornato a casa con una posizione diversa, trasformando un vertice in poco più che un’inutile riunione conviviale.
Contemporaneamente, il segretario di Stato americano Marco Rubio e il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov iniziavano a confrontarsi a Riad su eventuali negoziati di pace, aprendo il “tavolo che conta” ai fini delle trattative.
In attesa dei dazi
Sullo sfondo, si fa largo la consapevolezza che i soldi stanziati dagli Stati Uniti per l’Ucraina andranno restituiti: lo ha fatto capire chiaro e tondo Donald Trump, che ha suggerito a Kiev di pagare i debiti in terre rare, di cui il Paese è ricco. Volodymyr Zelensky ha respinto sdegnosamente la proposta al mittente; tuttavia, ci si chiede quale reale potere decisionale avranno le autorità ucraine quando si decideranno le sorti (e gli indirizzi economici) del Paese. Il presidente americano è particolarmente attivo anche sul fronte dei dazi, molti annunciati come arma di pressione su vari tipi di trattative, altri di più probabile applicazione, come quello sulle auto, che dovrebbe scattare ad aprile.
Problematiche potrebbero inoltre rivelarsi le tariffe doganali del 25% annunciate da Trump su acciaio e alluminio importati negli Stati Uniti – un vero e proprio gioco d’azzardo, che rischierebbe, alla fine, di causare un aumento dei costi e favorire la Cina. Particolarmente preoccupante è il caso del commercio dei rottami: nel caso fossero applicate nuove tariffe doganali, i produttori di alluminio secondario si troverebbero a vendere sul mercato a un prezzo maggiore. Se quindi gli Stati Uniti acquistassero rottami in Europa a una tariffa più alta del 15%-20% rispetto ai produttori del nostro continente, rischierebbero di creare un problema a tutta la filiera Ue del riciclo, mandando i nostri prodotti fuori mercato. Certo, l’Europa potrebbe sempre reagire con controdazi sull’esportazione del rottame, ma Bruxelles ha un processo decisionale troppo lento, che non induce a ottimismo su una reazione pronta ed efficace. A proposito di metalli, l’oro continua il suo trend in salita, favorito dalle incertezze geopolitiche.
Petrolio e dollaro, da parte loro, si trovano in una fase di trading range, mentre il gas è ancora oggetto di dinamiche speculative. Forse, soltanto un cessate il fuoco tra Russia e Ucraina sarebbe in grado di spingere il valore del metano a prezzi più ragionevoli, anestetizzando le turbolenze di mercato causate prima dal Covid, poi dallo scoppio del conflitto.
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Fuochi artificiali dal risiko bancario
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Una nuova ops riporta alla ribalta il “monopoli” bancario. Dopo le offerte di Unicredit su Banco Bpm e di Montepaschi su Mediobanca, è infatti la volta di Bper, che ha messo nel mirino Banca Popolare di Sondrio. Un istituto tra i meglio gestiti in Italia e, per questo, molto ambito. Si tratta, per la precisione, di un’offerta pubblica di scambio volontaria pari a 4,3 miliardi di euro sulla totalità delle azioni ordinarie dell’istituto valtellinese, con un premio del 6,6%, in nome – almeno secondo Gianni Franco Papa, amministratore delegato di Bper – dei “modelli di business coerenti” e della condivisione degli “stessi valori” da parte delle due aziende.
Un “gioco dell’ops” molto lungo. E incerto
Come Banco Bpm (a sua volta impegnato in un’opa su Anima) e Mediobanca, anche Pop Sondrio non gradisce il tentativo di conquista. L’offerta “nel suo insieme è distruttrice di valore ed è ostile” all’istituto di credito, ha sottolineato senza mezzi termini una nota del Comitato per l’autonomia e indipendenza della Banca Popolare di Sondrio, che riunisce piccoli azionisti valtellinesi.
Il comunicato ha evidenziato similitudini con altre ops “da poco lanciate e attualmente in corso”, che rischiano di fare del sistema bancario italiano uno “tra i più concentrati in Europa, se non il più concentrato”.
Pop Sondrio è l’istituto di credito che più a lungo ha resistito all’obbligo di trasformazione in società per azioni introdotto dal governo Renzi per le Popolari: solo a fine 2021, e dopo anni di ricorsi, la banca retica ha approvato obtorto collo la nuova forma sociale. Nonostante questo, l’80% circa delle partecipazioni è ancora in mano ad “azionisti vari”, che potrebbero anche decidere la non adesione all’ops in forza di un legame identitario mai sopito.
Tanto più che, come le operazioni Unicredit-Banco Bpm e Mps-Mediobanca, anche l’ops Bper-Pop Sondrio segue la formula “carta contro carta”, che rende un’eventuale adesione molto meno attrattiva.
Per i “cacciatori”, l’impresa è quindi piuttosto ardua (paradossalmente, il dossier meno difficile è proprio l’ops Bper-Pop Sondrio, a condizione che la banca ducale riesca a dare rassicurazioni concrete al territorio). Ne sentiremo comunque parlare per molti mesi: in Italia, le offerte di acquisto o di scambio innescano in iter molto lungo, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, dove le operazioni si concludono anche in un paio di settimane,
“Pronto? Chi compra?”
La nuova campagna acquisizioni non si limita al mondo bancario. Voci insistenti parlano di un interesse di Iliad verso Tim. La società francese, divenuta simbolo della telefonia a prezzi economici, proverebbe nuovamente a ritagliarsi un ruolo da protagonista nel nostro Paese dopo il flop dell’acquisizione Vodafone Italia, poi entrata in Fastweb (gruppo Swisscom).
Il dossier Tim potrebbe sembrare meno difficile del previsto, grazie ai prezzi modici di una società scorporata dal vero asset dell’ex Telecom, e cioè la rete.
Nella marcia dell’azienda francese verso l’ex monopolista, però, ci sarebbero anche alcuni concorrenti, tra cui Poste Mobile, il cui possibile intervento è visto da qualcuno come un tentativo dello Stato di ostacolare l’arrivo di una proprietà straniera, rientrando parzialmente nell’azionariato di Tim.
La Borsa sale
In questa girandola di tentati M&A, le Borse europee hanno reagito bene, con Milano che ha chiuso la scorsa settimana a 1,6%. Hanno corso, in particolare, Popolare di Sondrio – con un picco positivo venerdì scorso e un parziale ritracciamento da lunedì – e Iveco, che ha chiuso la settimana di oltre il 19% e sta continuando a salire. Il forte incremento della casa torinese è avvenuto dopo l’annuncio di un possibile spin off delle due società del settore difesa (Idv e Astra), a margine della presentazione dei dati 2024, chiuso con risultati migliori del previsto.
Così, un titolo che lo scorso dicembre navigava sui 9 euro ora veleggia oltre i 14. Il business di Iveco nel defence è stato a lungo quasi ignorato dai mercati. Era infatti usuale vedere la società come un’azienda dell’automotive, sottovalutando l’attività del gruppo nella costruzione di veicoli militari e loro componentistica. La Borsa di Milano, in ogni caso, ha nuovamente raggiunto i massimi, sfondando quota 37.000. E le aspettative di taglio tassi ingenerano ottimismo su tutti i listini europei: ci troviamo ancora in un trend positivo, e potrebbe essere il caso di fare un po’ di fine tuning su titoli che saranno favoriti dalla diminuzione del costo del denaro, come utility e petroliferi.
L’oro brilla più che mai
Il taglio dei tassi, naturalmente, ha conseguenze chiare sulle obbligazioni, il cui rendimento è in calo. A non fermarsi è invece l’oro, che contro le previsioni corre verso la quotazione di 3.000 dollari l’oncia.
Il trend dipende dall’esigenza di beni rifugio ma anche dagli acquisti effettuati da Paesi come Cina e Russia, desiderosi di sganciarsi dai circuiti internazionali per sfuggire agli effetti di sanzioni presenti o future.
A dare un ulteriore impulso al “re dei metalli” potrebbe essere l’avvio di un programma pilota in Cina, che darà per la prima volta luce verde alle assicurazioni per l’acquisto di oro. Il progetto ha le potenzialità per liberare miliardi di dollari di investimenti auriferi, in grado di pompare ulteriormente la sua quotazione. Se, per ipotesi, le compagnie assicurative si dotassero di oro per il 5% dei loro investimenti, il metallo potrebbe schizzare persino a 4.000 dollari.
Preoccupa, invece, l’aumento del gas sulla Borsa di Amsterdam, mentre il petrolio resta tranquillo nella fascia bassa di oscillazione.
Porsche a picco
Un venerdì da incubo, invece, per il titolo Porsche, ai minimi dal suo ingresso alla Borsa di Francoforte (2022). E’ infatti bastato un annuncio pessimista, da parte della casa di Stoccarda, sui profitti 2025 per trascinare le azioni a -6,8% (con un valore che è la metà rispetto ai massimi storici). Nel mentre, è stata comunicato il ritorno ai motori a combustione interna, chiaro passo indietro rispetto all’agenda elettrica.
Il decremento delle azioni Porsche rende ulteriormente cristallina la già evidente crisi dell’automotive tedesco. Diversa, invece, la causa dell’arretramento di Tesla, che prosegue dai primi di febbraio: la società di Elon Musk era talmente salita dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza americana da rendere quasi fisiologico un ritracciamento.
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Donald Trump, le strategie economiche puntano all'America First
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Nel suo discorso di insediamento alla presidenza americana, Donald Trump ha rimarcato in maniera molto identitaria i temi che hanno contraddistinto la sua campagna elettorale, che si sono poi rivelati una delle chiavi della sua vittoria. Le strategie del leader Usa vanno in direzione dell’America First, vecchio motto di Trump fin dalla sua prima presidenza, che implica un sostegno forte all’economia di Washington mediante la creazione di debito. I primi provvedimenti sono già stati introdotti: se la nuova amministrazione repubblicana riuscirà a giocare bene le sue carte, potrebbe assicurarsi il consenso per lungo tempo.
I tre leitmotiv
Tre in particolare i leitmotiv economici che contraddistingueranno il secondo mandato non consecutivo dell’inquilino della Casa Bianca. Primo, il forte sostegno all’economia, che si sostanzia in tagli fiscali e, appunto, maggiore debito. Ciò implica anche il contrasto al dollaro forte, che non piace alle aziende esportatrici. Non a caso il biglietto verde, dopo una puntata sotto quota 1,02 sull’euro, è tornato verso 1,04. Secondo aspetto, il prezzo del petrolio: la nuova amministrazione farà di tutto per evitare picchi al valore del greggio. L’elettore medio americano è molto sensibile nei confronti del prezzo alla pompa e gli aumenti del prezzo della benzina hanno penalizzato in maniera seria Kamala Harris in campagna elettorale. Terza sottolineatura, la sburocratizzazione e la deregulation per le aziende. Un provvedimento che sicuramente favorirà le Pmi, messe in difficoltà da una legislazione eccessiva.
Il nodo-Panama
Alcuni punti del discorso presidenziale hanno però suscitato molte perplessità. Come le minacce alla sovranità di Panama, che l’inquilino della Casa Bianca ha confermato apertamente, ventilando la possibilità che gli Stati Uniti considerino l’opzione di riprendere il controllo del Canale. E’ difficile capire la reale natura di questo reiterato proclama. Chi teme una seria intenzione interventista – che andrebbe in direzione diametralmente opposta allo sbandierato pacifismo del tycoon – afferma che una simile operazione finirebbe per legittimare velleità espansionistiche da parte di Russia e Cina, reintroducendo nel nostro tempo una “politica delle cannoniere” di novecentesca memoria. Lo “storico” della prima presidenza Trump, contraddistinta dall’assenza di nuove guerre, lascia però sperare che la dichiarazione su Panama sia una semplice boutade, non aliena dall’approccio da blagueur del neopresidente, o un’esternazione da “campagna elettorale continua” (fra soli due anni si rinnoverà il Congresso). O forse ancora è il classico messaggio “a nuora perché suocera intenda” – cioè a Panama perché la Cina intenda. Pechino sta investendo molto sul Canale, e ciò infastidisce gli Stati Uniti, dato che lo stretto braccio di mare fra Atlantico e Pacifico è un’infrastruttura decisiva per il commercio mondiale.
Dazi sì, dazi no
La preoccupazione più concreta per i mercati è però costituita dai dazi annunciati in campagna elettorale. Perché per Trump questa idea non è nuova, e non sembra così impossibile che venga realizzata.
Per ora, il neopresidente non ha annunciato l’introduzione di questi tributi per l’Europa, e già questo è un sollievo per i mercati. Ma non è detto che nel prossimo futuro non torni a rilanciare il progetto.
Anche perché, secondo quanto affermato da Trump, il 1° febbraio gli Stati Uniti daranno il via a un dazio del 25% per le merci importate da Canada e Messico, come ritorsione rispettivamente a un presunto ruolo di Ottawa nell’ingresso negli Usa di Fentanyl e alla migrazione di massa da sud. In ogni caso, nel nodo delle tariffe doganali l’Italia potrebbe essere favorita dalla vicinanza tra l’amministrazione Trump e il governo Meloni, benché contemporaneamente penalizzata dal forte avanzo commerciale nei confronti degli Usa, che non piace ai sostenitori dell’export americano.
Incertezza in Borsa
L’incertezza sulle tariffe doganali si è fatta sentire anche sulle Borse. La scorsa settimana, i listini europei avevano ottenuto ottime performance, con Milano in maglia rosa continentale e ai massimi dal 2008. Il trend rafforzava il rimbalzo di inizio anno, che aveva portato Piazza Affari a un bel +4%.
Ora, i dubbi sui dazi hanno causato un rallentamento di parte delle Borse europee (Milano compresa), simile però più a un ritracciamento fisiologico che non a un vero e proprio calo. Alla fine, i listini del nostro continente hanno chiuso in ordine sparso, con Piazza Affari leggermente in negativo e altre piazze come Parigi e Francoforte in moderata crescita. Sempre questioni di decimi, comunque.
Wall Street, da parte sua, ha affrontato il discorso di Trump in un giorno di chiusura (lunedì scorso ricorreva la festività del Martin Luther King Day) e in seguito a un rimbalzo dovuto agli ottimi utili delle banche americane, frenato solo dal dato deludente sulle vendite al dettaglio. La giornata di ieri è stata quindi la prima dopo l’Inauguration per tastare la risposta della Borsa americana, che ha evidenziato un buon andamento.
Certamente, i prossimi giorni saranno importanti per capire le reazioni a freddo dei mercati all’insediamento di Trump. Qualsiasi notizia sui dazi influirà maggiormente sulle Borse europee che non su Wall Street, che sembra guardare positivamente il cambio al vertice appena avvenuto.
Il “giro di valzer” dell’establishment
Le Borse di oltreoceano recepiscono anche i favori dell’establishment economico americano nei confronti della seconda presidenza Trump – a differenza di quanto accadde per il suo primo mandato. Anche le bigtech contrarie al leader repubblicano, che lo avevano contrastato nel corso della sua prima presidenza, ora si sono accodate al suo carro, rivedendo anche policy che sembravano irrinunciabili. Questo “giro di valzer” non è causato tanto dal compiacimento nei confronti della nuova amministrazione, ma dalla constatazione che il vento sta cambiando nell’intero mondo occidentale. In altre parole, Trump non è la causa, ma un effetto, un sintomo del rivolgimento politico in atto anche in Europa, che potrebbe stravolgere gli equilibri del continente già alle imminenti elezioni tedesche. Le nuove consultazioni saranno in grado di introdurre una strategia Europe first, in grado di sostituire politiche inadatte al sostegno di un’economia Ue in crisi? Presto per dirlo. Certamente, la composizione “in carta carbone” della Commissione von der Leyen 2 non induce a ottimismo. Ma, è bene ripeterlo, le elezioni tedesche (ed eventualmente un nuovo voto in Francia) hanno la possibilità di far saltare il banco. E di mettere in primo piano l’obiettivo di fermare la divaricazione fra lo sviluppo dell’economia americana e di quella europea, che si fa sempre più pronunciata.









