Stati Uniti, la luce in fondo al tunnel
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Primo passo verso la fine dello shutdown americano, che ha bloccato per 40 giorni vari settori del Paese, intaccando i sussidi alimentari per milioni di americani, il lavoro di vari dipendenti federali, la diffusione dei dati sull’economia Usa, la regolarità dei voli aerei e diverse altre attività. Il provvedimento introdotto per consentire il ritorno alla normalità è stato sancito lunedì scorso dal Senato, che lo ha approvato anche grazie al “sì” di otto democratici (in tutto, sono stati 60 i favorevoli e 40 i contrari). La palla ora passa alla Camera dei rappresentanti, che presto dovrebbe rendere definitivo il provvedimento e, compatibilmente con i tempi tecnici legati al ripristino, permettere di tornare rapidamente alla situazione ordinaria. Per un periodo limitato, però, perché non si tratta di un’intesa definitiva, ma di un accordo-tampone, che assicura l’estensione dell’attuale budget fino a fine gennaio. Qual è stata la molla che ha interrotto un braccio di ferro che sembrava di difficile soluzione? Molto probabilmente, i parziali blocchi dei voli: gli Stati Uniti possono rinunciare a molte cose, ma non a un traffico aereo regolare.
I mercati volano
L’ottimismo sul ritorno alla normalità negli Stati Uniti, che si era diffuso già domenica dopo una seduta straordinaria del Senato, ha dato fiato alle Borse, dopo le difficoltà incontrate la scorsa settimana. L’ottima prestazione coinvolge anche i listini americani, che avevano subito un arretramento soprattutto a causa dei tecnologici e hanno reagito all’accordo anti-shutdown con una forza inaspettata. D’altra parte, siamo in epoca di calo dei tassi, e quando la Federal Reserve taglia, i mercati salgono. Unica rilevante eccezione a questa regola non scritta si è verificata nel 2007, ma a causa del ciclone-subprime. In generale, ci sono i presupposti perché le Borse continuino a macinare performance, anche se forse con ritmi più lenti rispetto a ora: vedremo se a dicembre gli indici rallenteranno come fanno sempre, nel classico calo di volatilità che si manifesta prima di Natale. Non è escluso uno storno, ma piuttosto limitato: se le Borse calassero di una percentuale vicino al 5% ci sarebbe molto da stupirsi. Per ora, i mercati si godono l’euforia che ha coinvolto anche l’oro – il cui cedimento aveva moltiplicato le domande e i dubbi riguardante il futuro degli investimenti nel “re dei metalli” – e l’argento: entrambi sono tornati a correre.
Il dubbio della Federal Reserve
L’eventuale ripresa delle attività non essenziali sbloccherà, anche le informazioni sul mercato del lavoro, al momento impossibili da rilevare per la mancanza di personale. Finora, sono disponibili solo dati privati: secondo il report di Challenger, Gray e Christmas è avvenuto un deciso indebolimento, con 150.000 tagli a ottobre (contro i 50.000 attesi). Un valore che mostra un rallentamento dell’economia americana, anche se il dato è chiaramente influenzato dallo shutdown, e non solo dai licenziamenti provvisori dei dipendenti pubblici, ma anche dall’inevitabile ripercussione sul settore privato. Inoltre, ci vorrà il suo tempo per il ritorno ai normali ritmi di comunicazione, soprattutto per i dati più recenti, e si dovrà attendere gennaio o febbraio per comprendere i veri riflessi del blocco sul settore privato. Tutto questo potrebbe convincere la Federal Reserve a procedere con i piedi di piombo per quanto riguarda le prossime mosse; se però la situazione si confermasse in peggioramento, Jerome Powell potrebbe decidere di effettuare un altro taglio il prossimo dicembre, che tra l’altro è stato già scontato dal mercato. Ci si aspetta, per il 2026, una sforbiciata di 50 punti base, distribuiti in due parti diverse dell’anno.
Mps in grande spolvero
Le vicende di oltre oceano non distraggono l’attenzione di Piazza Affari dagli eventi di casa nostra. Come l’utile di Mps, migliore di quanto ci si aspettasse. La banca senese ha chiuso i nove mesi raggiungendo 1,37 miliardi di euro, a +17,5% su base annua, al netto degli effetti positivi delle imposte. Il terzo trimestre ha fruttato 474 milioni (+16,5%). Gli utili di Montepaschi hanno fatto bene al suo titolo (trainando l’intero settore bancario in Borsa) che si è dimostrato il migliore a Piazza Affari e l’azione finanziaria più performante in Europa; ciò ha sottolineato che il valore della banca era a sconto. E che il mercato guarda attentamente i numeri.
Intelligenza artificiale, Amazon contro Perplexity
Mentre gli investitori si interrogano se ci sarà o meno una bolla, l’intelligenza artificiale è protagonista nei tribunali. Amazon ha infatti citato Perplexity, proprietaria dell’AI agent Comet che proprio con l’IA compra merce on line al posto dei clienti, senza certificare la sua natura ed eludendo così i blocchi di sicurezza del portale di e-commerce. Il contenzioso potrebbe fare giurisprudenza negli Stati Uniti sulla liceità o meno degli agenti IA d’acquisto e delle deleghe date dall’utente per fare shopping nel web. E’ difficile prevedere chi vincerà questa battaglia legale: certo è che l’IA è ancora agli albori, e nei prossimi anni ne vedremo delle belle. O delle brutte, date le ripercussioni che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale potrebbero avere sui posti di lavoro. Lo ha ricordato anche Papa Leone XIV dopo la sua elezione, attribuendo proprio a questo problema (e alla necessità di una nuova Rerum Novarum) la scelta del suo nome pontificale.
Il taglio dell’Irpef
La manovra di bilancio proposta dal governo italiano è stata “bollinata”. Tra i provvedimenti, il taglio dell’Irpef per oltre 13 milioni di contribuenti (dal 35% al 33% per i redditi compresi da 28.000 a 50.000 euro). Critiche sono giunte da Banca d’Italia, secondo cui il provvedimento non cambierà in modo significativo “la disuguaglianza nella distribuzione del reddito”. Una tendenza a cui si è allineata l’analisi dell’Istat, per cui l’85% del denaro utilizzato per il taglio dell’Irpef si applicherà ai due raggruppamenti con gli stipendi più elevati (l’istituto aveva diviso i cittadini in cinque gruppi). Il giudizio di Banca d’Italia sembra, però, influenzato da un pregiudizio politico: lascia perplessi che si possa considerare un “paperone” chi guadagna più di 30.000 l’anno, che fa invece parte integrante del ceto medio.
Crediti d’imposta edilizi, stop alla compensazione
Ha fatto molto discutere anche lo stop alla compensazione dei crediti d’imposta edilizi con i debiti di tipo previdenziale e contributivo: il divieto, finora limitato a banche e intermediari finanziari, viene esteso a tutti. In questo caso, le proteste sembrano più motivate, anche perché la norma ha spirito retroattivo: è vero che la nuova situazione scatterà dal 1 luglio 2026, ma è altrettanto palese che c’è chi ha già acquistato i crediti e resterà presumibilmente con il cerino in mano. Uno dei principi cardine della tassazione è che non ci può essere nulla di retroattivo, e di questo la Corte Costituzionale ne dovrà tenere conto. L’utilizzo della compensazione dei crediti edilizi era stato ammesso quando le banche avevano esaurito il plafond per i prestiti alle aziende del settore: con una misura del genere, si rischiano fallimenti, che a fronte di un risparmio iniziale per lo Stato causerebbero in un secondo momento danni maggiori all’erario.
Luci a San Siro
Il Comune di Milano ha siglato il rogito con Inter e Milan sul passaggio di proprietà dello stadio “Meazza”. Con il documento, l’impianto e le aree vicine diventano proprietà delle due società di calcio, che hanno sborsato 73 milioni di anticipo, per una spesa complessiva che si attesterà a 197 milioni. Una volta ultimato il progetto, sapremo come sarà la nuova “Scala del calcio”: l’attuale impianto sarà probabilmente abbattuto e rimpiazzato con un nuovo stadio da oltre 70.000 posti, che – salvo intoppi – dovrebbe essere pronto per il 2027. Ricorsi permettendo: la Procura di Milano ha infatti aperto un’indagine per turbativa d’asta (anche se l’inchiesta è stata definita dal presidente rossonero Paolo Scaroni “un venticello”). Sull’operazione-San Siro sembra più saggio sospendere il giudizio. Almeno fino a quando si toccherà con mano in che modo Inter e Milan riqualificheranno la zona con spazi pubblici e se l’operazione sarà fruttuosa per i due club.
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L'intelligenza artificiale sulle montagne russe
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
L’intelligenza artificiale prima sale, poi scende. E’ tutto iniziato con l’accordo fra Amazon e Open Ai, intesa settennale che prevede la possibilità, per la proprietaria di ChatGpt, di utilizzare con effetto immediato il cloud di Amazon Web Services, per un corrispettivo di 38 miliardi di dollari. L’accordo, con cui Open Ai vuole ridurre la dipendenza da Microsoft e, nel contempo, utilizzare capacità di calcolo enormi, aveva inizialmente causato un balzo in avanti del 6% per il gruppo con sede a Seattle.
Il Nasdaq e le Borse asiatiche avevano reagito positivamente, per poi ripiegare: le vendite di azioni a New York si sono ripercosse anche in Estremo Oriente con una correzione importante, causata dai timori di una bolla. A influire sul calo delle Borse, che si è esteso all’Europa, anche la dichiarazione di David Solomon e Ted Pick, rispettivamente ceo di Goldman Sachs e Morgan Stanley, che durante una conferenza a Hong Kong hanno paventato un possibile storno molto severo nei prossimi due anni. “Una contrazione del 10%-15%”, ha detto Solomon, “accade spesso, anche nel corso di cicli di mercato positivi”; “dovremmo accogliere favorevolmente la possibilità che avvengano ribassi del 10%-15%”, ha confermato Pick, non spinti “da una specie di effetto macroeconomico”. Come sembra di capire, la sfida dell’intelligenza artificiale è solo all’inizio, e non sarà priva di ostacoli. Perché le valutazioni appaiono molto più alte rispetto al reale valore delle società: si stima, per esempio, che Nvidia, per sostenere il suo valore in Borsa, dovrà totalizzare almeno 150 miliardi di utile in cinque anni – traguardo da cui oggi sembra distante. Ma, a parte questo, c’è chi viaggia come un treno e chi rimane indietro: per ogni gruppo che corre, ce ne sono molti che arretrano, o scompaiono.
In ordine sparso
A influenzare il grafico in discesa si aggiungono i dubbi e le opacità legate all’accordo Stati Uniti-Cina su dazi e terre rare. Anche le Borse europee, come anticipato, si sono prese una pausa. Dopo vari mesi di chiusura in positivo, sono infatti arrivate vicine ai massimi, ma poi hanno aperto la nuova settimana in ordine sparso per, infine, arretrare. A questo si aggiunge il costante recupero del dollaro sull’euro (ora il rapporto fra le due valute veleggia su quota 1,15) e il ritracciamento dell’oro e dell’argento, nuovamente in ribasso rispetto ai massimi. Il petrolio è sempre in posizione soft, ma gli automobilisti non lo percepiscono: il rialzo del dollaro rende automaticamente un po’ meno conveniente il prezzo alla pompa, anche se siamo ben lontani dai valori del 2022. I bitcoin, infine, sono in discesa.
Top e flop
A Piazza Affari ha aperto la settimana in grande spolvero il titolo di A2A, che ha raggiunto i massimi da febbraio 2008. La prestazione dipende in buona parte da Morgan Stanley, che ha innalzato la valutazione sull’azienda energetica da equal weight a overweight, aumentando il prezzo target da 2,55 a 3,25. L’ottimo giudizio si è innestato in un periodo favorevole per il comparto delle utility, che ha coinvolto positivamente anche altre aziende, come Enel. Crollo invece per Campari, dopo il sequestro di azioni per oltre 1,2 miliardi di euro della controllante lussemburghese Lagfin, accusata di “dichiarazione fraudolenta mediante artifici” e di “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”. Il titolo ha pagato dazio anche se, ha puntualizzato Lagfin in una nota, la questione riguarda la stessa holding e non il gruppo Campari, né la società italiana “Davide Campari-Milano” e neppure altre aziende controllate. La holding si è comunque detta “certa di avere sempre operato nel pieno rispetto di tutte le norme, incluse quelle fiscali italiane”, affermando che “si difenderà vigorosamente con sereno rigore in tutte le sedi deputate”.
Taglio Fed: sì, ma…
Mentre la Bce lascia il costo dell’euro invariato, negli Stati Uniti si allenta ancora la stretta monetaria: la Federal Reserve ha tagliato nuovamente i tassi di 25 basis point, abbassando la forbice fra il 3,75% e il 4%. Ci si attende un altro intervento a dicembre, anche se un’eventuale persistenza delloshutdown americano rischia di far saltare l’eventuale taglio di fine anno (comunque già scontato dagli investitori) o di posporlo a gennaio o febbraio 2026. Per il momento, il mercato del lavoro americano non è a rischio; tuttavia, il presidente della Fed Jerome Powell ha affermato che guidare immersi nella nebbia obbliga il conducente a un rallentamento. In questo caso, la mancata visibilità è causata dall’assenza di informazioni sul lavoro, che non vengono prodotte proprio a causa dello stop temporaneo alle attività non essenziali: per questo motivo, la sospensione (dei dati macro) ne causerebbe un’altra (degli interventi sul costo del dollaro). In una situazione che comunque vede un rallentamento già in atto del mercato del lavoro e nuovi rischi sul versante dell’inflazione. Tutti sperano che lo shutdown si trasformi presto un brutto ricordo; c’è però l’impressione che solo un passo indietro di Donald Trump – magari mascherato da atto di responsabilità e di attitudine al negoziato – possa risolvere la situazione in tempi brevi.
Tassa sulle banche, per Messina è “gestibile”
Mentre la tassa sulle banche fa discutere, Carlo Messina butta acqua sul fuoco. Precisando che per conoscere l’aliquota vera e propria occorrerà attendere il varo della manovra, l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ha comunque sottolineato: “L’impatto che potremmo avere sia sul risultato netto che sul patrimonio netto è completamente gestibile. E quindi non siamo assolutamente preoccupati per questo impatto”. Un’altra voce autorevole prova dunque a quietare le apprensioni legate a questo intervento: l’entità dell’imposizione, così come è stata anticipata, sembra accettabile, a fronte degli utili record raggiunti dagli istituti di credito. In ogni caso il titolo di Intesa, insieme Mps, sembra fra i più interessanti in un momento in cui si aprono opportunità interessanti nell’acquisto di azioni bancarie.
Scope ottimista sull’Italia
Interessante anche, in un’ottica più macro, l’investimento sul sistema Italia: anche Scope, agenzia di rating con sede a Berlino, ha confermato la valutazione BBB+ dei buoni del tesoro tricolori, ma con un outlook passato da “stabile” a “positivo”.
I vari miglioramenti dimostrano che qualche passo in direzione di un approccio virtuoso è stato compiuto: sia chiaro, l’Italia non ha superato i suoi problemi, ma ora è messa meglio di altri Paesi europei.
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Dazi: altro giro, altro “regalo”. Reazione moderata dalle Borse
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Ancora i dazi al centro dell’attenzione. Donald Trump ha scritto a 14 Paesi di tutto il mondo altrettante lettere per tracciare i contorni delle tariffe doganali annunciate per il 9 luglio, allo scadere cioè dei 90 giorni di sospensione decisi nei confronti di vari Stati. L’entrata in vigore dei balzelli contro i membri Ue è stata posticipata al 1 agosto, in omaggio a una dinamica di annunci e rinvii che abbiamo imparato a conoscere.
Niente panico
L’ennesimo capitolo della telenovela-dazi ha costretto le Borse, soprattutto quelle americane, a ripiegare, ma non eccessivamente. L’altrettanto consueto rinvio ha poi portato reazioni miste. Nulla di clamoroso, dunque: dopo il grande calo di inizio aprile e il recupero quasi completo delle posizioni precedenti ora le Borse sembrano essersi abituate ai vari salti in avanti e passi indietro di Trump, e reagiscono moderatamente agli stimoli negativi. E’ la classica reazione che si verifica quando si assiste a frequenti allarmi “Al lupo! Al lupo!”. Sperando, naturalmente, che il lupo non arrivi davvero. I mercati hanno imparato a concentrarsi più sui numeri che sulla schizofrenia, alimentata da alcuni titoli di giornali che, però, non spaventano più la maggior parte degli investitori. Preoccupa maggiormente la svalutazione del dollaro, che da inizio anno ha perso il 15%: un biglietto verde debole introduce un dazio de facto, che non fa bene alle aziende europee.
Wall Street rifiata
Le Borse americane hanno sofferto un po’ di più, ma sono state influenzate maggiormente dalla necessità fisiologica di fermarsi dopo la corsa travolgente degli ultimi 15 giorni, che ha riequilibrato il gap con i mercati europei, protagonisti di una sovraperformance nei primi sei mesi dell’anno. Non tutti gli investitori in Wall Street, però, hanno potuto approfittare di questo picco: si è infatti verificata una grande dispersione dei rendimenti, con alcuni settori che hanno evidenziato prestazioni molto deludenti (dallo “zero virgola” all’1,5%) e altri che hanno sfiorato le due cifre.
Dazi cinesi
Se gli indici hanno reagito moderatamente agli stimoli negativi dei dazi, non è così per l’economia, su cui le percentuali in vigore (e, come detto, il calo del dollaro) impattano in maniera molto pesante. Il settore del commercio è sicuramente spaventato anche dalle tariffe annunciate a sorpresa dai cinesi su grappe e brandy europei (che in pratica rispondono ai dazi Ue sulle auto elettriche). Le aziende del vecchio continente, inoltre, non potranno fornire dispositivi medici del governo di Pechino – decisione, quest’ultima, che controbilancia una misura simile già introdotta da Bruxelles.
Se c’è una cosa che occorre evitare è una guerra commerciale con la Cina. Anche perché la leadership di Pechino, diversamente da Trump, non è abituata ad annunciare misure per poi revocarle.
Mossa anti-Brics
A proposito di Cina, il presidente americano ha anche minacciato di applicare tariffe doganali supplementari del 10% ai Brics e a chi ne sostiene le politiche, puntualizzando che non ci sarà alcuna eccezione. Una mossa che, se attuata, potrebbe avere un impatto forte sull’economia mondiale, come hanno sottolineato i Paesi che potrebbero essere colpiti da questo nuovo balzello: i Brics rappresentano il 40% della produzione e la metà della popolazione del pianeta. Quali le ragioni di un affondo così significativo nei confronti dell’altra metà del mondo? Le ragioni principali sembrano due. Da un lato, agli Stati Uniti fa paura la dedollarizzazione che, soprattutto dopo le sanzioni alla Russia, i Brics hanno intrapreso, mettendo in discussione l’equilibrio di Bretton Woods. D’altro canto, Trump non vede tradizionalmente di buon occhio la delocalizzazione, che ha favorito il trasferimento della produzione oltre confine, con costi molto inferiori rispetto a quelli occidentali e la conseguente deindustrializzazione. Non per niente, il primo Trump aveva cercato di porre rimedio cercando di reimportare le produzioni strategiche, soprattutto nella tecnologia. Il sogno di un Occidente in grado di riprendersi l’industria, però, è poco più che un’utopia. Poniamo il caso di Apple: se la multinazionale di Cupertino dovesse portare nuovamente la produzione negli Stati Uniti, il prezzo al consumatore raddoppierebbe. Con un aumento molto forte dell’inflazione.
Le tariffe fermano il taglio dei tassi
I dazi di Trump hanno anche fermato i programmati tagli dei tassi da parte della Federal Reserve. Lo ha detto senza peli sulla lingua il presidente Fed Jerome Powell nel corso del simposio di Sintra, appuntamento annuale di confronto tra le banche centrali. Powell, applauditissimo dai colleghi, ha affermato che era prevista la possibilità di un taglio già il prossimo luglio, dato che l’economia Usa viaggia bene e l’inflazione non sta offrendo sorprese, ma che l’intervento sul costo del dollaro è stato sospeso a causa delle possibili conseguenze dei dazi. Quello opposto da Powell non è, dunque, un “no” definitivo ai tagli, ma una posizione di attesa e osservazione di ciò che potrebbe accadere in tema di tariffe doganali. La posizione del numero uno della Fed è, dal suo punto di vista, ampiamente giustificata. Il “tira e molla” non fa bene all’economia e l’introduzione dei dazi crea inflazione, anche se una tantum e temperata (per ora) dal prezzo basso del petrolio. La Fed, sembra di capire, resterà ferma finché la situazione non sarà più chiara, rivendicando ancora una volta autonomia nei confronti del potere politico.
Il partito di Musk
Non sono solo i dazi ad agitare la politica di oltre oceano: Elon Musk ha annunciato la fondazione dell’America Party, terzo polo che punta a superare il bipartitismo tipico delle dinamiche statunitensi. La comunicazione è stata ufficializzata dopo l’approvazione (a strettissimo margine) del Big Beautiful Bill, che nonostante i tagli al sistema sanitario porterà il debito pubblico a un aumento considerevole, grazie anche a sgravi fiscali e crescita delle spese militari. Musk ha affermato che il Bill rischia di portare gli Stati Uniti al fallimento, e gli ha contrapposto un programma da “Paese frugale”: riduzione del debito, solo spesa “responsabile”, modernizzazione dell’esercito con l’intelligenza artificiale, massiccio uso della tecnologia e della stessa IA, meno regolamentazione in generale, e specialmente nell’energia, libertà di parola, politiche per la natalità e, per il resto, politiche centriste. Nell’immediato, Musk cercherà di portare al suo nuovo movimento qualche parlamentare repubblicano deluso, per imporsi, almeno inizialmente, come ago della bilancia fra i due partiti rappresentati al Congresso. In prospettiva, il patron di Tesla vuole attaccare quello che ha definito “bipolarismo tossico” e che, a suo parere, è un monopartitismo mascherato. Che, però, è difficile scalzare, soprattutto se si parte da zero. Nella concezione anglosassone, un’operazione simile a quella che in pochi mesi portò Silvio Berlusconi al potere non è per niente facile. In passato, negli Stati Uniti si sono verificati esempi di “terzi candidati alla presidenza” che, però, hanno solamente sortito l’effetto di favorire uno dei due contendenti: il magnate Ross Perot, che nel 1992 ha eroso un ampio consenso ai repubblicani favorendo la sconfitta di George Bush senior, e Ralph Nader, che – pur ottenendo molti meno voti – ha fatto lo stesso nel 2000 con i democratici, danneggiando Al Gore. C’è da dire, però, che Musk ha a disposizione denaro quasi infinito, oltre che tecnologia come mai nessuno prima e la “corazzata” social X. Il primo test sarà costituito dalle elezioni di mid term, che sono più vicine di quanto si percepisca.
Trump-Musk, una lite “spaziale”
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Fra Donald Trump ed Elon Musk ormai è scontro aperto. Dopo le prime schermaglie, la querelle è sfociata in una vera e propria escalation a suon di attacchi incrociati, anche di tipo personale. La fine della “luna di miele” fra il presidente degli Stati Uniti e il suo ormai ex best buddy era stata prevista da vari commentatori fin dall’inizio: l’ego dei due – si diceva – è troppo smisurato perché l’idillio possa durare. E così è stato: la collisione è avvenuta e ha fatto il botto.
L’escalation
La rottura, però, non è giunta all’improvviso. Già prima ancora di insediarsi, Trump aveva annunciato senza ombra di dubbio il ridimensionamento della strategia “avanti tutta” sull’auto elettrica: pur non reagendo apertamente, Musk – come è logico immaginare – non aveva di certo accolto la riapertura al fossile brindando a champagne. Discorso diverso per i dazi, criticati dal magnate sudafricano, che più tardi – cioè al momento di lasciare il Doge – aveva rincarato la dose, contestando duramente gli sgravi fiscali e i mancati tagli al bilancio. L’esternazione di Musk ha innescato uno scontro sempre più duro, con un rapido e progressivo aumento di intensità e uno scambio di accuse e minacce miserevoli.
Allarme Space X
La lite fra Trump e Musk, però, non è soltanto la semplice rottura fra un leader politico e un suo grande finanziatore e collaboratore. Perché l’imprenditore sudafricano ha una posizione dominante nel programma spaziale Usa, che è legato in gran parte alla sua SpaceX. Se Musk decidesse di negare tutto a un tratto agli Stati Uniti l’utilizzo della navicella per trasportare gli astronauti americani sulla Stazione Spaziale Internazionale (cosa che ha già minacciato, per poi ritrattare), la Nasa non disporrebbe più di collegamenti fra terra e spazio. Portando magari Trump a chiedere un “passaggio” a Vladimir Putin e a utilizzare le strutture russe. Un eventuale stop alla collaborazione fra governo Usa e SpaceX – comunque regolata da un contratto – avrebbe anche ripercussioni sulla difesa. E’ per questo che Nasa e Pentagono stanno cercando alternative. Un “piano B” urgente, anche se Space X è un’infrastruttura troppo centrale per essere abbandonata. La pace fra i due nuovi ex amici sembra difficile; tuttavia entrambi ci hanno abituati a giravolte e passi indietro, e potrebbe presentarsi un alibi per una riconciliazione. Come, per esempio, la posizione comune dei due nei confronti dei gravi disordini in corso in California, per cui Trump ha mobilitato Guardia Nazionale e marines.
Bce e Fed, pianeti diversi
Se la rottura fra Trump e Musk è cosa recente, le frizioni con Jerome Powell (anch’egli repubblicano) si trascinano da un po’ di mesi. Non è dato di sapere se l’inquilino della Casa Bianca manterrà il presidente della Federal Reserve al suo posto fino a fine mandato, previsto per fine gennaio 2028; tuttavia, la dichiarazione di Trump (secondo cui il nome del nuovo leader Fed “sarà rivelato presto”) lascia aperta anche la possibilità di una sua sostituzione anticipata. Intanto Powell – con grande disappunto di Trump – resiste e non abbassa i tassi, proseguendo nella linea hawkish che distanzia la Fed dalla Bce. L’Eurotower, infatti, ha optato per la scelta opposta, effettuando un ritocco da 25 punti base, il quarto dell’anno. La discesa del costo dell’euro dal 2% all’1,75% non cambia molto nella vita di imprese e famiglie: una politica monetaria equivalente o minore del 2% è compatibile con il tasso di equilibrio che identifica una situazione normale – a condizione che i tassi non tornino negativi.
Le Borse tengono
Il costo basso del denaro spiega il motivo per cui le Borse europee tengano bene (e meglio di quelle americane, pur in recupero) nonostante l’economia stagnante. Siamo ora in attesa dei dati relativi al secondo semestre, che probabilmente ci confermeranno un andamento in tono minore, ma sempre in leggera salita. Non c’è infatti motivo che giustifichi una discesa delle Borse, nonostante il moltiplicarsi dei problemi geopolitici e istituzionali, contro cui i listini si sono dimostrati discretamente impermeabili. Per chi ha liquidità, potrebbe essere una buona scelta mantenere le azioni in portafoglio e magari optare per acquisti selezionati nei titoli utility (che offrono buoni dividendi e sono molto difensivi, nel caso in cui i mercati ripieghino) e petroliferi, vista la quotazione attuale.
Successo Btp
Chi ha optato per rendimenti sicuri ha invece contribuito al “tutto esaurito” nel collocamento dei nuovi Btp. Sebbene le performance siano comprese fra l’1.85% e il 2.30% e malgrado ci sia molto meglio sul mercato, i buoni del tesoro sono andati a ruba, spinti anche dalla fiducia nell’investimento senza rischi e nei record dello spread, arrivato sotto quota 95.
Investimenti, occhio alle truffe
La Consob, intanto, ha puntato un faro sui finfluencer, cioè personaggi dei social network che si propongono come consulenti agli utenti internet. L’authority ha ricordato che non basta proporsi al pubblico e promettere mari e monti per essere credibili: il settore degli investimenti finanziari è molto delicato, e per operare occorre essere operatori seri, scrupolosi e soprattutto autorizzati. Se l’influencer finanziario lo è – se cioè rispetta le stringenti regole europee – non ci sono problemi. Altrimenti occorre ignorarne le lusinghe di guadagni facili e senza rischi. “I risparmiatori che accedono ai contenuti condivisi dai finfluencer”, ha scritto infatti la Consob, “devono evitare di assumere decisioni di investimento in maniera affrettata, esclusivamente sulla base di quello che altri fanno (“effetto gregge”) o sulla spinta emotiva di informazioni generiche e non verificate in merito al tipo di investimento e alla persona che le fornisce”. Attenzione dunque a “presunte occasioni di investimento prospettate come altamente redditizie nonché prive di rischio a fronte di esborsi limitati: bisogna sempre ricordare, infatti, che gli investimenti finanziari comportano l’assunzione di un certo grado di rischio. Particolare cautela anche nei riguardi dei possibili conflitti di interessi in capo a chi diffonde informazioni rispetto agli investimenti oggetto di valutazione. Le decisioni di investimento vanno assunte in modo consapevole e informato, prestando la massima attenzione”.
Le avvertenze delle autorità di vigilanza sulle possibili truffe negli investimenti vogliono, in fondo, comunicare lo stesso messaggio contenuto in tono fiabesco dalla storia di Pinocchio: nessuno, sotterrando gli zecchini, ha mai assistito alla crescita di un albero colmo di monete. In un mondo, come quello del web, dove prosperano emuli “digitali” del Gatto e della Volpe, occorre riconoscere i loro metodi e non cadere nelle loro trappole, rivolgendosi solo agli intermediari autorizzati e consulenti finanziari iscritti all’albo.
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#fuoriluogo2024 - Taiwan: l'isola contesa
Grande successo di pubblico per Giulia Pompili, giornalista del “Il Foglio” che sabato 7 settembre ha tenuto un workshop, aperto alle domande del pubblico, dedicato a Taiwan e durante il quale ha delineato il quadro dell’area dell’estremo oriente che si presenta “calda” e periodicamente manifesta momenti di crisi, in grado di coinvolgere l’intero pianeta.
Ha risposto con puntualità e disponibilità alle molte domande di un pubblico attento e interessato. Grazie Giulia
Borse ai livelli di fine luglio: torna la calma piatta
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Si è chiuso l’agosto “pazzo” delle Borse, che ha visto i mercati calare vistosamente e poi recuperare, chiudendo il mese più o meno ai livelli di fine luglio. Dopo la performance negativa e la lenta risalita, una serie di correzioni velocissime ha innescato un recupero deciso nel corso delle ultime tre settimane, annullando lo storno. E facendo scattare una sorta di ripartenza da zero, come accade nel Monopoli o nel gioco dell’oca. E la chiamano estate, verrebbe da dire.
Appuntamento con i tassi
Ora sulle Borse è tornata la calma piatta. Ed è consigliabile, per gli investitori, un atteggiamento consono alla situazione attuale. Vale a dire: attesa, magari con qualche acquisto di titoli energetici, almeno finché il petrolio manterrà livelli medio-bassi. Se nel prossimo futuro non si verificasse un evento particolare, in grado di influenzare gli scambi, il livello dei mercati potrebbe rimanere calmo e poco perturbato almeno fino alle elezioni presidenziali americane del prossimo novembre. Fino ad allora, l’avvenimento top sarà l’ormai scontato taglio dei tassi che a settembre sarà operato dalla Fed e quasi sicuramente anche dalla Bce. E questo, nonostante le resistenze dei falchi, più precisamente di Joachin Nagel. Il governatore della Bundesbank ha suggerito all’Eurotower di non procedere troppo velocemente ai tagli, confermando la posizione storica della banca centrale tedesca. Una situazione curiosa, visto che proprio i dati relativi all’inflazione riscontrati a Berlino hanno convinto la Bce ad ammorbidire la politica monetaria, e che il sentiment prevalente in Germania è ormai contrario alla prosecuzione delle restrizioni. Si sa che le banche centrali vogliono sempre mantenere un’indipendenza (o pseudo tale) rispetto alla politica, e che la Bundesbank è tradizionalmente refrattaria a certe operazioni. Ma la Bce non può esimersi dall’offrire un’ancora di salvataggio che possa rivelarsi uno stimolo per l’economia europea. Soprattutto per quella tedesca, la cui congiuntura negativa sembra molto più lunga del previsto e rischia di trascinare con sé l’intera Europa.
Elezioni-terremoto
La crisi economica tedesca, con i suoi annessi e connessi, ha favorito la clamorosa vittoria dell’estrema destra di Afd e il contemporaneo balzo avanti della sinistra radicale di Sahra Wagenknecht nelle elezioni in Turingia e in Sassonia. Pur trattandosi di consultazioni locali, sembra riproporsi lo scenario che si è già verificato in Francia, con le elezioni-blitz indette dal presidente Emmanuel Macron, i cui risultati hanno creato un’instabilità di lungo periodo e di difficile risoluzione. Le Borse, ricordiamolo, avevano reagito solo in un primo tempo alle elezioni transalpine, finendo poi di ignorare le lunghe consultazioni che finora non hanno permesso di formare un governo a Parigi. Una situazione molto problematica, dato che la legge francese non consente di tornare al voto in tempi brevi e che a fine settembre la République dovrà iniziare a discutere la Finanziaria. In un puzzle non certo semplice da comporre: Parigi ha seri problemi di bilancio, con il deficit che viaggia sopra il 5%, e l’incertezza politica che non aiuta di certo. A complicare ulteriormente le cose c’è il ritorno del patto di stabilità, che obbligherà i Paesi in difficoltà a tagliare le spese, proprio in un periodo in cui sarebbero necessari investimenti e cordoni della borsa aperti per rilanciare le economie in crisi e per aiutare la parte meno abbiente della popolazione.
Banche, versamenti maxi al fisco
In un’economia che zoppica, c’è qualcuno che brinda. Sono le banche, capaci di recuperare le perdite di inizio agosto e di incamminarsi verso nuovi record. Un dato curioso rivela quanto gli istituti di credito siano in salute: secondo un’analisi della Fabi, dal 2019 al 2023 i primi cinque gruppi bancari italiani hanno versato all’erario 20 miliardi: 6,1 nel 2019, 1,9 nel 2020, 1,7 nel 2021, 3,3 nel 2022 e 6,7 nel 2023, l’anno d’oro. La progressione iniziata dal 2022 in avanti, a quanto ci si aspetta, dovrebbe portare i gruppi creditizi a liquidare ben 8 miliardi alla fine di quest’anno. Una buona notizia, se non fosse per un paradosso: non sempre le aziende di credito utilizzano i loro utili per liberare stimoli per l’economia. Che invece avrebbe disperato bisogno di un sostegno, per poter combattere la crisi e svoltare nuovamente.
Bigtech, sale il consumo energetico
Nel mondo, si intensifica la guerra ai consumi energetici. Ma alcune bigtech sembrano – volente o nolente – imboccare il percorso opposto. Secondo un’analisi del sito Tom’s Hardware, effettuata sui dati della U.S. Energy Information Administration, nel 2023 Google e Microsoft hanno consumato più energia di 100 stati sovrani in tutto il mondo. Questa tendenza stride con le promesse delle stesse grandi aziende della tecnologia, che si erano impegnate a diminuire i consumi. La responsabilità sembrerebbe essere dell’intelligenza artificiale generativa, che ha portato questi gruppi a drenare un quantitativo enorme di energia. Le cause di questo fenomeno, come si è visto, possono anche non essere addossate alla volontà di queste imprese, che potrebbero essersi viste costrette dalle circostanze ad aumentare i consumi; tuttavia, spesso si giudica questo settore con una certa ipocrisia: mentre si invocano restrizioni “verdi” per le automobili, al settore tech si tende a perdonare tutto. Lo dimostra anche l’attenzione verso il bitcoin, che consuma quantitativi altissimi di energia elettrica, ma è stato protagonista persino di un Etf. E questo nonostante l’alto quantitativo di fabbisogno energetico della principale criptovaluta, capace di dare fondo a un quantitativo di energia maggiore rispetto a quello utilizzato da un Paese come l’Argentina. Occorrerebbe, insomma, una narrazione più coerente e meno improntata ai doppi standard che ultimamente stanno imperversando nell’economia e non solo.
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La Fed annuncia il taglio dei tassi. E le Borse brindano
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Era dato per scontato e infatti è successo per davvero: durante il simposio annuale di Jackson Hole, Jerome Powell ha annunciato l’imminente taglio dei tassi negli Stati Uniti. “E’ arrivato il momento di aggiustare la politica monetaria”, ha detto il presidente della Federal Reserve: “la direzione di marcia è chiara”. La decisione dipende dalle dinamiche del mercato del lavoro Usa che – ha ricordato Powell – si è “notevolmente raffreddato”, in un contesto che oltretutto non dipende da una crescita, non avvenuta, dei licenziamenti.
Incertezze sull’entità
A settembre, dunque, la Federal Reserve interverrà sul costo del dollaro, anche se non è ancora stata decisa l’entità del taglio: il ritmo, ha detto Powell, dipenderà dai dati. Non è quindi noto se la sforbiciata sarà di 25 o di 50 centesimi; nel primo caso ci si attende poi un altro calo, sempre dello 0,25%, prima delle elezioni americane, mentre nella seconda ipotesi tutto lascia presagire che non ci saranno più movimenti prima di novembre. Nonostante questa incertezza, l’intervento di Powell si è rivelato sufficiente per dare fiato alle Borse, che hanno reagito con rialzi generalizzati: Wall Street ha chiuso in positivo, i listini asiatici hanno recuperato le perdite e Piazza Affari ha archiviato la settimana di contrattazioni con un +1% circa, vestendo la simbolica maglia rosa europea. Dopo il patatrac di inizio agosto, dunque, le Borse sono tornate a offrire performance: il forte calo dipendeva da varie concause (prima tra tutte l’apprezzamento dello yen) su cui si è avventata una forte dose di speculazione; ciò ha favorito un rapido rientro delle quotazioni. La Borsa di Milano, per esempio, ha recuperato gran parte delle perdite accumulate: all’allineamento con i valori precedenti manca una percentuale compresa fra il 2% e il 3%, dinamica che può essere spiegata con la stagione dei dividendi, senza la quale Piazza Affari sarebbe probabilmente in linea con i numeri di luglio.
Bce cauta
Abbiamo parlato della Fed. E la Bce? Come da tradizione, Francoforte ha affrontato il palco di Jackson Hole con molta più cautela. Philip Lane, capo economista dell’Eurotower (la presidente Christine Lagarde non era presente), ha infatti espresso buone sensazioni sulla marcia dell’inflazione verso il 2%, ricordando però che il target non è ancora stato raggiunto. E che ci vorrà ancora del tempo, probabilmente fino alla fine del prossimo anno.
Quindi, l’insicurezza sul traguardo obbliga, secondo Lane, a rimanere in territorio restrittivo fino a quando occorrerà. Anche se, ha aggiunto il capo economista Bce, non bisogna esagerare, per evitare ulteriori danni all’economia.
La fase attuale dell’inflazione europea dipende soprattutto dalla crisi di Hormuz, che ha fatto lievitare alcuni prezzi, primo tra tutti il costo del caffé: è quindi un fenomeno di derivazione geopolitica, e non causato dalla domanda. Dall’altro lato, però, ci sono i pericoli di recessione, con cui occorre inevitabilmente fare i conti. Ancora una volta, dunque, Francoforte è chiamata a un intervento di equilibrismo: per questo motivo, le dichiarazioni di Lane non implicano necessariamente un nuovo immobilismo della banca centrale sui tassi. Quindi è probabile che, a ruota della Federal Reserve, anche la Banca Centrale Europea (che un taglio, in fondo, lo ha già operato) opti per un’aggiustatina al costo dell’euro il prossimo settembre. A chiederlo è persino la Germania, che solitamente si schiera sul fronte opposto: le difficoltà economiche di Berlino, causate soprattutto dall’addio forzato alla politica di approvvigionamento di gas russo a basso costo, hanno armato le autorità tedesche di una dose di sana Realpolitik. Nonostante la cautela di Lane, dunque, la Bce darà molto probabilmente un “colpetto” di 25 punti a settembre, per poi congelare i tassi per alcuni mesi. Ancora una volta si guarderà più all’inflazione che non alla situazione critica dell’economia europea, che necessiterebbe di interventi ben più aggressivi.
Dollaro in picchiata
Il salto di Powell nel nido delle colombe ha avuto effetti negativi sulla quotazione, già debole, del dollaro. Il biglietto verde veleggia tra 1,10 e 1,20 proprio a causa del nuovo approccio aggressivo sui tassi della Fed, a causa del quale vari investitori hanno smontato alcune tra le loro posizioni sulla valuta americana. Occorre però ricordare che, per l’economia Usa, il calo del dollaro non rappresenta una catastrofe, come sarebbe invece per l’euro: gli Stati Uniti sono abituati a svalutare la loro moneta per rendere l’economia competitiva. Questa politica è resa possibile anche dall’assenza di vincoli sul debito, che porta Washington a creare deficit (oggi all’8%) senza particolari problemi, e tanto meno drammi. In ogni caso, sembra più probabile un dollaro assestato verso la quotazione di 1,10 piuttosto che una marcia verso il livello di 1,15.
Franco e oro, continua la corsa
Continua invece a correre il franco svizzero, che sconta il suo ruolo di bene rifugio e risente particolarmente del taglio dei tassi (tra l’altro molto più bassi rispetto a quelli di Bce, Fed e Boe) già attuato dalla Banca Nazionale Svizzera. La moneta elvetica si è ancora una volta avvicinata pericolosamente al record di 0,93 centesimi sull’euro, anche se finora non ha più toccato quel valore. Impressionante anche la quotazione dell’oro, che ormai si è stabilizzato oltre i 2.500 dollari l’oncia, anche grazie ai tassi e alla necessità, non tramontata, di coprirsi dall’inflazione e dai suoi colpi di coda.
Giorgetti contro la pianificazione del Pnrr
Ha fatto molto rumore la dichiarazione del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti, che ha criticato i fondi Pnrr, paragonandoli alla pianificazione quinquennale dell’Unione Sovietica del tempo che fu. Il titolare del Mef non ha tutti i torti: il Pnrr è stato concepito molto male, le sue tempistiche sono assurde e rischiano di creare danni, rendendo l’Europa ancora più incapace di rivelarsi competitiva sul mercato mondiale. Se l’Ue è una Ferrari a cui è stato montato il motore di un’utilitaria, un problema c’è. E la mancanza di autocritica costruttiva non è certo il modo più efficace di superarlo.
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Borse, continua il recupero
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Dopo il tonfo di inizio agosto, le Borse stanno recuperando. Soprattutto negli Stati Uniti, che, spinti dai titoli tecnologici, hanno già annullato le perdite. Promettente anche la ripresa dei listini europei, pur meno evidente rispetto alle performance di oltre oceano: il peso più lieve dei tecnologici nel nostro continente e la maggior presenza di titoli industriali rendono infatti la rimonta più lenta. Milano è tornata su quota 33.000, il 2,5% in meno rispetto ai livelli di luglio: Piazza Affari ha comunque tutti i numeri per poter raggiungere nuovamente le performance precedenti in tempi abbastanza contenuti.
Trading range
Per ora i livelli si sono assestati in un meccanismo di trading range: sono possibili rialzi e ribassi, e sui prossimi movimenti è possibile impostare la strategia di quest’ultimo scampolo di agosto: vendere qualcosa in caso di impennate del 2% o più oppure comprare se dovesse verificarsi una fase soft. A medio termine non è improbabile la ripresa della corsa verso nuovi record. Anche se nelle prossime ore i mercati eviteranno, probabilmente, troppi scossoni. Almeno fino alla chiusura dell’imminente simposio di Jackson Hole, previsto da domani al 24 agosto, che metterà a confronto, come da tradizione, vari banchieri centrali.
Taglio dei tassi, ora si fa sul serio?
Protagonista di Jackson Hole sarà, naturalmente, il dibattito sui tassi, che vedrà i maggiori istituti centrali del mondo confrontarsi e riorganizzare le loro strategie in vista di un settembre molto impegnativo. La Banca Centrale Europea, in particolare, sarà chiamata a decidere il prossimo 18 settembre; probabili due sforbiciate di 25 punti entro fine anno, la prima proprio in occasione del vertice del prossimo mese. La Federal Reserve, invece, potrebbe già anticipare in via informale l’annuncio del primo taglio proprio nel corso del simposio di Jackson Hole. Anche se la decisione è comunque in bilico: da un lato ci sono i timori di una recessione indotta dal rapporto sugli stipendi, che insieme alla crisi della Borsa giapponese è stata una delle cause scatenanti del tonfo di inizio mese; dall’altra influiranno i dati sull’inflazione e sulle vendite al dettaglio, che hanno controbilanciato le esigenze urgenti di diminuire il costo del denaro. Come trovare la quadra? Probabilmente rinunciando al maxi-taglio di emergenza da 50 punti e spalmando gli interventi al ribasso (forse tre, se non quattro fino a fine anno) da 25 punti l’uno. Dati l’interconnessione tra le economie e il rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro, Jackson Hole sarà, per le banche centrali, un’occasione per confrontarsi ed eventualmente coordinarsi prima di prendere una decisione.
Oro
E’ probabilmente l’aspettativa per il taglio dei tassi a raffreddare gli investimenti in titoli di stato a tre mesi e a un anno, che inevitabilmente rendono di meno quando la stretta monetaria si allenta. Il trend spinge, invece, i beni rifugio. A cominciare dall’oro, che inanella record su record: il re dei metalli ha superato per la prima volta la quotazione di 2.500 dollari l’oncia e sembra non volersi fermare. Il trend al rialzo coinvolge anche le altre materie prime, a partire dall’argento. Tuttavia, è bene ricordare il monito di Warren Buffett, secondo cui investire su un indice, alla lunga, dà risultati più soddisfacenti che non puntare sull’oro.
Franco svizzero
E’ ancora molto forte il franco svizzero, anche se ha leggermente perso rispetto al picco di 0.93 sull’euro raggiunto lo scorso 6 agosto, in piena bagarre borsistica. L’apprezzamento della valuta elvetica, considerata bene rifugio soprattutto in occasione di ribassi dei mercati, ha comunque molti nemici: primo tra tutti, la Banca Nazionale Svizzera, che in passato ha mantenuto a lungo a proprie (laute) spese il cambio a 1,20, prima di arrendersi all’insostenibilità dell’operazione. Le autorità elvetiche e la banca centrale vogliono evitare ulteriori apprezzamenti del franco per evitare due rischi: che siano danneggiate le esportazioni, assestando un colpo da ko all’economia, e che il fiorente turismo in Svizzera diventi un affare da ultraricchi.
Yen
Rimane elevato (anche se non come il 6 agosto) il valore dello , che guadagna soprattutto su un dollaro abbastanza debole. Il Nikkei, dopo il crollo e il successivo maxi-rimbalzo, si è invece riassestato, portandosi su valori non troppo distanti da quelli precedenti al tracollo. La presenza di compratori netti sui mercati azionari ha calmato il nervosismo; inoltre gli investitori hanno compreso che, nonostante l’inedita serie di rialzi da parte della banca centrale, i tassi in Giappone sono ancora molto bassi, e indebitarsi in yen non è diventato sconveniente.
Contante, mon amour
Sorprendente, ma neanche troppo, ciò che emerge da un’indagine del centro studi di Unimpresa, secondo cui in Italia si incrementa l’utilizzo dei contanti. I dati del 2023 evidenziano che il cash ritirato agli sportelli bancomat del Belpaese sale del 2% rispetto all’anno precedente. In soldoni, nel 2023 gli italiani hanno ritirato 360 miliardi di euro agli Atm, quasi un miliardo al giorno. Il contante è ancora re, dunque? Sembra di sì, anche se (sempre secondo Unimpresa) i pagamenti digitali se la passano comunque bene: le transazioni con carta hanno raggiunto, sempre nel 2023, 426 miliardi contro i 382 dell’anno prima. C’è dunque una compresenza tra i due metodi di pagamento, con prevalenza del contante – come del resto accade in Germania e in Svizzera – in opposizione al forte utilizzo di denaro elettronico che contraddistingue Gran Bretagna e Paesi nordici. Il ruolo del cash in una società che tende alla digitalizzazione non è assolutamente un fattore negativo, nonostante ciò che si usa dire. Perché la spesa elettronica non permette di percepire pienamente ciò che si sta spendendo e rende più difficile il controllo dei conti. Inoltre, il contante assicura più privacy alle famiglie, oltre che proteggere le regolari transazioni da panne informatiche o blocchi di qualsiasi tipo. L’avanzata dei pagamenti elettronici, insomma, potrà anche essere inesorabile, ma in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, non elimina il ruolo della vecchia carta moneta.
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Fed: i tagli inizieranno nel 2024. Ma senza fretta
In un'audizione alla camera dei rappresentanti americana, Jerome Powell ha annunciato l'inizio del calo del costo del denaro, ammesso che l'economia lo permetta. Ma non è stata fissata nessuna scadenza. L'annuncio, pur soft, ha provocato un brusco rialzo delle materie prime, che risente della forte finanziarizzazione del settore. Intanto, le Borse proseguono la marcia dei record
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
E' ufficiale: la Federal Reserve inizierà a tagliare i tassi nel corso di quest'anno, ammesso che l'andamento dell'economia Usa lo permetta e che l'inflazione non giochi brutti scherzi. Lo ha dichiarato Jerome Powell davanti al Congresso americano. Il presidente Fed non si è sbottonato oltre: precisando che non c'è nessuna fretta di avviare il nuovo ciclo al ribasso, ha anche affermato che il primo taglio non avverrà subito, ma con il tempo, senza fretta. Prima, ha spiegato, occorrerà esaminare bene lo stato dell'economia. Previsti, se tutto andrà bene, tre tagli entro fine anno.
Balzo delle materie prime
L'annuncio di Powell è stato tutto sommato moderato: i mercati si aspettano da tempo che le banche centrali inizino la loro inversione a u nel corso di quest'anno. Eppure, è bastata una comunicazione basic per provocare un rialzo immediato delle materie prime, che sono balzate in alto mediamente del 5%. Questo fenomeno giustifica una futura cautela nella comunicazione delle banche centrali: la finanziarizzazione dell'economia è capace di trasformare un topolino in un elefante e di creare disastri. Soprattutto in ambiti, come appunto le materie prime, che non dovrebbero essere finanziarizzati. Così come i bitcoin, su cui invece – nonostante la loro opacità e la nota voracità ambientale del mining - si costruiscono Etf.
Berna taglia a sorpresa
Intanto, la Banca Nazionale Svizzera ha iniziato a tagliare i tassi con una decisione a sorpresa, affermandosi come il primo istituto centrale a iniziare la discesa del costo del denaro. Certo, le percentuali sono molto diverse – e minori – rispetto agli istituti centrali di Francoforte, Washington e Londra: i tassi guida sul franco passano infatti dall'1,75% all'1,50%, con un calo di 0,25 punti. Berna ha affermato che l'inflazione è rientrata, rendendo possibile l'operazione. Ma la mossa di Bundesplatz ha un'ulteriore, probabile motivazione: cercare di deprezzare il franco, che per ora, tuttavia, resta molto forte contro il parere e il volere di tutti.
Mercati ancora intonati
Le Borse, intanto, proseguono la loro marcia tranquilla ma costante. E, con un moderato ottimismo, salgono e stabiliscono record su record. Piazza Affari non fa eccezione, e mostra una rotazione settoriale pronunciata, che ha visto i titoli bancari scendere dopo l'annuncio di Powell, per poi salire nuovamente poco dopo, in barba alla prospettiva di discesa dei tassi. I mercati, insomma, sono ancora intonati. Fino a quando? Difficile prevederlo. Uno storno ci sarà, questo è praticamente sicuro, ma non è facile capire quando si verificherà. Forse a maggio, mese che tradizionalmente è dedicato alle vendite (sell in May). O forse più avanti, in attesa delle elezioni europee di giugno o addirittura di quelle americane di novembre. Probabilmente, i mercati cercheranno di rimanere tranquilli proprio fino alle presidenziali Usa, per non trasformarsi in una variabile in grado di influenzare le campagne elettorali. A scendere in maniera pronunciata saranno probabilmente i titoli tecnologici. Un'anticipazione di questo possibile trend ci è stato già dato da Apple, che ha arretrato in Borsa dopo la causa mossa dal ministero della Giustizia americano per "monopolio". Sembra che le istituzioni statunitensi abbiano iniziato a mettere sotto la lente le bigtech americane, che finora sono state abbastanza libere di muoversi in modo disinvolto. Ma lo fanno con un ritardo di anni. Meglio ha agito l'Antitrust europea, che ha introdotto misure come l'obbligo dei cavi di ricarica uniformi per gli smartphone. In ogni caso, è difficile mettere in crisi la società di Cupertino, che capitalizza 2.600 miliardi di dollari. Ben più del pil italiano.
Volano le compagnie aeree
Buone notizie per le compagnie aeree europee: i bilanci di Lufthansa, Air France-Klm, Ryanair e International Airlines Group hanno chiuso l'anno positivamente; insieme, secondo Il Sole 24 Ore, hanno raggiunto un fatturato di 106,16 miliardi di euro (+18,9%), mentre gli utili netti sono saliti addirittura a tre cifre (+110%). I risultati sono stati ottenuti sebbene il traffico aereo internazionale sia ancora sotto i livelli pre-Covid. A spingere le compagnie sono i voli interni, la crescita della domanda di viaggio e soprattutto l'aumento delle tariffe. A cominciare dalla classe business, i cui biglietti sono letteralmente esplosi. Resta invece abbastanza accessibile la classe economy su voli intercontinentali. Con il paradosso che a volte vede un viaggio Milano-Palermo costare di più rispetto a un Malpensa-New York (meno male che ci sono i treni ad alta velocità, viene spontaneo esclamare).
Paletti su Lufthansa-Ita
Intanto, l'Antitrust europea ha messo nero su bianco la richiesta al gruppo Lufthansa di tagliare vari voli Ita europei e intercontinentali (dall'Italia verso Stati Uniti, Canada e Giappone) e vari slot dall'aeroporto di Linate. Un'operazione che, per il gruppo tedesco, è vincolante per ottenere il via libera all'acquisizione della compagnia di bandiera italiana. Secondo l'authority, l'operazione senza correttivi rischia di danneggiare la concorrenza e di causare un aumento dei prezzi e un calo di qualità per i servizi: proprio per questo vuole la rinuncia ad alcune rotte della compagnia. Margrethe Vestager, commissario europeo per la concorrenza, vuole una risposta entro il 26 aprile, mentre l'istruttoria ha scadenza 6 giugno. Occorre, dunque, fare presto. Se una certa apprensione sul fronte della concorrenza e di eventuali monopoli su alcune rotte può essere giustificabile, sembra però che le condizioni poste dall'Antitrust europea siano troppo draconiane. Per questo, fanno sorgere i sospetti di una lotta politica, dato che gli slot italiani fanno gola a molti. E che i bias nei confronti del Belpaese sono ancora molto presenti.
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Tassi, la Bce non si muove
La Banca Centrale Europea è stata chiara: il costo del denaro, per ora, non cala. Il board, con le parole della presidente Christine Lagarde, ha “solo iniziato a discutere di arretrare la politica restrittiva”. L'imminenza delle elezioni europee, tuttavia, rende abbastanza probabile un segnale dell'Eurotower prima di giugno
Il punto settimanale di Carlo Vedani - AD di Alicanto Capital SGR - sulla situazione dei mercati finanziari.
L'inflazione stimata cala ancora, ma i tassi restano fermi. Lo ha deciso il board della Banca Centrale Europea, che non ha smentito le previsioni. “In questa riunione non abbiamo discusso di tagli“, ha affermato Christine Lagarde, presidente della Bce; “abbiamo solo iniziato a discutere di arretrare la politica restrittiva”. In breve, scordiamoci un cambio di rotta ad aprile: occorrerà sicuramente aspettare la fine della primavera, se non l'estate.
L'incognita elezioni
Le dichiarazioni della presidente Bce non sorprendono affatto, anche se i mercati iniziavano a scommettere su un alleggerimento anticipato rispetto alle previsioni. E' chiaro che le banche centrali non devono dare l'impressione di correre dietro ai mercati: per questo motivo, la posizione della Bce era inevitabile. Anche se probabilmente un piccolo anticipo rispetto alle previsioni ci sarà. Prima di tutto perché l'Europa è in stagnazione e ha bisogno di uno stimolo in quel senso. E poi perché dal 6 al 9 giugno sono in calendario le elezioni per il parlamento europeo, che rendono plausibile un segnale distensivo, pur obtorto collo, da parte della Bce. Una correzione simbolica, magari di 5 centesimi e nulla più, potrebbe orientare la scelta di una parte di elettori indecisi. Per questo motivo, l'avvio della politica di ribassi Bce potrebbe anticipare quello della Federal Reserve, considerato che per le elezioni presidenziali americane bisognerà aspettare novembre. A questo bisogna aggiungere che l'economia statunitense va decisamente meglio rispetto alla nostra – il che fornisce frecce all'arco degli “attendisti”. E' pur vero che Jerome Powell, in audizione al senato Usa, pur affermando che il Fomc sta attendendo certezze concrete che l'inflazione scenda al 2%, (attualmente “non siamo sicuri” di questo, ha detto), ha indorato la pillola rassicurando che l'obiettivo non è lontano. E con esso l'inizio del calo dei tassi. Va da sé che i termini “vicino” o “lontano”, privi di riferimenti certi, danno adito a un florilegio di interpretazioni. E di scommesse sui mercati.
Germania, allarme infrastrutture
A far tremare l'Europa è la crisi tedesca: per parafrasare un noto detto, basta un vetro rotto a Francoforte per far crollare palazzi nell'intero continente. Un ulteriore esempio di come la “locomotiva d'Europa” stia ansimando ci viene da un'inchiesta della Bild: lo studio rivela che in molti casi le infrastrutture sono vecchie e devono essere riparate oppure distrutte (come accaduto per un ponte sul Rahmede, in Renania-Vestfalia, divenuto pericoloso e fatto saltare per aria, per evitare conseguenze drammatiche). Secondo la Bild, per ristrutturare le strade e le ferrovie servirebbero cifre improponibili. Un commento è d'obbligo: a furia di sostenere e condurre politiche restrittive, è facile che in periodi di crisi ci si trovi con problemi di manutenzione ordinaria e impossibilità di finanziarla. Ciò si riverbera a cascata su vari ambiti. Prima di tutto sui trasporti delle merci, i cui ritardi poi vanno a creare un effetto domino sull'economia.
Il caso Tim
Intanto, le Borse mantengono un margine di oscillazione limitato: l'anno è partito bene (specialmente per Milano, che più di una volta ha vestito la maglia rosa dei listini europei) e, almeno per adesso, si mantiene solido. A preoccupare è, in questo periodo, il crollo di Tim, con un -25% in tre giorni. Tra i responsabili, il piano presentato dalla compagnia telefonica, con obiettivi di crescita e di abbattimento del debito giudicati pretenziosi (anche se il management ha buttato acqua sul fuoco, affermando che gli obiettivi sono raggiungibili). I dati sono usciti male e hanno causato il crollo in Borsa, con investitori spaventati da un debito maggiore del previsto, reso ancor più problematico dai tassi di interesse alti. Questo allarme, unito alle conseguenze della vendita della rete, ha reso lecito un interrogativo; a queste condizioni, dove avverrà la redditività futura? Allo scetticismo si è aggiunta, probabilmente, una buona dose di speculazione: alcuni hedge fund erano forse short già prima della comunicazione del piano, reso noto lo scorso 7 marzo, e ne hanno approfittato. A questi livelli, in ogni caso, il titolo Tim inizia a rivelarsi una buona opportunità di acquisto, con spazio di risalita del 20-25%.
Medaglia d'oro
Tranquillità, invece, sul fronte dei cambi e dell'energia. Il rapporto euro-dollaro resta nella fascia di sicurezza, come il petrolio, i cui livelli non sono per il momento influenzati dalla crisi di Aden. L'assenza di volatilità fa bene al prezzo del greggio: finché su questo fronte ci sarà la tranquillità, i livelli tariffari dell'oro nero non dovrebbero variare. Lo spread è ai minimi di tre anni (tra il silenzio generale). Rame e alluminio rimbalzano in modo poco significativo, mentre a stabilire primati su primati è l'oro. Nonostante il record assoluto del “re dei metalli”, è lecito osservare che nell'ultimo anno, con il deprezzamento del dollaro, un investitore in euro ha percepito lo stesso rendimento di chi ha scelto di “rifugiarsi” nell'oro. E' anche vero che un guadagno del 3%-4% legato al metallo giallo non ha una correlazione logica con il calo dell'inflazione, che dovrebbe invece alleggerire il valore dei beni rifugio. Secondo un'interpretazione (che resta tale, naturalmente), a scompaginare le carte potrebbero essere stati paesi come Russia e Cina, che a causa delle sanzioni attuali e del blocco dei depositi all'estero (la prima) e per timore di embarghi futuri (la seconda) si sarebbero premunite riempiendo di oro (e di sicurezza) i loro forzieri.
Bob a Cortina
Mancano meno di due anni ai Giochi Olimpici di Milano-Cortina, ma le incertezze regnano sovrane: nonostante la scadenza ravvicinata, non si sa ancora dove si svolgeranno le gare di bob, slittino e skeleton. Il cantiere per la pista di v è stato aperto, anche se non c'è la sicurezza che il Cio approvi l'opera (la luce verde del comitato olimpico è necessaria per ospitare le gare nel nuovo impianto), né che, una volta finiti i Giochi, l'opera non diventi una cattedrale nel deserto, come quella di Cesana legata a Torino 2006. La soluzione ottimale sarebbe stata, a questo punto e con siffatti ritardi, virare sull'impianto di St Moritz (località vicina a Milano e già attrezzata per il bob), dirottando il denaro originariamente stanziato per la pista di Cortina alla viabilità sulle strade delle località olimpiche e alle ferrovie. Per consentire alla kermesse a cinque cerchi di lasciare al territorio un'eredità tangibile.
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