Il nuovo sito di Alicanto Capital
Oltre a una nuova veste grafica, che speriamo apprezzerete, sono stati apportati miglioramenti tecnici per renderlo maggiormente “responsive“ cioè adattabile ai diversi dispositivi. In questo modo sarà più semplice consultarlo anche dal vostro telefono o dal vostro tablet e le informazioni sui vostri veicoli d’investimento saranno sempre disponibili e più facilmente accessibili.
Il sito non cambierà indirizzo. La nuova versione verrà rilasciata e sostituirà quella attuale.
Un’importante novità riguarda gli utenti che accedevano all’Area Riservata per consultare i dati di Alpi Hedge: nel nuovo sito non avranno più bisogno di accedere con le proprie credenziali perchè troveranno i dati Alpi Hedge liberamente disponibili per la consultazione.
Abbiamo curato ogni dettaglio per fare in modo di ridurre al minimo gli eventuali disagi e ci scusiamo anticipatamente se qualche problema dovesse presentarsi.
Ci auguriamo che apprezzerete la nuova versione di www.alicantocapital.com.
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Crollo delle Borse: e ora?
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Il crollo delle Borse, che ha sconvolto i mercati venerdì scorso ed è proseguito in maniera prorompente lunedì alla riapertura, ha gettato nel panico gli investitori. I listini europei hanno registrato perdite importanti (Piazza Affari, per esempio, è arretrata sui livelli di febbraio), con una performance molto negativa dei titoli bancari – per non parlare di Tokyo, calata a picco l’altro ieri con un -12,4%, tra i più devastanti di sempre (anche se ieri si è verificato un rimbalzo importante, con il recupero di oltre il 10%). Insomma: una situazione davvero problematica, che sta generando molti interrogativi negli osservatori. Ci si chiede che cosa abbia causato un calo così poderoso. Ma ci si domanda anche se siamo in presenza dello storno tanto atteso e se ci si debba preoccupare per i prossimi giorni. E, infine, un dubbio riguarda le banche centrali: dovranno intervenire d’urgenza? Oppure è meglio una reazione della serie “calma e sangue freddo”?
I dati americani sul lavoro
Partiamo dalla causa del crollo. Anzi, dalle cause, dato che le Borse sono colate a picco per vari motivi, sfortunatamente concomitanti. Tutto si è scatenato con la diffusione dei dati americani sui posti di lavoro creati lo scorso mese: 114.000, molto meno dei 185.000 attesi e dei 179.000 dello scorso giugno. Una situazione che già da sola ha fatto pensare a un rallentamento dell’economia americana e a un rischio molto serio di recessione a stelle e strisce. Curioso, però, che il crash nasca negli Stati Uniti, ma le Borse europee abbiamo perso mediamente il 5% in più rispetto a Wall Street.
Buffett e la vendita delle azioni Apple
I dati sul lavoro Usa si sono sommati a un arretramento del tecnologico, causato da una crescente sfiducia nell’intelligenza artificiale, ma soprattutto dalle vicende che si sono riverberate su due colossi tech: Apple e Intel. La casa di Cupertino è stata al centro di un’operazione targata Warren Buffett: la sua Berkshire Hathaway ha infatti venduto il 55,8% delle sue azioni Apple in un semestre e alla lunga la multinazionale tech ha pagato dazio. In ogni caso, il calo di Apple, dell’8% circa, si è rivelato minore rispetto a quanto hanno perso le banche europee venerdì e lunedì scorsi. Ma un disinvestimento così importante da parte di Buffett non poteva passare inosservato.
La débâcle di Intel
A influire sul crollo delle Borse anche la débâcle di Intel, che fra il 2 e il 3 agosto ha lasciato sul terreno il 30% del suo valore. Causa scatenante, l’annuncio del licenziamento di 15.000 dipendenti, con annessi tagli per 10 miliardi di dollari. La comunicazione ha avuto effetti disastrosi per un colosso che da tempo evidenzia problemi di redditività. Lo scivolamento del titolo Intel è stato infatti progressivo e in cinque anni ha bruciato il 55%, senza riuscire a fare utili degni di nota. A questo si è aggiunta qualche scelta commerciale che non ha ottenuto i favori previsti. E’ presto per dire se la multinazionale di Santa Clara sia in crisi temporanea o se faccia parte delle società leader nel decennio precedente che ora faticano a trovare una collocazione. Certo è che per tornare a conquistare il favore del mercato la società dovrà tornare a produrre utili.
Tensioni in Medio Oriente
A contribuire alla situazione precaria delle Borse anche la nuova crisi tra Israele e Iran. Tuttavia, il rinfocolarsi del nervosismo in Medio Oriente non rappresenta la causa scatenante, né uno dei motivi principali che hanno contribuito al crollo: basti ricordare che i mercati avevano letteralmente ignorato varie precedenti tensioni (anche le più gravi) tra Tel Aviv e Teheran. Piuttosto, la nuova crisi mediorientale può aver influito sul calo del prezzo del petrolio, che è scivolato nella fascia tra 70 e 80 dollari al barile e ha favorito il raggiungimento dei minimi della benzina da sei mesi a questa parte.
L’apprezzamento dello yen
Sulla crisi dei mercati (soprattutto sul “secondo round” di lunedì) ha influito molto di più la rivalutazione dello yen, che nell’ultimo mese si è apprezzato del 10% circa. La corsa della valuta nipponica ha messo in difficoltà molti trader, che si indebitavano in yen perché il costo degli interessi era prossimo allo zero e reinvestivano in euro o dollari. Per causare il cataclisma è quindi bastato che la banca centrale giapponese intervenisse sui tassi, alzando leggermente il costo del denaro in un’operazione abbastanza inedita per la recente tradizione del Sol Levante. Questo cambiamento, pur marginale, ha spiazzato gli investitori, causando una continua discesa della Borsa, -26% nelle scorse tre settimane di contrattazione. Prima o poi, in presenza di simili dati, un’esplosione si doveva per forza verificare. E infatti il forte calo si è trasformato in crollo dopo lo scorso fine settimana: il -12,4%, decremento più poderoso del Nikkei dal 1987, si è poi riverberato su Seul e, qualche ora più tardi sui listini europei.
Niente panico
E ora? Qual è la prospettiva? La risposta, per ora, è una sola: niente panico. Non è ancora detto che questo trend sia duraturo: fallire qualche rimbalzo non significa che una ripresa non possa avvenire presto. Finora, rispetto a inizio anno, il mercato europeo è ancora lievemente in positivo: l’andamento in discesa può ancora fermarsi e un’inversione di tendenza non è da escludere a priori. Sarebbe quindi da evitare, sia in Europa, sia negli Stati Uniti, una decisione affrettata all’insegna del taglio dei tassi con procedura d’urgenza. Se mai, l’operazione sarebbe dovuta avvenire in precedenza, senza ansia né affanno. Farlo in emergenza rischia di provocare – come afferma un detto popolare – un rammendo peggiore del buco. Soprattutto negli Stati Uniti. La storia ci dice che se la Fed taglia i tassi perché l’economia americana rischia una recessione, la Borsa scende ancora. Nonostante questi rischi, probabilmente un intervento sarà effettuato. Magari di 15 punti, per smuovere le acque. Per poi programmare una nuova operazione strutturale tra settembre e ottobre, magari di 50 punti complessivi.
Comprare o vendere?
Gli investitori devono, in ogni caso, evitare reazioni isteriche. Non c’è nulla di più sbagliato che comprare quando la Borsa è alta e vendere quando scende. Occorre invece agire nel modo completamente opposto. Inoltre, quando il ribasso parte in agosto – mese in cui c’è poca liquidità – siamo in presenza di una speculazione, che potrebbe anche rivelarsi di breve termine. Nei nostri interventi più recenti avevamo consigliato di non aumentare il peso degli investimenti, magari alleggerendo un po’ il portafoglio. Ora sembra arrivato il momento di comprare, specialmente titoli del settore bancario e azioni che hanno subito un forte abbassamento. In questi giorni, intanto, ride chi ha puntato sui bond: insieme al franco svizzero, le obbligazioni sono l’unico asset a essersi salvato dal naufragio. Soprattutto quelle governative, che scontano la sempre più probabile discesa dei tassi.
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Parigi 2024 si apre fra sabotaggi, polemiche e rincari selvaggi
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
I Giochi Olimpici di Parigi 2024 si sono aperti nel peggiore dei modi. In pochi giorni è infatti accaduto di tutto: sabotaggi alla rete ferroviaria, nervosismo da parte dei parigini a causa delle restrizioni agli spostamenti, inaccettabili esibizioni blasfeme durante la cerimonia di apertura, polemiche sugli sprechi. Uno su tutti, l’investimento di 1,4 miliardi di euro per depurare la Senna – operazione che ha presentato tutti i suoi limiti con il rinvio di un giorno della gara di triathlon maschile.
Inflazione a cinque cerchi
Oltre a tutto questo, lo spettro dell’inflazione. Come era accaduto nel caso dei primi concerti di Taylor Swift e in occasione dei Campionati Europei di calcio, alcuni esperti hanno lanciato l’allarme relativo ai forti aumenti dei prezzi nelle città che ospitano manifestazioni importanti, siano esse sportive o musicali. Relativamente alle cinque tappe londinesi della rock star americana, che si svolgeranno a metà agosto, era stato coniato il termine Swiftflation, e si era arrivati persino a ipotizzare un impatto del caro-prezzi dovuto ai concerti sulle decisioni della Banca d’Inghilterra riguardanti il taglio dei tassi. Il copione si è riproposto, appunto, per i Giochi Olimpici: il più grande avvenimento sportivo del mondo ha portato nella Ville Lumière aumenti di tariffe alberghiere, dei prezzi delle consumazioni al bar e delle cene al ristorante. A questi si somma, naturalmente, il costo esorbitante di una parte importante dei biglietti, in vari casi divenuti inaccessibili. Questo boom dei prezzi può creare inflazione duratura? Quasi sicuramente no. I Giochi Olimpici, kermesse di rilevanza planetaria, sono comunque un evento temporaneo, troppo breve per causare una nuova impennata del tasso di inflazione. A meno che qualcuno non ne approfitti per prolungare un aumento insostenibile dei prezzi.
Rincari in salsa meneghina
Non dipendono dalla scadenza olimpica i rincari che stanno galoppando a Milano nella ristorazione, nei servizi e soprattutto in ambito immobiliare. La febbre del mattone sembra non volersi fermare, e trova nuova linfa dalla fuga dei ricchi della City londinese, che lasciano una città in difficoltà per acquistare case lussuose (e costosissime) nel resto d’Europa, soprattutto a Milano e a Lugano. Il trend ha contribuito alla cementificazione già in atto: al posto di fabbriche abbandonate o di edifici vecchi abbattuti sono spuntati palazzi di dieci o più piani, che in alcuni casi hanno tolto la visuale a case storicamente presenti sull’area, oppure hanno modificato la viabilità. Alla faccia del green e della transizione ecologica. Le costruzioni intensive e il massiccio consumo di suolo sono però stati costretti a rallentare: la procura ha infatti ordinato lo stop ai cantieri dopo le indagini sui nuovi edifici in città. Il fermo temporaneo – che secondo alcune agenzie immobiliari potrebbe mettere in pericolo fino a 38 miliardi di euro di qui al 2035 – ha però un fondamento: la magistratura vuole vederci chiaro e comprendere se davvero siano stati commessi abusi in questa fase di urbanizzazione di una città già molto densamente popolata.
Borsa, ancora su e giù
Intanto, la Borsa di Milano ha chiuso la scorsa settimana in calo, portandosi sotto la soglia psicologica dei 34.000 punti e indossando, per una volta, la maglia nera di un’Europa già di per sé in ribasso. Occorre preoccuparsi? Non più di tanto: dopo il calo di venerdì, c’è stato il recupero (con cui Piazza Affari, tra ieri e oggi, è tornata a sfiorare o superare più volte quota 34.000), che ha allineato Milano ai principali listini continentali. Prosegue, dunque, la lunga fase di trading range, che si sta protraendo dalla scorsa primavera. E’ infatti da marzo che si battono e ribattono gli stessi prezzi, senza che emergano tematiche particolari, mentre è confermata la dicotomia fra i settori che vanno bene e quelli che invece faticano.
Automobili ferme al… verde
A non potersi lamentare ci sono i finanziari, che nella stagione degli utili stanno ancora una volta sottolineando il loro ottimo stato di salute. Tra le retrovie del gruppo, invece, l’industria. Soprattutto l’automotive, colpita dalla conferma della “maggioranza Ursula” e dalla sua politica radicale di transizione “verde”. Il periodo critico dei costruttori di veicoli a motore dipende, in particolare, dagli ingenti investimenti obbligati sull’elettrico, che – a causa del basso gradimento da parte della clientela – sembrano valere zero o poco più. Ai conducenti, le e-cars proprio non piacciono, e neppure gli incentivi per l’acquisto di queste vetture li smuovono dall’acquisto di veicoli tradizionali. E così, le case automobilistiche si trovano come i classici “vasi di terracotta tra vasi di ferro” di manzoniana memoria, stretti tra gli obblighi di marca europea che vietano la produzione di macchine endotermiche dal 2035 e il mancato gradimento da parte della clientela. E tutto questo si fa sentire sui risultati. Un esempio su tutti sono i dati di Stellantis, che ha diminuito i ricavi del 14% e gli utili del 48%.
Tesla e Alphabet affossano la Borsa
E, a proposito di elettrico, Tesla ha diffuso i suoi dati del secondo trimestre, che si sono rivelati decisamente deludenti. La società di Elon Musk ha archiviato un utile in decremento del 45%, dai 2,7 miliardi di dollari raggiunti a metà dello scorso anno ai 1,478 attuali. Nonostante la crescita del fatturato (da 24,92 a 25,5 miliardi di dollari) e l’incremento dei ricavi tra aprile e giugno, i dati di Tesla hanno contribuito, insieme ai risultati di Alphabet, ad affossare il Nasdaq, proprio mentre a Wall Street il momento di difficoltà del Far East ha penalizzato il comparto del lusso. In ogni caso, nonostante il calo degli utili e gli arretramenti di questo ultimo anno, Tesla è ancora molto più forte rispetto a cinque anni fa, dato che dall’era pre-Covid in poi la casa texana è cresciuta poderosamente. Ora Wall Street attende le decisioni sui tassi e, soprattutto, le elezioni americane, sufficientemente polarizzate per proporre agli elettori due modelli economici completamente differenti.
Deficit, la Ue apre la procedura contro sette Paesi (tra cui l’Italia)
Mentre gli Usa si preparano agli ultimi mesi di campagna elettorale, l’Unione Europea attende la nomina dei commissari, oltre che la formazione del nuovo governo in Francia (che avverrà dopo la conclusione dei Giochi Olimpici). Nel frattempo, l’Ue torna a occuparsi di disavanzo pubblico, avviando le procedure per deficit eccessivo contro sette Stati membri. Si tratta di Italia, Francia, Belgio, Malta, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Più in particolare, l’Ue imputa a questi Paesi il superamento della percentuale ritenuta accettabile (3% del pil). Sono finiti i tempi del Covid, quando le strette regole che rischiano di imbavagliare l’economia erano state sospese: ora, i sette Paesi che hanno sforato dovranno rimettersi in riga. Chi non lo farà, rischierà sanzioni economiche – ammesso che poi vengano comminate davvero.
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Tilt informatico, parte la conta dei danni
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Un bug nascosto nell’aggiornamento di un software Crowdstrike (azienda di sicurezza partner di Microsoft) ha bloccato i sistemi informatici in gran parte del mondo. Il codice difettoso è stato capace di lasciare a terra oltre 6.500 aerei (molti di più i voli in ritardo) e bloccare Borse, pagamenti elettronici, strutture sanitarie e treni, oltre al sistema di accrediti dei Giochi Olimpici di Parigi.
Il mondo in panne
Con il tilt informatico, il mondo si è scoperto vulnerabile. Un po’ perché l’informatizzazione (irrinunciabile, sia chiaro) ha pian piano emarginato lo sviluppo di “piani B” a cui ricorrere in caso di blocco. Un po’ perché gran parte del mondo dipende dagli stessi software: il mercato è ormai controllato da un numero limitato di fornitori informatici e il boom del cloud esternalizza e centralizza ancora di più i dati. Va de sé che con la concentrazione del mercato nelle mani di poche aziende, un semplice aggiornamento errato può avere danni catastrofici. Come quelli che sicuramente subirà l’economia, per un semplice giorno di stop e un altro giorno di riassestamento. A farsi sentire saranno soprattutto i fermi e i ritardi di aerei e treni, ma anche le conseguenze secondarie del tilt. Come la “beffa dopo il danno” subita da alcune aziende, che hanno pensato di ripristinare l’operatività disinstallando la suite di sicurezza e in cambio sono stati vittime di puntuali e implacabili attacchi hacker, pronti ad approfittare dell’assenza temporanea degli antimalware.
Ripensare la digitalizzazione
Occorre, dunque, ripensare la digitalizzazione. Ricordando che l’informatica è un aiuto irrinunciabile, ma non deve essere un sostituto totale dell’organizzazione tradizionale del business e della vita quotidiana. E tenendo ben presente che è l’It a dover servire l’essere umano e non viceversa. Pensiamo per esempio ai contanti: nelle aree in cui la panne informatica ha bloccato i pagamenti elettronici, è riuscito a fare la spesa solo chi aveva banconote in tasca (difficili da reperire altrimenti, per l’inattività di vari sportelli bancomat). E’ lecito chiederci: se si sviluppasse in maniera pervasiva il progetto euro digitale, come reagiremmo in caso di nuovo tilt in una situazione in cui basta un nonnulla per bloccare il mondo informatizzato? E’ vero: i disagi sono durati un paio di giorni, ma una manciata di ore è riuscita a provocare danni incalcolabili. Si può dire, dunque, che il blocco informatico ha segnato una rivincita dei contanti, tanto osteggiati e bistrattati. Inoltre – lo ripetiamo – è conveniente uscire da una situazione di quasi-monopolio, o di concentrazione delle piattaforme informatiche. La Cina, che non utilizza Microsoft se non marginalmente, non ha subito fermi, proprio come chi lavora con sistemi alternativi. Per questo motivo, se si vuole davvero minimizzare il rischio amplificato dal tilt, è necessario ripensare l’informatizzazione in ottica multipiattaforma.
Joe Biden lascia, Ursula raddoppia
La grande panne informatica non ha registrato impatti significativi sui mercati finanziari. E’ vero, le Borse hanno dovuto rinviare l’apertura delle contrattazioni, ma qualche ora più tardi gli scambi avvenivano regolarmente. Su Piazza Affari, il tilt dell’Ict ha avuto lo stesso impatto registrato dopo lo sciopero di fine giugno proclamato dagli operatori di Borsa: adesione ampia, contraccolpi minimi. Stesso discorso per l’improvvisa rinuncia di Joe Biden alla ricandidatura, che ha avuto ben poche conseguenze sull’andamento di Wall Street – e tanto meno sui mercati del resto del mondo. Le ragioni sono molto semplici: in primo luogo, dopo le pressioni crescenti in seno al partito democratico, l’addio del presidente uscente era dato per probabile; in secondo luogo, la probabile sostituta (la vicepresidente Kamala Harris) si presenterà con un programma simile a quello di Biden; infine, la rinuncia dell’attuale inquilino della Casa Bianca non sposta di molto le previsioni, che vedono Donald Trump favorito. Oltre a questo, i mercati americani sono vaccinati e la Federal Reserve vigila per evitare che qualsiasi contraccolpo economico possa influire sulle elezioni. Le Borse hanno praticamente ignorato anche la riconferma di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Europea. La sua seconda esperienza di governo, per la cui fiducia è stato decisivo il voto dei verdi, potrebbe però creare problemi a lungo termine, mano a mano che ci si avvicinerà alla fatidica scadenza del 2035. La presenza degli ecologisti nella maggioranza di governo si farà sentire per cercare di “blindare” le restrizioni nei confronti dell’agricoltura e soprattutto lo stop alla produzione delle auto endotermiche – anche se una svolta di questo tipo può essere mitigata anche all’ultimo momento, per evitare la fine del sistema industriale europeo.
Utili a go-go
Se né il tilt informatico, né la rinuncia di Joe Biden, né la riconferma di Ursula von der Leyen hanno influito sulle Borse, che cosa ha mosso i mercati? Gli utili, come spesso accade. In particolare, a Piazza Affari abbiamo assistito a una nuova fiammata dei finanziari, spinti dai risultati brillanti di Unicredit. Piazza Gae Aulenti ha dato il “la” a tutto il mercato, rinforzando la ripresa della marcia verso quota 35.000. Si prevede che le azioni finanziarie possano crescere ancora fino a quando il taglio dei tassi, ora sporadico, diventerà deciso e graduale. Fino a quando i livelli rimarranno stabili, gli investitori nel settore bancario potrebbero impostare la loro strategia sul mantenimento di questi titoli, o addirittura su nuovi acquisti. In caso di graduale calo del costo del denaro, invece, si può ragionare sulle vendite delle azioni, cercando di anticipare il nuovo trend Bce. Cum grano salis, però, dato che attualmente i dividendi attesi valgono il 6% circa degli utili e il mercato è ancora ricco e promettente. In ogni caso, l’ultima riunione dell’istituto centrale europeo non ha deciso nulla: appuntamento a settembre, o più probabilmente a ottobre, dopo il simposio annuale di Jackson Hole, organizzato dalla Federal Reserve di Kansas City, che farà il punto sui trend economici mondiali e sul costo del denaro. Per il resto, rimangono promettenti i petroliferi e gli energetici.
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La quiete prima degli utili
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Giorni tranquilli per le Borse europee, che veleggiano in un trading range sul lato alto. Domina la cautela sugli avvenimenti internazionali, a iniziare dagli appuntamenti di domani, giovedì 18 luglio (con il voto di fiducia Ue sulla Commissione von der Leyen bis e la riunione della Bce sui tassi) e a proseguire con la risoluzione del difficile rebus sul nuovo governo francese. I mercati attendono queste scadenze, ma soprattutto la nuova stagione degli utili, che ingenera un’ondata di speranza e di ottimismo.
Attentato a Trump, le reazioni
Eppure, l’economia mondiale ha corso un pericolo molto forte. Se il proiettile che ha ferito Donald Trump lo avesse colpito in modo più grave, causandogli danni maggiori o addirittura mettendo a rischio la sua vita, la reazione dei cittadini americani sarebbe stata difficile da prevedere, forse drammatica. E avrebbe potuto causare danni irreparabili alla convivenza civile negli Usa, oltre a un probabile tracollo di Wall Street e, a stretto giro, di gran parte delle Borse mondiali. Invece l’atto terroristico – che ha purtroppo causato la morte di una persona – non ha avuto conseguenze sull’ordine pubblico americano. E le Borse si sono adeguate, mantenendo l’andamento normale.
Commissione, l’ora della verità
Ora, come detto, è la volta della votazione su Ursula von der Leyen e la sua Commissione. Mentre stiamo scrivendo sono in corso febbrili consultazioni tra la presidente uscente e incaricata e le forze politiche: la maggioranza sbanda a destra e a sinistra, da un lato cercando di accaparrarsi il sostegno (o almeno la neutralità) delle forze conservatrici, dall’altro di incassare la fiducia dei verdi. Si pensa, insomma, a blindare il voto mettendo insieme una maggioranza-ratatouille, che però non promette di cambiare le procedure lente e obsolete delle macchinose istituzioni europee. La cui trasformazione sarebbe invece necessaria. L’Unione non farà passi avanti se rifiuterà di rivedere i vecchi principi di governance ancorati al passato (a cominciare dal patto di stabilità) che hanno contribuito al rallentamento economico dell’Europa rispetto alle altre macroaree del mondo. A causa della sua lentezza decisionale e scarsa reattività, il nostro continente è diventato un lento burosauro, e ha accumulato ritardi su ritardi, un po’ come il “gruppetto” dei velocisti sulle montagne hors categorie del Tour de France. Forse le cose potrebbero cambiare in caso di trasformazione radicale della maggioranza, ma questo è poco probabile: Ursula von der Leyen riceverà quasi sicuramente luce verde dall’emiciclo continentale, proseguendo le sue politiche economiche elitarie e poco attente alle esigenze del tessuto economico e produttivo.
Non succede. Ma se succede…
Se il programma della prossima Commissione dovesse ricalcare quello dei cinque anni precedenti, non sarebbe una passeggiata né per le aziende, né per i cittadini europei. Ma che cosa succederebbe se i franchi tiratori affossassero la commissione von der Leyen bis obbligando gli Stati membri dell’Unione a trovarsi un nuovo esecutivo? A lungo termine un’opportunità di sviluppo per l’economia reale, ma sul breve un probabile contraccolpo sulle Borse Ue, specialmente nei titoli bancari e finanziari. Quindi, per gli investitori può rivelarsi una scelta lungimirante stare fermi fino a votazione avvenuta e, in caso di bocciatura, investire sui titoli che dovessero subire un arretramento sostanzioso.
Bce, a quando il nuovo taglio?
Meno tensioni sulla riunione Bce, anch’essa prevista per domani e foriera di ben poche sorprese. L’approccio sussiegoso della banca centrale è cosa nota: è vero che, nel meeting che si è tenuto gli scorsi 4 e 5 giugno, solo un consigliere si era opposto apertamente al taglio dei tassi, poi regolarmente deliberato; tuttavia, è altrettanto sicuro che la maggioranza del board non ha abbandonato una posizione di estrema cautela sulla materia. Vale a dire, domani non cambierà nulla, come ha anche previsto il campione di 85 economisti scelto da Reuters per un sondaggio. L’80% del panel è comunque convinto che a settembre e dicembre la Bce interverrà due volte verso il basso, attestando il valore di riferimento a 3,25%. Sembra più probabile, tuttavia, che l’Eurotower scelga ottobre, invece che settembre, per riavviare il processo di ammorbidimento creditizio; in ogni caso, i mercati stanno già scontando la sforbiciata di fine anno. A chiedere a gran voce un intervento è anche l’economia: la finanza procede bene, ma la manifattura europea continua a ristagnare (la produzione industriale italiana, per esempio, è in decremento del 3,3% annuo, nonostante un +0,5% a maggio), e un intervento sui tassi porterebbe sollievo a molte famiglie indebitate che non ce la fanno davvero più. Questi appelli, sempre più pressanti, non possono essere ignorati.
Rallenta l’inflazione Usa
Anche la Fed potrebbe essere della partita. Il rallentamento dell’inflazione statunitense, con i prezzi di giugno saliti del 3% invece che del 3,1% previsto (contro il +3,3% a maggio), sta infatti aprendo qualche spazio in questa direzione. Gli americani ritengono legittimo aspettarsi che la pur leggera frenata degli aumenti dei prezzi sia in grado di convincere i banchieri centrali a una riflessione sul costo del denaro. E a considerare una piccola sforbiciata, che potrà avvenire a condizione che il raffreddamento dell’inflazione emerga anche dai numeri di luglio e agosto. I dati sull’inflazione americana hanno causato anche un calo del dollaro, portando il rapporto tra l’euro e il biglietto verde a quota 1,09. Troppo poco, però, per gridare al crollo: fino a quando il valore della valuta americana non andrà a superare gli 1,10 euro, il trend non si muoverà dal normale range. A cedere è invece lo yen, che continua a svalutarsi anche a causa dei tassi a zero giapponesi.
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Legislative francesi: l'incertezza non ferma il rimbalzo dei mercati
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Le elezioni legislative francesi si sono chiuse in modo inaspettato e hanno mostrato un quadro politico incerto. Le tre maggiori forze, da sole, non raggiungono i 289 seggi necessari per governare: il presidente Emmanuel Macron farà di tutto per favorire un difficile esecutivo con la presenza del suo movimento Ensemble e di alcune parti della sinistra. Coalizione, quest’ultima, già a pezzi poche ore dopo il voto. Con l’iniziativa “multicolore” del presidente potrebbero schierarsi socialisti e verdi, forse persino comunisti e gaullisti, oltre ad alcuni transfughi dalla France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, che da parte sua ha rivendicato la poltrona di primo ministro, in qualità di leader del primo partito della coalizione con più seggi. Facilmente, invece, Mélenchon resterà fuori, al pari del Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella, movimento che pur ha ottenuto il maggior numero di voti.
Qui Parigi: voto diviso, ma i mercati recuperano
L’incertezza non ha però scalfito i mercati che, anzi, hanno reagito bene all’esito della consultazione elettorale transalpina: le Borse hanno recuperato gran parte delle perdite accumulate dopo lo scioglimento dell’Assemblea nazionale, e in Italia molte banche sono addirittura balzate ai massimi storici. Evidentemente, la mancata vittoria di Marine Le Pen e la probabile esclusione di Mélenchon dalla prossima coalizione di governo sono stati interpretati come segnali pro-mercati e favorevoli all’attuale establishment europeo. Tuttavia, anche se una maggioranza così eterogenea arrivasse a governare, dovrebbe fare i conti con la sua intrinseca fragilità, che porterebbe l’esecutivo a raggiungere equilibri precari e a rischiare di cadere su vari temi. Ciò potrebbe sfociare in un immobilismo pericoloso, dato che la legislazione francese non permette lo scioglimento delle camere più di una volta in 12 mesi. Tutto questo in un contesto che vede Parigi in difficoltà economica: contro la Francia è già in atto una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea, causata da un debito pubblico praticamente raddoppiato negli ultimi sette anni. E’ quindi presto per affermare che Macron ha vinto la sua scommessa: un po’ per la difficoltà di affrontare una coabitazione tra forze così diverse, un po’ per l’attuale debolezza sul fronte economico. Anche dal punto di vista politico, il presidente potrebbe avere incassato una vittoria di Pirro: non è escluso che il suo vero obiettivo fosse di far governare il Rassemblement National e, in una situazione così difficile per il debito pubblico, di ”bruciarlo“, per evitare un successo della destra alle presidenziali. Si prevedono, in ogni caso, trattative lente ed elaborate: durante i Giochi Olimpici di Parigi sarà il governo uscente di Gabriel Attal a sbrigare gli affari correnti, in attesa che i riflettori a cinque cerchi lascino la Ville Lumière.
Qui Londra, la vittoria laburista e le speranze di disgelo con Bruxelles
Se la Francia esce dalle legislative senza una maggioranza, la Gran Bretagna ha già un premier con un supporto solido. Come previsto i laburisti hanno vinto, conquistando il controllo della Camera dei Comuni, e il loro leader Keir Starmer ha già ricevuto l’incarico da parte di re Carlo III. Il risultato è figlio della sconfitta dei conservatori – favorita anche dall’entrata in campo della destra di Reform Uk – ma dipende ancor di più dal sistema elettorale inglese. In Francia, con il doppio turno, il Rassemblement National ha ottenuto il maggior numero di voti (34%) incassando però solo il 24% dei seggi; in Gran Bretagna, con il turno unico, i laburisti hanno conquistato una percentuale simile di suffragi (33%), ma con il 68% dei parlamentari. Anche dopo le elezioni inglesi (che hanno anticipato di tre giorni il secondo turno in Francia), i mercati hanno reagito in maniera favorevole, ritenendo che, almeno per sei mesi, le tasse non saranno toccate. Ottimismo anche sui futuri rapporti con l’Unione Europea, che potrebbero portare Londra e Bruxelles a trattative per limare gli angoli della Brexit e riavvicinarsi su alcuni, precisi ambiti.
Qui Bruxelles: che ne sarà di Ursula von der Leyen?
La prossima scadenza per la tenuta delle Borse europee sarà l’imminente voto al Parlamento Europeo sulla nuova Commissione von der Leyen. La maggioranza sembra esserci, ma la possibilità che i “franchi tiratori” possano ribaltare un risultato favorevole (lo scrutinio è infatti segreto) apre anche la possibilità di nuove reazioni isteriche dei mercati. Per questo motivo è bene, per gli investitori, mantenere la calma e stare in attesa. Anche perché il settore più performante, quello bancario, ha già raggiunto livelli molto alti, soprattutto a Piazza Affari. In ogni caso, la votazione sulla Commissione Europea non archivierà il periodo di forte influenza sulle Borse da parte della politica internazionale: è infatti in pieno svolgimento la “telenovela” su Joe Biden, che si sta trasformando in un braccio di ferro fra il presidente uscente, in evidente difficoltà ma non intenzionato a cedere, e un numero gradualmente maggiore di compagni di partito che vorrebbero cambiare candidato. In questa situazione, Wall Street tiene, trainato soprattutto dai tecnologici.
Tassi fermi
In un contesto dominato dalle scadenze elettorali, sembra che il lungo e sfiancante dibattito sui tassi sia scivolato in secondo piano. Ma non è così. Ci ha pensato il Forum delle banche centrali di Sintra (Portogallo), appuntamento annuale organizzato dalla Bce, a far tornare il costo del denaro sotto i riflettori. Christine Lagarde, in particolare, ha ricordato che l’inflazione, da ottobre 2022 a oggi, è passata dal 10,6% al 2,6%, convincendo l’Eurotower a ridurre i tassi lo scorso giugno. Ma chi pensa a un nuovo taglio a breve resterà deluso. Perché, ha proseguito la presidente della Bce, “non abbiamo ancora portato a termine il compito e dobbiamo restare vigili”. In altre parole, livelli fermi per chissà quanto. “Data l’entità dello shock sull’inflazione“, ha spiegato Christine Lagarde, “un soft landing non è garantito“. Un discorso dai toni non così diversi è stato pronunciato da Jerome Powell: il presidente della Fed ha sottolineato i “progressi” sul lato inflazione, ma ha aggiunto che prima di allentare le restrizioni monetarie è meglio “essere più sicuri che stia tornando al target”. Nessuna data prevista per introdurre i tagli anche negli Stati Uniti, dunque: “abbiamo tempo“, ha affermato laconicamente Powell. I due interventi sembrano svelare scenari simili, ma tra Ue e Usa ci sono grandi differenze. Negli Stati Uniti l’economia va bene, mentre il problema vero dell’Europa è la crescita, che notoriamente è poco stimolata. I vincoli di stabilità possono essere rispettati se i paesi crescono. Tra i due mali, è preferibile un po’ di inflazione in un’economia che si sviluppa piuttosto che una stagnazione senza molte prospettive.
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Elezioni francesi, il primo turno calma le Borse
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Il primo turno delle elezioni legislative francesi ha offerto un quadro ancora incerto, che si schiarirà dopo il secondo turno della consultazione. Guida la destra del Rassemblement National, che precede il Nuovo Fronte Popolare (alleanza di sinistra) e, più staccato, Ensemble del presidente Emmanuel Macron. Ai ballottaggi può ancora accadere di tutto, ma lo scenario che sembra più probabile vede una “non maggioranza”: sia la destra di Marine Le Pen e Jordan Bardella, sia la sinistra capitanata da Jean-Luc Mélenchon non raggiungeranno probabilmente un numero di seggi sufficienti per governare da soli e il leader della gauche ha già annunciato una possibile coalizione con i macroniani.
La Francia calma le Borse
La mancata maggioranza assoluta del duo Le Pen-Bardella ha probabilmente smorzato i timori europeisti e tranquillizzato la Borsa di Parigi – e, di rimando, quella di Milano – che avevano reagito in maniera negativa dopo le elezioni europee. Per questo, abbiamo assistito a recuperi e a un arretramento dello spread Btp-Bund, tornato nei pressi di quota 150. In particolare, le banche francesi e italiane hanno recuperato ciò che avevano perso dopo le consultazioni Ue. Un trend che onestamente è difficile da capire: anche nell’improbabile caso in cui il Rassemblement National dovesse ottenere la maggioranza assoluta, il nuovo esecutivo dovrebbe comunque governare in coabitazione con Macron, in un contesto che vede il presidente conservare molti poteri.
Tra Parigi, Londra e Bruxelles
A orientare le Borse europee concorreranno anche le imminenti elezioni britanniche – i cui esiti si conosceranno subito, essendo le consultazioni a turno unico – e soprattutto la votazione al Parlamento Ue sulla Commissione. Ursula von der Leyen ha ottenuto la riconferma dai governi degli Stati membri, ma la ratifica dell’emiciclo non è per nulla scontata: il voto segreto che contraddistingue la fiducia alla Commissione lascia una porta aperta ai franchi tiratori, mai così temuti dalla maggioranza come in questa fase. Soprattutto perché la votazione parlamentare avverrà dopo il secondo turno delle elezioni francesi: se il Rassemblement National ottenesse una maggioranza assoluta, anche se risicata, i Popolari Europei più spostati a destra potrebbero cercare di affossare la compagna di partito, puntando a una nuova commissione in grado di includere in forze anche i conservatori.
Attese per i laburisti
In Gran Bretagna la prevalenza dei laburisti è data per certa, anche se ci si chiede quali saranno le sue dimensioni. In caso di vittoria a valanga, il nuovo governo potrebbe decidere di alzare le tasse in maniera sensibile, provocando un possibile esodo da Londra delle aziende inglesi e soprattutto internazionali. Avverrebbe ciò che si è già in parte verificato con la Brexit, che ha visto imprese straniere portare la loro sede oltre confine per non perdere le facilitazioni legate al commercio unico europeo. Un altro esempio è interno agli Stati Uniti, che vedono aziende (ma anche singoli cittadini) lasciare Stati ipertassati come California e New York per spostarsi in Texas e Florida, contraddistinti da una forte deregulation.
Biden-Trump, poca economia nel primo dibattito
Una volta archiviate le elezioni inglesi e quelle francesi, e la votazione parlamentare per la nuova Commissione Europea, i listini rivolgeranno la loro attenzione alla marcia di avvicinamento alle elezioni americane. Anche in questo caso domina l’incertezza. Non tanto per gli esiti (Donald Trump è attualmente il favorito), ma per il nome del candidato democratico. Sempre più esponenti e sostenitori dell’Asinello, infatti, premono su Joe Biden perché ritiri la sua ricandidatura, a causa delle condizioni non ottimali in cui versa l’inquilino della Casa Bianca. L’impresa dei democratici è però difficile, e questo per varie ragioni. Un po’ perché Biden sembra non voler cedere, un po’ perché è molto arduo trovare in così poco tempo un’alternativa credibile, un po’ ancora perché occorre capire fino a che punto i possibili sostituti accettino di rischiare di bruciare le loro future chance per lanciarsi in una mission impossible. Tanto più considerando che una campagna elettorale costa molti soldi. Per il resto, le sbandate di Biden hanno monopolizzato i commenti al primo dibattito, mettendo in secondo piano le posizioni dei due candidati sull’economia. Non che l’argomento si sia rivelato così presente nella discussione: al contrario, i due candidati hanno passato molto tempo a scambiarsi accuse, ma hanno parlato poco dei loro programmi economici. Stesso discorso per l’intelligenza artificiale, che si è rivelata l’altra grande assente nel primo dibattito presidenziale. E la scarsa competenza tecnologica dei due contendenti, che dipende dalla loro età avanzata, naturalmente non è un alibi sostenibile.
Inflazione italiana, tutto tranquillo. Forse
Mentre l’inflazione americana sembra aver invertito la rotta, quella italiana è abbastanza stabile. L’Istat ha stimato, per giugno, un leggero aumento dello 0,1% su base mensile dello 0,8% annuale dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (esclusi i tabacchi). Cifre stabili rispetto a maggio. L’inflazione di fondo (senza energia e alimentari freschi) si conferma al 2%; se si escludono solo i beni energetici si passa all’1,9% (-0,1%). I prezzi degli articoli alimentari e per la cura di persona e casa scendono invece da 1,8% a 1,4% e calano anche i beni ad alta frequenza d’acquisto, da +2,5% a +2,1%. I dati ci confermano che l’inflazione non è più un problema, ma non bisogna abbassare la guardia. Anche perché non è tutto oro quello che luccica. Alcuni settori, e aree geografiche, sono infatti in deciso rialzo. Le vacanze costano in media il 10% in più, mentre soprattutto a Milano si sta verificando una preoccupante inflazione da servizi, che continua a salire. Insomma: il paniere sembra sotto controllo, ma occorre non mollare la presa. E puntare i fari su aumenti dei prezzi che si verificano in alcuni ambiti e che sembrano ingiustificati.
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I mercati sulle montagne russe. Ma lo storno non è ancora arrivato
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Le Borse hanno archiviato la scorsa settimana con un aumento della volatilità, ma il quadro tecnico non è cambiato. Nel nervosismo dei mercati, che li ha visti perdere, recuperare e perdere ancora, non si intravede infatti lo storno atteso e temuto da molti mesi, ma una fase laterale dovuta essenzialmente ai risultati delle elezioni europee e alle possibili conseguenze sulla Francia. Non si tratta, dunque, di un cambiamento di trend, ma piuttosto di una pausa, in un periodo di incertezza politica. Nell’Ue c’è attesa sulle nomine della Commissione e sulla conferma, tutt’altro che scontata, di Ursula von der Leyen alla presidenza. La decisione è molto importante, perché influenzerà in maniera chiara la strategia economica dell’Unione e inevitabilmente avrà un ulteriore impatto sull’andamento dei listini.
La corsa dell’intelligenza artificiale sembra esaurita
Per un eventuale storno, tuttavia, potrebbero volerci mesi. Le imminenti elezioni francesi e inglesi e le presidenziali americane di novembre sembrano in grado di prolungare la fase di attesa, incertezza e scarsa chiarezza che contraddistingue i grafici borsistici. Intanto stanno retrocedendo i titoli dell’intelligenza artificiale. Un settore che, insieme alle “cugine” bigtech, aveva trainato gli indici americani per molto tempo. Se esaminiamo i dati di Wall Street dal 1° aprile, vediamo un lungo grafico verso l’alto dei titoli Ia e di quelli delle otto grandi aziende legate alla tecnologia. Tolte quelle poche azioni, e considerati solo le restanti 475 società quotate, l’indice S&P sarebbe stabile o negativo.
Il franco corre troppo. E la Banca Nazionale Svizzera taglia
Torniamo al post-elezioni europee, e più precisamente ai suoi effetti sulle valute. A iniziare dal calo dell’euro rispetto al franco svizzero, dovuto soprattutto all’incertezza legata alle imminenti elezioni transalpine. Proprio con l’obiettivo di fermare l’impennata del franco, la Banca Nazionale Svizzera ha deciso di abbassare nuovamente i tassi di 25 punti base a 1,25%, con un’operazione non del tutto prevista dai mercati. Si tratta del secondo taglio consecutivo dopo quello dello scorso marzo, sempre dello stesso valore, mentre le attese sull’inflazione sono ottimistiche: per il 2024, le previsioni sono scese dall’1,4% all’1,3%, e per i due anni successivi ci si aspetta l’1,1% (2025) e l’1% (2026). La mossa sembra aver sortito qualche effetto: dopo la decisione della Bns, la moneta elvetica ha subito un rapido arretramento; tuttavia, almeno finora, l’euro ha recuperato sul franco soltanto una parte di quanto ha perso nel periodo post-elettorale. La corsa del franco dipende chiaramente dalla funzione di bene rifugio rivestita dalla moneta elvetica. Difficile, però, comprenderne a fondo i motivi, dato che la Svizzera non arriva a 9 milioni di abitanti e non potrebbe quindi stampare valuta per soddisfare eventuali richieste da varie parti del mondo. Neanche se lo volesse. Inoltre, la strategia di sforbiciare i tassi per provocare un calo di valore di una moneta non è sempre in grado di assicurare un risultato. Sono infatti molti i criteri che risiedono alla base del rafforzamento o dell’indebolimento di una divisa, e alcuni sono imponderabili. Se questo è vero per il franco, vale ancora di più per il dollaro, nella cui area ci sono squilibri molto più ampi che non nelle valute europee. Per questo motivo, non è detto che un’eventuale differenziazione di politica monetaria tra Bce e Fed debba per forza rafforzare il biglietto verde a scapito dell’euro.
Bank of England, i tassi restano invariati
Chi invece non ha toccato il saggio di sconto è la Bank of England: Threadneedle Street ha lasciato tutto com’era, ma diversamente dal passato le colombe si sono fatte sentire. La decisione di lasciare tutto fermo, infatti, è stata presa a maggioranza: due membri del board (il vicegovernatore Dave Ramsden e il consigliere Swati Dhinga) hanno infatti votato per una prima sforbiciata, alla luce della discesa dell’inflazione. Ora Londra aspetterà le elezioni per decidere la strategia monetaria. Sembra probabile che il board decida un taglio ad agosto. A meno di eventi imprevedibili.
Taylor Swift canta a Wembley. E l’inflazione si impenna
Una sorpresa potrebbe arrivare da un’apparentemente innocua manifestazione musicale. Si tratta delle tappe londinesi dell’Eras Tour, serie di concerti della cantante statunitense Taylor Swift, che si esibirà a Wembley per cinque volte dal 15 al 20 agosto. In pratica, secondo gli analisti della banca d’affari Td Securities, il massiccio afflusso dei fan della cantante nella capitale inglese provocherà un aumento robusto dei prezzi di alberghi, ristoranti e voli aerei, oltre naturalmente al costo (non trascurabile) dei biglietti di ingresso. Un aumento talmente forte da provocare un’impennata improvvisa dell’inflazione, mettendo in dubbio persino il taglio dei tassi previsto proprio in quei giorni. Il fenomeno ha già trovato un nome: Swiftflation. La previsione trova i suoi fondamenti nelle statistiche recenti sugli aumenti di prezzi che si sono verificati a Edimburgo, dove si è aperto l’Eras Tour; nella capitale scozzese sono arrivati 77 milioni di sterline dal concerto e dal suo indotto. Sebbene le cifre siano risultate più basse a Liverpool, gli analisti di Barclays hanno affermato che il tour potrebbe fruttare all’economia britannica una cifra vicina al miliardo di sterline. In ogni caso, se davvero i concerti di Taylor Swift provocheranno una “inversione a u” nei livelli di inflazione inglese, il fenomeno sarà comunque di breve durata: passati gli eventi, potrebbe rientrare in tempi relativamente brevi. Evitare il taglio dei tassi per l’effetto Swiftflation sarebbe dunque una decisione miope, data la natura momentanea del fenomeno. Considerata la durata dei rispettivi eventi, e il numero di spettatori coinvolti, avranno potenzialmente un maggiore impatto gli imminenti Giochi Olimpici di Parigi, o gli Europei di calcio in corso in Germania: entrambe le manifestazioni stanno causando un rincaro degli alberghi e di un’offerta di biglietti non certo economica, a fronte di una richiesta massiccia di biglietti e di impianti pieni.
Autonomia differenziata, che cosa cambia
E’ intanto legge la cosiddetta “autonomia differenziata”, che dà applicazione alla riforma del titolo V della Costituzione, introdotta nel 2001 dal governo Amato (centrosinistra). La misura prevede che le regioni possano avviare un negoziato con lo Stato per ottenere le competenze su 23 materie, tra cui scuola, sport, salute, trasporti, energia, commercio estero, cultura, tutela e sicurezza del lavoro. Ogni governatore potrà richiedere le deleghe su tutte o su una parte dei soggetti. Lo Stato fisserà, per ogni area, i “livelli minimi di prestazione” per i servizi, che dovranno essere uniformi nell’intero territorio nazionale. La legge non è immediatamente applicabile, ma dovrà attendere normative collegate e decreti attuativi, che rimanderanno probabilmente l’autonomia di un paio d’anni. Per alcuni commentatori, la misura potrebbe acuire le differenze tra nord e sud, per altri invece si rivelerà uno stimolo per la crescita del Mezzogiorno. Interessante il pensiero, in controtendenza, di Claudio Velardi, direttore del Riformista, secondo cui il meridione non può vivere soltanto di assistenzialismo. “Accettare la sfida dell’autonomia espone il sud a grandi rischi, perché se – mobilitando finalmente le proprie forze – non ce la dovesse fare, il destino sarebbe una marginalizzazione storica, definitiva, l’accantonamento di ogni ipotesi di modernizzazione”, ha scritto il giornalista napoletano in un post sul suo blog. “Ma non accettarla espone a qualcosa di peggio: significa confermare i pregiudizi, essere bollati definitivamente come la palla al piede del paese”.
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Le incertezze politiche affossano la Borsa di Parigi. E Milano si accoda
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
L’onda lunga delle elezioni europee e delle loro conseguenze ha affossato la Borsa di Parigi. E gli impatti si sono sentiti anche a Piazza Affari. Nella seconda parte della scorsa settimana il grafico di Milano ha evidenziato una picchiata, che l’ha portata da oltre 34.000 punti a una quota sotto i 33.000, salvo poi risalire lentamente. Parigi e Piazza Affari hanno perso oltre il 6%; meno mosse, invece, le altre Borse europee.
Un avvertimento dagli speculatori
In realtà, i mercati cercavano un pretesto per uno storno e l’hanno trovato. L’azzardo di Emmanuel Macron, che ha sciolto le camere indicendo elezioni a brevissimo termine, ha scatenato la speculazione, causando il terremoto borsistico. Non è escluso che, oltre che i normali intenti affaristici di queste operazioni, gli speculatori abbiano voluto drammatizzare il voto, lanciando un messaggio trasversale agli elettori del Rassemblement National, la destra di Marine Le Pen, e ai sostenitori della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon e della sua alleanza di sinistra. Entrambi gli schieramenti, pur reciprocamente inconciliabili, sono su posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle di Marcon e, in Europa, a quelle della “maggioranza Ursula” di cui il presidente francese è un sostenitore. Tutti ricordano l’esternazione, risalente al 2018, dell’allora commissario europeo per il Bilancio e le Risorse umane Günther Oettinger, secondo cui “i mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto”. La dichiarazione di stampo autoritario fu criticata da tutti gli schieramenti, costringendo il commissario a ritrattare e a scusarsi; tuttavia, di fatto, Oettinger non fece altro che esplicitare (e a fare sua) la posizione degli speculatori. E questa volta, appunto, sembra la volta dei francesi, al cui indirizzo potrebbe essere stata lanciata una moral suasion borsistica.
Gli scenari del voto francese
Sono tre i possibili esiti delle elezioni francesi, che si terranno il 30 giugno (primo turno) e il 7 luglio (ballottaggio). Il primo vedrebbe una maggioranza del Rassemblement National (con o senza l’alleanza con la fazione dei Républicains che dovesse seguire le strategie promosse dal presidente del partito Éric Ciotti). Il secondo, una vittoria delle sinistre, guidate da Mélenchon. Il terzo, una non maggioranza, che renderebbe difficile un esecutivo stabile ma darebbe più potere a Macron. Che però rischia di guadagnarci in tutti i casi. Anche se vincessero Marine Le Pen, o Mélechon, la coabitazione con l’attuale presidente renderebbe impossibile, per i vincitori, mettere in atto l’agenda economica e politica dei rispettivi partiti, rafforzando poi il candidato scelto dall’attuale inquilino dell’Eliseo per le prossime elezioni presidenziali.
Calano le banche
In tutto questo che cosa c’entra l’Italia? In teoria, poco e niente. Ma l’allargamento dello spread tra i titoli di stato francesi e tedeschi ha scosso il mercato, causando una salita anche del differenziale Btp-Bund. A Milano, a perdere sono stati i grandi vincitori dell’ultimo anno e oltre, cioè i titoli bancari, che sono arretrati del 10% circa. I nostri istituti di credito hanno seguito la sorte di quelli francesi, mentre le banche tedesche hanno contenuto i danni. Difficilmente spiegabili vari fenomeni registrati in questi giorni. Come il crollo del comparto lusso alla Borsa di Parigi: le case di moda, come per esempio Louis Vuitton, hanno ormai il 70% del fatturato in Asia, e non dovrebbero quindi essere troppo vulnerabili alle faccende interne francesi. Eppure, in questa follia borsistica post elezioni europee, hanno perso circa il 10%. Alla luce di questi accadimenti, chi si è deciso a ridurre un po’ le esposizioni sul settore bancario italiano ha azzeccato in pieno le sue scelte.
Ita-Lufthansa, cambia il vento
Le incertezze sulle prossime elezioni francesi hanno dunque scatenato gli speculatori. Ma l’indebolimento di Macron ha sbloccato la pratica Ita-Lufthansa, che prima della consultazione sembrava ad alto rischio a causa dell’atteggiamento rigido (e francofilo) di Margrethe Vestager, commissario Ue alla Concorrenza. L’accordo preliminare prevede, tra le altre cose, che sui voli brevi Lufthansa dovrà accettare una o più compagnie aeree concorrenti e che sarà costretta a rinunciare a un numero non marginale di slot da Linate. Scalo che, lo ripetiamo, con l’inaugurazione della metropolitana 4 è diventato uno degli aeroporti più ambiti al mondo. L’accordo non è certamente favorevole per la compagnia di bandiera tedesca; tuttavia, si è evitata la bizzarra pretesa di escludere definitivamente Ita dal code sharing intercontinentale con United Airlines e Air Canada, che avrebbe reso la sua acquisizione un’operazione dimezzata, oltre che sfavorevole ai consumatori. Il definitivo via libera sarà dato il prossimo 4 luglio. Non è escluso che in futuro, grazie al calo di influenza di Macron, alcuni punti dell’accordo possano essere ammorbiditi.
Niente tagli dei tassi, siamo americani
Mentre Parigi soffre, Wall Street si dimostra in ottima salute. New York ha continuato a macinare record nonostante alcune materie prime siano scese un po’, portando con sé timori sulla crescita per i prossimi mesi. In ogni caso, la Borsa va bene, l’economia va bene e la Federal Reserve non ha nessun motivo per affrettarsi a tagliare i tassi. La riunione del Fomc (Federal Open Market Committee, principale organismo di politica monetaria della banca centrale americana) della scorsa settimana ha confermato una decisione che appariva scontata: nel Paese dello Zio Sam il costo del denaro rimane lo stesso. Probabilmente la Fed taglierà i tassi una sola volta entro fine anno, a causa dei dati e delle previsioni sull’inflazione, peggiori rispetto a quanto si pensava. A quanto è lecito pensare, anche la Bce seguirà una strategia conservativa, limitandosi a un solo intervento dopo la sforbiciata simbolica di questo mese.
Uno sguardo sull’Estremo Oriente
L’economia cinese è in miglioramento, anche se l’atavica opacità che contraddistingue gli affari del “gigante del Far East” rende difficile comprendere in che misura. Sicuramente, in questi ultimi due mesi, il mercato cinese è andato meglio; tuttavia, occorre precisare che il suo punto di partenza si trovava su basi molto basse e su prezzi sicuramente interessanti. Pechino rimane un mercato di flussi condizionato anche dai suoi rapporti con l’Occidente, in un periodo in cui gli Stati Uniti non stanno investendo nel Paese per motivi politici. In Estremo Oriente si rileva anche il crollo dello yen, mentre la banca centrale giapponese prosegue nella sua politica di tassi a zero. In queste condizioni, che si verificano mentre la Fed non taglia e la Bce lo fa in modo molto marginale, è chiaro che la moneta nipponica sia poco attraente per gli investitori: la perdita dello yen contro l’euro, superiore all’8%, è strettamente legata alla dinamica dei tassi. Tokyo può vantare però un punto a favore: il debito pubblico giapponese è quasi interamente detenuto da soggetti pubblici e privati del Paese.
Elezioni europee, gli impatti sui mercati
Il punto settimanale di Carlo Vedani – AD di Alicanto Capital SGR – sulla situazione dei mercati finanziari.
Sono ormai definitivi i risultati delle elezioni europee, che hanno visto il boom dei partiti anti-sistema (soprattutto di destra, ma non solo), la crescita dei popolari, il calo dei socialisti e dei liberali e il crollo dei movimenti ecologisti. Se facciamo la conta dei seggi e ci basiamo sulle nude cifre, non dovrebbe cambiare molto: la “maggioranza Ursula” sembra tenere. Tuttavia nel 2019 l’attuale Commissione, con uno scarto ben maggiore, riuscì a ottenere l’ok del parlamento per meno di dieci voti, e per farlo dovette ricorrere alla fiducia di un partito, come i Cinque Stelle, fino a poco tempo prima contrario a questa coalizione. I popolari avranno il difficile compito di creare una maggioranza più ampia, magari conferendo un ruolo cruciale ai conservatori, nonostante la contrarietà dei socialisti. Il compito del Ppe è prevedibilmente molto difficile e a complicarlo ulteriormente c’è la disomogeneità del partito, che in ogni Paese ha una collocazione peculiare e spesso molto differente nello spettro politico.
Totocommissione
Incertezza anche sul nome del nuovo presidente di commissione: se Ursula von der Leyen sta insistendo per ottenere un secondo mandato, non è escluso che alcune voci dissenzienti tra i popolari (soprattutto tedeschi) cerchino di proporre un nome alternativo, meno legato alle politiche di green deal spinto e alle scelte di politica internazionale della Commissione uscente. Non è così improbabile l’indicazione di un nuovo candidato in grado di riassorbire parte delle proteste che hanno portato alla crescita dei partiti sovranisti. Un segnale, quest’ultimo, che può essere interpretato dai popolari come un campanello d’allarme: se a questo giro la maggioranza storica è riuscita a confermarsi, non è detto che sia così alla prossima tornata elettorale. Per questo, le linee politiche della precedente Commissione saranno forse un po’ annacquate.
Anche perché il terremoto elettorale è avvenuto soprattutto nelle due locomotive d’Europa, dove il voto di protesta si è rivelato particolarmente forte. In Germania il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha superato la Spd del cancelliere Olaf Scholz, piazzandosi al secondo posto dopo i popolari della Cdu-Csu. Successo, pur con meno seggi, anche della lista di sinistra massimalista e sovranista di Sarah Wagehnecht, ex capogruppo al Bundestag della Linke, che ha ottenuto il doppio dei seggi rispetto al suo ex partito. I due movimenti, pur su posizioni opposte, hanno raccolto il voto dei lavoratori colpiti del rialzo dei prezzi causato dal green deal e al progressivo disimpegno delle forze di governo dai problemi sociali. In Francia, la situazione è ancora più instabile: più di un seggio su due è stato assegnato al variopinto mondo anti-sistema (i partiti di destra e di sinistra radicale). Questo tsunami ha convinto il presidente Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale e a convocare le elezioni legislative fra tre settimane. Un vero azzardo da poker, da “o dentro o fuori”, mosso dalla speranza di formare un fronte nazionale capace di riunire i partiti contrari al Rassemblement National di Marine Le Pen, attualmente primo partito francese.
Green deal: rinegoziazione in vista?
Un cambio di rotta della maggioranza (soprattutto se saranno coinvolti i conservatori) avrà un’inevitabile conseguenza: la rettifica delle strategie “verdi” che hanno creato malumori ad agricoltori, aziende produttrici di automobili e proprietari di casa. Difficile che si arrivi a una situazione da tabula rasa; non improbabile però che i vincoli di rotazione delle colture, già depotenziati, siano ulteriormente indeboliti, che le norme sulle emissioni degli allevamenti siano ammorbidite e che le misure sulle case green vengano completamente ripensate. Più difficile, ma non impossibile, un intervento sulla data del 2035, che dovrebbe sancire lo stop alla produzione dei motori endotermici.
Ita-Lufthansa: la crisi di Macron favorisce l’accordo?
Prima delle elezioni europee era dato per probabile un “no” del commissario alla Concorrenza Margrethe Vestager all’operazione Ita-Lufthansa, E questo sebbene la compagnia di bandiera tedesca avesse accettato di tagliare i voli tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ora, però, le carte finiranno forse per rimescolarsi. Non tanto per i dubbi sulla riconferma di Margrethe Vestager (la decisione, prevista per il 4 luglio, precederà il voto sulla nuova Commissione Europea), quanto per l’estrema debolezza di Emmanuel Macron, che rende molto meno sostenibile una decisione intransigente di stampo filo-francese. La sconfitta dell’inquilino dell’Eliseo alza dunque le probabilità di un accordo fra la Commissione Europea e Lufthansa, messo a rischio dalle richieste esose dell’Ue.
Le reazioni delle Borse
Vista la situazione, è comprensibile che la Borsa più influenzata dai risultati sia stata quella di Parigi, che ha pagato l’incertezza per l’improvvisa scadenza elettorale estiva lasciando sul campo il 2%. Per il resto, le reazioni sono state abbastanza tiepide: l’euro ha subito un arretramento dello 0,6%. Per ora, uno scostamento non preoccupante. Lo spread Btp-Bund è invece salito sopra quota 140, con un tasso oltre il 4%. Più che una conseguenza dei risultati italiani (unico caso, tra i paesi maggiori dell’Unione, in cui il governo in carica ha visto salire i suoi consensi), la crescita del differenziale sembra correlata alle incertezze generali nell’Unione Europea. Incertezze che però non hanno influenzato Piazza Affari, il cui andamento ha seguito altre logiche. Non è una sorpresa che le Borse siano più sensibili alla politica monetaria delle banche centrali piuttosto che alle indicazioni della politica – a meno che, ovviamente, intervenga un periodo di forte perturbazione come quello francese. La volatilità delle Borse resta marginale, anche se in giugno ha un po’ virato verso l’alto, con la comparsa di una dispersione dei rendimenti. Attualmente, a evidenziare performance non soddisfacenti sono soprattutto i petroliferi, ridimensionati dal rientro del greggio nella fascia compresa tra 75 e 85 dollari al barile. Questi titoli possono dunque dimostrarsi appetibili. Mentre sembra convenire ancora il mantenimento in portafoglio delle azioni bancarie, spinte dalle nuove frenate sui tassi.
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